QUADERNI EUROPEI SUL NUOVO WELFARE

Riflessione di inizio 2018 sulle riforme delle pensioni

Sembra che la crisi del 2008 abbia marcato un cambio di direzione delle riforme: dalla flessibilità dei requisiti di pensionamento con adeguamenti attuariali degli assegni alle modalità flessibili con cui restare in attività per raggiungere requisiti puntuali. Perché e come?

Pur nella diversità che i sistemi pensionistici da sempre hanno nel confronto internazionale, nel decennio precedente la crisi economica del 2008 si era andata affermando una tendenza a riformare le regole verso schemi flessibili nei requisiti anagrafico-contributivi, con più ampia possibilità di scelta dell’età di pensionamento da parte del lavoratore, controbilanciata da correttivi in aumento o in diminuzione (premi e penalità) dell’assegno a seconda che l’età fosse anticipata o posticipata.

In Italia, questo approccio era persino divenuto l’ossatura portante del sistema pensionistico per i neoassunti dopo il 31 dicembre 1995, in combinazione con il criterio di calcolo contributivo ad accumulazione nozionale della pensione. Impostazioni simili erano emerse anche in Svezia e Polonia. In altre realtà, invece, a parità di struttura del sistema, stava prendendo piede, in modalità differenti da caso a caso, l’applicazione di penalties e bonuses per incentivare il posticipo del pensionamento su basi volontarie, lasciando la possibilità di uscita anticipata con importo della pensione corretto al ribasso1. Come testimonia l’”Aging Report 2015”, a oggi sono 18 i paesi UE che fanno ricorso a penalties and bonuses.

Gli aspetti positivi della flessibilità dei requisiti di pensionamento sono numerosi, riconosciuti in letteratura:

  • rispetto dell’eterogeneità delle preferenze e delle scelte individuali;
  • mantenimento dei livelli di produttività (che presumibilmente calano quando si è costretti a rimanere attivi controvoglia);
  • sostegno al fisiologico turnover giovani-anziani sui posti di lavoro;
  • naturale predisposizione a permettere uscite anticipate (prima del compimento del requisito anagrafico per la vecchiaia o del requisito contributivo pieno per l’anzianità) a lavoratori con carriere lunghe o svolte in mansioni usuranti e pericolose;
  • naturale predisposizione a permettere combinazioni in regime di cumulo tra pensione e reddito da nuova attività lavorativa, anche part-time o con ridefinizione delle mansioni, così offrendo altra soluzione per i lavoratori con carriere lunghe o svolte in mansioni usuranti e pericolose.

Alla base di questa tendenza di riforma, comune a più Paesi, v’era un principio di fondo che si stava anch’esso affermando a livello internazionale (sicuramente a livello europeo): quello di sviluppare un welfare system non eccessivamente assorbito dalle pensioni, capace di presidiare gli altri capitoli di spesa (sanità, famiglia, minori, non autosufficienze, accesso all’abitazione, formazione del capitale umano, politiche attive e passive per il lavoro, etc.) e di fronteggiare le necessità di tutte le fasi della vita il più possibile “in tempo reale”.

Rispetto a questa tendenza la crisi del 2008 sembra aver marcato una cesura, coglibile anche seguendo le diverse edizioni annuali di “Pensions at a Glance” dell’OCSE o confrontando le versioni degli “Aging Report” della Commissione europea. Restano sempre validi gli obiettivi di rinforzare gli istituti di welfare diversi dalle pensioni e, in particolar modo, le politiche per il lavoro e per i giovani ma, rispetto al pre crisi, appare cambiato il paradigma di flessibilità. Nelle riforme realizzate dal 2008 a oggi, l’attenzione si sposta dalla flessibilità dei requisiti anagrafici e contributivi, con applicazione di penalties e bonuses, verso le modalità flessibili con cui è possibile prolungare il lavoro per arrivare a soddisfare requisiti di pensionamento più stringenti (soglie puntuali di età e/o anzianità) e crescenti nel tempo assieme alla vita attesa.

In altri termini, se prima la prospettiva era quella di intervalli di età anagrafica e/o di anzianità contributiva entro i quali ci si poteva pensionare con assegni più o meno elevati a seconda che ci si ritirasse prima o dopo, nel post crisi gli intervalli si restringono o sono sostituiti da soglie puntuali (di età e di anzianità) che devono essere soddisfatte perché la pensione inizi a decorrere.

Dopo la crisi, quasi tuti i paesi, Italia inclusa, hanno adottato misure restrittive ad ampio raggio sui pensionamenti e, tra queste, aumenti con effetto immediato o quasi immediato dei requisiti di pensionamento ed eliminazione o riduzione significativa delle possibilità di pensionamento anticipato2. Sono proprio queste misure che, dal 2009 a oggi, hanno fatto aumentare l’età media effettiva di pensionamento dell’UE-25 di quasi un anno e mezzo per le donne e di circa un anno per gli uomini3.

Per l’Italia il cambiamento è stato profondo e le misure pensionistiche adottate nel dopo crisi hanno rappresentato un vero e proprio abbandono del pensionamento flessibile nell’accezione con cui era comparso nel 1995 come tassello della riforma “Dini”.

È accaduto che in parte la crisi ha mutato i vincoli a breve-medio termine delle finanze pubbliche obbligando a rivedere le regole dei sistemi pensionistici, e in parte la stessa crisi ha velocizzato quelle riflessioni, cui si faceva riferimento nei capoversi precedenti, sulla dinamica della spesa pensionistica e sulla composizione della spesa complessiva per welfare nel lungo termine. All’interno di questo “nuovo corso”, l’Italia non è affatto una eccezione, nonostante il dibattito nazionale (dei media ma anche di alcune parti del mondo accademico) ne sottolinei a volte la singolarità (requisiti di pensionamento troppo alti o addirittura esosi, parametri incompatibili con il mercato del lavoro dei giovani e con la resistenza psicofisica degli anziani).

Da subito bisogna impegnarsi nello sviluppo della nuova idea di flessibilità, quella in uscita, intesa come modalità per alleggerire gradualmente il carico di lavoro negli ultimi anni prima del raggiungimento dei requisiti per la decorrenza della pensione, permettendo varietà di scelte adattabili alle esigenze individuali4.

Un contributo significativo potrebbe arrivare dalla strutturazione legislativa e promozione di accordi tra lavoratore e datore di lavoro di progressivo rimansionamento, con passaggio a funzioni meno gravose ma nelle quali l’esperienza sia elemento saliente e fonte di esternalità positive sui processi produttivi. Il rimansionamento potrebbe combinarsi con regole di base che favoriscano, anche con opportuni incentivi contributivi, che gli ultimi 3-5 anni di lavoro siano svolgibili in modalità part-time (orizzontale e/o verticale) con percentuali di riduzione dell’orario lavorativo adattabili al singolo caso5. Altro ganglio di flessibilità potrebbe arrivare dal telelavoro e dalla sua evoluzione smartworking o lavoro agile come lo si è definito nel dibattito italiano6. Per le Pubbliche Amministrazioni un contributo positivo arriverebbe anche dal miglioramento della mobilità interna tra funzioni di uno stesso ufficio e tra uffici.

Si constata, invece, che su tutti questi punti, importanti per una effettiva e lungimirante strategia di governo dell’invecchiamento, il dibattito italiano è carente o addirittura assente. Nei mesi scorsi il confronto tra le Parti, sull’innalzamento dei requisiti pensionistici dal 1° gennaio del 20197, si è sviluppato integralmente sulla necessità della sua applicazione contro il presunto buon senso di una disapplicazione integrale o selettiva8.

L’auspicio è che l’agenda politica possa presto arricchirsi e approfondirsi sul piano tecnico per poter utilizzare e combinare tutte le leve di azione disponibili. Ben disegnato e articolato, l’allungamento della vita lavorativa con uscita graduale potrebbe essere l’anello giusto per tenere assieme il ricambio anziani-giovani sui posti di lavoro, il contenimento della spesa per pensioni, il rafforzamento degli altri capitoli del welfare e, nel complesso di questo mix, anche la crescita.

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1 Si veda Carone G. et alii (2016), “Pension Reforms in the EU since the Early 2000’s”,pag.8 e segg..
2 Si veda Carone G. et alii (2016), cit..
3 Si veda OCSE (2017), “Pensions at a Glance”.
4 Si veda OECD (2017), cit.; in particolare il capitolo 2, Flexible Retirement in OECD Countries, e l’Annex 2.A2.
5 Tra le funzioni verso cui orientare il rimansionamento e il part-time, una posizione specifica potrebbe essere prevista per la trasmissione del know-how ai più giovani, con periodi di affiancamento e alternanza.
6 Il lavoro agile è stato introdotto in Italia con la Legge 22 maggio 2017, n. 81 (il cosiddetto Jobs Act del lavoro autonomo). Si veda dal sito web del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali www.cliclavoro.gov.it/Aziende/Pagine/Smart-working.aspx
7 Per effetto dell’aggancio automatico ai progressi della vita attesa, in attuazione del combinato disposto della riforma “Sacconi” del 2010 e della riforma “Fornero” del 2011.
8 La legge di bilancio per il 2018 ha optato per la disapplicazione a favore di 15 categorie di lavoratori che hanno svolto mansioni faticose e pesanti.