QUADERNI EUROPEI SUL NUOVO WELFARE

Eutanasia?

Un problema venuto alla ribalta nella “civiltà” occidentale in questi anni è quello della legalizzazione del suicidio. Senza alcuna pretesa di risolvere l’ampiezza degli interrogativi proposti dalla drammatica decisione del suicidio, possiamo ragionare sui condizionamenti culturali e di convenienza alla base di queste proposte. Potrebbe sembrare facile sarcasmo l’annotazione che esistono problemi vitali, altrettanto drammatici, che interessano un numero assai più ampio di individui rispetto ai suicidi e che, invece, incontrano la più assoluta indifferenza della nostra società.

Piuttosto, l’annotazione vuole giustificarci nella ricerca delle motivazioni di questa nuova, specifica compassione. Istinto di conservazione è definito il senso di paura che ci porta ad allontanarci dai pericoli mortali. Dobbiamo effettivamente riconoscere la forza istintuale di questa nostra paura, ad esempio quando ci allontaniamo dalla balaustra della top deck al 102° piano dell’Empire State Building oppure al luna park, quando iniziamo la discesa in un carrello del loop. Razionalmente, non sono spiegabili gli innumerevoli esempi di persone che non hanno trovato la forza di uccidersi pur di evitare torture mortali. Il suicidio, attualmente, è considerato l’esito più grave della malattia ansioso-depressiva, un’alterazione della psiche mediamente conosciuta dal punto di vista biomedico nelle componenti fisiopatologiche e biochimiche e trattabile, entro certi limiti, sia farmacologicamente che con la psicoterapia. Mentre nelle forme più gravi e più difficilmente curabili lo stato depressivo prescinde dalla realtà dell’individuo, esiste un’ampia gamma di forme meno gravi di questa malattia. In questi casi, la realtà dell’individuo, quanto la terapia, giocano un ruolo importante nel determinarne l’andamento. Si parla, ad esempio, di “depressione situazionale” per le persone che si tolgono la vita in seguito a un lutto, o alla perdita del lavoro, o della persona che amano. A dire, che situazioni capaci di causare sofferenza in chiunque, in queste persone emotivamente più labili e in assenza di un supporto affettivo o farmacologico possono portare alla decisione del suicidio. Durante le guerre, non si contano le donne che perdono il marito, il padre dei loro figli, eppure il suicidio tra queste vedove è eccezionale. Leggevo, ormai molti anni fa, nella relazione di una direttrice del Memorial Sloan-Kettering Cancer Center di New York, l’osservazione che in nessun caso di pazienti in fin di vita assistiti dai famigliari era richiesta la possibilità di affrettare la morte, mentre questo avveniva in qualche caso di persone rimaste completamente sole. Pur essendo che oggi è possibile eliminare ogni tipo di sofferenza fisica nelle persone malate, indubbiamente, il condizionamento di una mentalità che limita il valore dell’individuo alla sua realizzazione nell’avere e nel fare da una parte e una labilità emotiva in senso depressivo dall’altra possono portare le persone a non ritrovare più un senso per la propria esistenza, ogni desiderio di vivere. Finora, nel credere alla preminenza dell’istinto di conservazione in ognuno, si era naturalmente portati a impedire a queste persone di portare a compimento l’idea suicida. Avendone la possibilità, nell’aiutarle a uscire dalla spirale depressiva che le attanaglia. Comunque, nel tentare in ogni modo di salvarle dalla morte. Sia nel caso uno si sporga da un ponte o da un cornicione di un palazzo in atteggiamento suicida, sia che venga ricoverato per auto-avvelenamento in un reparto di emergenza. Se posso spendere ancora una parola di giustificazione per questa volontà di soccorso, dico che l’idea di fondo è che se uno effettivamente desidera morire riesce a farlo prevenendo ogni possibilità di essere aiutato. Appare, altrimenti, come un’estrema richiesta di aiuto, di considerazione, di un minimo affetto, di solidarietà. L’idea di legalizzare il suicidio è congeniale alla mentalità relativista/soggettivista: non sono giustificato nel discutere le ragioni che portano un altro al suicidio, non ho nessun diritto di fermarlo. Atto di giustizia è preoccuparsi di normalizzare il suicidio. Fermare un suicida diventa una colpa, un atto illegale. Dunque, atteggiamento assolutamente congeniale all’ideologia relativista, ma resta ancora da individuare chi può ottenere una convenienza nella legalizzazione del suicidio, o buona morte (eutanasia) che desideri definirsi. Non è poi tanto difficile. La compassione per i malati terminali è argomento di effetto, comunque un argomento toccante. Nella mentalità edonistica che ci accompagna, quella del malato terminale è una situazione di perdente, senz’altro assai compassionevole. Dal punto di vista delle convenienze, i malati terminali non sono più utili a nessuno, sono diventati cose inutili. Essi stessi si sentono inutili fantocci. Dunque, la loro eliminazione non nuoce ad alcuno. Ogni partito politico avrà interesse a cavalcare la causa dell’eutanasia. La maggioranza sarà chiamata a esprimere una verità assoluta di giustizia, a favorire la libertà del singolo nelle proprie decisioni: soddisfatta la pietosa maggioranza, soddisfatti i politici. Ma chi, in definitiva trova il maggiore interesse nel suscitare il problema? Chi ne trarrebbe i maggiori guadagni? Assolutamente le compagnie assicurative, come quanti abbiano a gestire pensioni e sanità pubblica, che man mano si troveranno a sostenere le spese di un numero sempre più ridotto di pazienti terminali e individui affetti da malattie croniche in genere, situazione che prima o dopo riguarda la quasi totalità degli individui. Oggi, la quasi generalità dei medici si opporrebbe all’idea di sopprimere volutamente un paziente. Chi ha scelto di dedicare la vita a curare chi soffre per una malattia, nell’avvertire intimamente l’adagio “se puoi curare, cura, se non puoi curare, lenisci, se non puoi lenire, consola” nell’uccidere i propri pazienti verrebbe a vanificare il senso della propria professione, probabilmente della propria esistenza. Ma possiamo aspettarci che, tra breve tempo, all’atto dell’assunzione in qualsiasi struttura sanitaria, ai medici verrà richiesto di sottoscrivere la propria disponibilità a farlo. Indubbiamente, fino ad allora, il condizionamento mediatico avrà operato nel convincere i medici della naturalezza di queste operazioni. Subentrerà il concetto della giustezza della legge, perché è voluta dalla maggioranza, perché è legge. Stimolati dal comune modo di sentire, i pazienti stessi si convinceranno a richiedere l’eutanasia contestualmente alla diagnosi dell’inguaribilità della loro malattia. Comunque, le assicurazioni saranno giustificate nel negare la copertura economica per cure o pensionamento a pazienti definiti inguaribili, indipendentemente dall’ampiezza delle loro prospettive di vita. Le ragioni dei pazienti inguaribili che desiderino continuare a vivere, una minoranza senza più forza e voglia di combattere, in quanto espressione di una minoranza in una società relativista, per definizione appariranno infondate, atteggiamento capriccioso, risulteranno perdenti. Ormai abituati a eliminare i pazienti, gli stessi medici saranno portati ad affrettare il decesso di pazienti di particolare gravità e complessità di cura, possibilmente a richiesta dei parenti dell’ammalato. A leggere le proiezioni della spesa sanitaria nei prossimi decenni [v. articolo online di Nicola C. Salerno in Quaderni europei sul nuovo welfare n.23, 2014 – Suppl. Dicembre], sinceramente, non vedo alternative a queste possibilità del prossimo futuro, possibilità di soddisfazione per quasi tutti. Quanto vale per il termine eutanasia, riesumato dalla Germania Hitleriana per questo programma, voce che ottiene ormai da parte nostra una qualche gradevolezza, pure includendo il termine di thanatos della lingua greca, da leggere tzanatos, violento quanto lugubre, alquanto espressivo della repulsione per la morte.