Parte terza: La persona anziana dipendente nella società postmoderna
Dalla fragilità alla dipendenza
Concentrando lo sguardo sul “deterioramento fisiologico” dei grandi vecchi, la letteratura gerontologica mette in evidenza che, nel momento in cui si manifesta un marcato incremento delle patologie e delle disabilità ad esso collegate, la salute della persona è già segnata da una condizione di fragilità.
La fragilità è un concetto nuovo che è andato affermandosi, sulla base dell’assistenza clinica alle persone anziane e della ricerca sull’invecchiamento, a partire dalla seconda metà degli anni ’80 (Bergman, Bèland, Karunananthan, Hummel, Wolfson,2004). In precedenza essa veniva associata all’incapacità, alla presenza di una malattia cronica, alla vecchiaia estrema o, ancora, al bisogno di fare ricorso ai servizi geriatrici.
La fragilità resta tuttavia un concetto ambiguo. In ambito clinico esso viene usato in riferimento alle persone anziane vulnerabili che sono esposte a rischi elevati di varia natura. Contrariamente ai loro coetanei “non fragili”, queste persone sembrano incapaci di resistere alle aggressioni causate alla loro salute da variazioni di temperatura, da ferite e da malattie acute. Queste aggressioni rischiano di provocare un circolo vizioso in cui la persona anziana fragile non riesce più a ristabilirsi e a tornare al suo stato di salute anteriore.
In campo gerontologico esiste oggi una convergenza di vedute intorno al tema della fragilità, letta come una sindrome complessa di vulnerabilità, individuabile e valutabile sia in ambito clinico che in ambito sociale. “Essa consiste in una diminuzione dell’omeostasi e della resistenza di fronte agli stress che aumenta la vulnerabilità e i rischi di effetti nefasti quali la progressione di una malattia, le cadute, le incapacità e la morte prematura. Le persone fragili presentano un tasso più elevato di ricorso ai servizi a lungo termine e al ricovero in istituzione. E’ anche sempre più riconosciuto che la fragilità (…) deriva dall’interazione complessa tra diversi fattori: biologici, psicologici, cognitivi e sociali” (Lebel, Leduc, Kergoat, Latour, Leclerc, Belande, 1999).
Uno degli approcci più articolati alla fragilità è quello elaborato da Fried e dai suoi collaboratori (Fried, Ferrucci, Darer, Williamson, Anderson,2004; Fried, Tangen, Waltson, Newman, Hisch, Gottdiener,2001) che propongono cinque caratteristiche per definirla: la debolezza, la riduzione della resistenza, la restrizione dell’attività fisica, il rallentamento del cammino e la perdita di peso involontaria nel corso dell’ultimo anno. Secondo tale approccio, le persone che presentano almeno tre di queste caratteristiche sono da intendersi fragili, mentre sono da considerare prefragili quelle che ne presentano una o due. I fragili sono più esposti al rischio di cadere, di sviluppare delle limitazioni funzionali e motorie, di essere ospedalizzate e di morire nel giro di tre anni.
Nell’età avanzata, il passaggio dalla fragilità alla dipendenza non è inevitabile, ma è molto probabile.
Nonostante lo sviluppo degli strumenti di valutazione multidimensionale la nozione di dipendenza continua a mantenere un carattere di fluidità. La ragione è che il declino delle capacità fisiche e mentali non investe né ineluttabilmente, né nello stesso modo, né nello stesso ordine le persone anziane. La pluralità delle patologie e la diversità delle situazioni di vita rende impossibile la categorizzazione universale di questi soggetti.
Secondo studi recenti (Baltes, Linderberger,1997) il bisogno di aiuto quotidiano originato dalla perdita di funzionalità sarebbe più correlato a fattori di natura sensoriale-motoria e intellettiva, che ad un aumento della morbilità generale, anche multipla. Quest’ultima rappresenterebbe, infatti, solo un fattore di rischio per la funzionalità, ma, da sola, non sarebbe sufficiente per predire il bisogno di aiuto.
Più che all’aumento delle malattie la longevità è correlata alla perdita di funzionalità sensoriale.
Consideriamo il caso, ad esempio, di una persona anziana e cardiopatica: essa può essere sufficientemente autonoma nella sua vita quotidiana e di relazione, ma, se ha deficit di percezione visiva, magari manifesti da tempo, non potrà assolvere attività quotidiane che richiedono anche capacità senso-motorie. Inoltre, il deficit sensoriale diventa funzionalmente rilevante quando innesca perdite in altri domini dando luogo a quella deprivazione sensoriale le cui conseguenze a lungo termine possono ridurre la stimolazione intellettiva e aumentare l’isolamento sociale.
Un altro meccanismo che può essere inibito dalla perdita sensoriale è il maggior bisogno di risorse attentive per percepire e interpretare gli input ambientali.
Il solo carattere universale della dipendenza è che essa introduce, a prescindere dal suo livello, cambiamenti radicali nell’equilibrio di vita della persona (Pitaud, 2004).
In condizioni di fragilità il cambiamento in un ambito si ripercuote inevitabilmente in altri ambiti, dando luogo ad un accumulo di svantaggi che possono avere conseguenze disastrose sull’identità e sulla vita quotidiana della persona.
Le ricerche condotte in campo psicologico da Birren e Cunningham (Birren,Cunningham,1985) sulla natura e sull’incidenza dei cambiamenti che possono insorgere nella grande vecchiaia, li ha portati ad elaborare la teoria del pattern del declino terminale, secondo cui, nella fase finale della vita, cambiamenti di natura non patologica, in corso da molto tempo, si incontrerebbero con cambiamenti di natura patologica, dando luogo a quello che viene definito un invecchiamento a cascata. Come se il funzionamento “deteriorato” acquistasse rapidità rispetto al funzionamento “ottimale”, raggiungendo una velocità di “cascata che forza l’individuo oltre l’orlo della vita”.
Consideriamo, ad esempio, l’incontinenza, un problema assai diffuso fra le persone in età avanzata. Osservandolo secondo una prospettiva multifattoriale, ci accorgiamo che il suo insorgere introduce cambiamenti nella vita della persona che investono contemporaneamente più ambiti.
Sul piano psicologico, la principale alterazione è di natura emotiva e si riflette sull’immagine di sé della persona che ne è affetta. Di fronte all’incontinenza la persona adulta prova generalmente sentimenti di imbarazzo, di vergogna o di disgusto che si possono tradurre in un vissuto di incompletezza. Sentimenti che possono portare alla negazione del problema, al rifiuto di conoscerlo o di rivelarlo agli altri.
Sul piano della vita di relazione, nonostante sia possibile con diversi accorgimenti e con qualche piccola rinuncia, mettere in condizione le persone incontinenti di condurre una vita normale, molte di loro, anche quando affette in forma lieve da questo problema, tendono a chiudersi in se stesse ed evitare i contatti sociali. Le opportunità di impegno e di divertimento sono a volte notevolmente ridotte. Per queste ragioni la persona incontinente è fortemente esposta al rischio dell’isolamento sociale, della solitudine e della depressione.
Sul piano fisico, l’incontinenza può contribuire a un ulteriore peggioramento dello stato di salute. Gli stimoli frequenti a urinare possono indurre la persona a limitare l’assunzione dei liquidi, accentuando, in questo modo, la stitichezza, la disidratazione, la confusione cerebrale, l’instabilità della vescica, ecc..
Nella vita quotidiana, l’incontinenza può contribuire anche all’appesantimento del lavoro domestico. Necessitando di un corredo di capi di abbigliamento molto più ampio di quello di una persona continente, la persona che non lo è, deve sostenere carichi di lavoro domestico (bucato, stiratura, riparazioni) molto più elevato.
Anche sulla fruibilità sociale dello spazio domestico l’incontinenza può esercitare un pesante condizionamento: per chi visita una persona incontinente, confinata in casa, può essere notevolmente disturbante la percezione di un cattivo odore o la vista di biancheria sporca in bagno, di una comoda in soggiorno, così come di file di indumenti stesi ad asciugare lungo un corridoio. Ciò può scoraggiare le visite accentuando ulteriormente l’isolamento sociale della persona anziana.
L’incontinenza può avere, infine, anche una ripercussione sul piano delle disponibilità economiche: il costo del bucato, del riscaldamento dell’acqua, della pulizia e del ricambio della biancheria, dei vestiti, dei mobili, dei tappeti, rappresenta una fonte di spesa che può limitare notevolmente la qualità della vita della persona incontinente.
Una tipologia di anziani dipendenti
Pur riconoscendo la grande varietà di combinazioni tra componenti fisiche e psichiche che possono caratterizzare la dipendenza, è possibile delimitare alcune tipologie di anziani dipendenti con caratteristiche comuni.
Utilizzando, ad esempio, la scala di valutazione della dipendenza AGGIR (Autonomie Gérontologique. Groupes Iso-ressources) adottata in Francia nel campo dell’assistenza a domicilio, è possibile distinguere cinque categorie di anziani dipendenti (Pitaud,2004).
La prima è composta da persone gravemente dipendenti che, in seguito alla perdita di ogni autonomia fisica, mentale, corporea e sociale, necessitano di un assistenza continua. Queste persone sono confinate a letto o in poltrona. A questo gruppo appartengono anche le persone in fin di vita.
La seconda riunisce sia individui che sono confinati a letto o in poltrona, ma le cui funzioni mentali non sono compromesse, sia individui dalle funzioni mentali alterate che hanno conservato le loro capacità motorie. Queste persone hanno bisogno di un aiuto per la maggior parte degli atti della vita quotidiana.
La terza è costituita da persone che hanno conservato la loro autonomia mentale e un’autonomia motoria parziale. Esse necessitano di aiuti quotidiani importanti, più volte al giorno, per soddisfare i loro bisogni corporei. Inoltre, la maggioranza di esse non è in grado di provvedere da sola all’igiene e all’eliminazione urinaria e fecale.
La quarta raggruppa le persone che hanno bisogno di un aiuto per alzarsi, coricarsi, sedersi, ma che, una volta in piedi, possono spostarsi autonomamente all’interno dell’abitazione. Queste persone devono, in alcuni casi, essere aiutate nel lavarsi e nel vestirsi e gran parte di loro assumono i pasti senza aiuto. Altre non presentano problemi di deambulazione, ma hanno bisogno di assistenza per le attività corporee e per i pasti.
La quinta, infine, si compone di persone che si spostano, si vestono e si alimentano da sole, ma che hanno bisogno di un aiuto per lavarsi, preparare i pasti e fare le pulizie domestiche.
La distruzione del “mondo condiviso”. L’esperienza soggettiva della vecchiaia dipendente
L’antropologia medica ci insegna che il processo di deterioramento fisico della vecchiaia avanzata va considerato come un evento che non si manifesta nel corpo, ma nella vita della persona, poiché il suo effetto si produce sul corpo nel mondo della persona anziana (Good,1999).
L’estendersi delle patologie e delle incapacità funzionali segna l’inizio di una fase critica dell’esistenza, di natura quasi sempre irreversibile, che sconvolge la struttura della vita quotidiana della persona, esponendola a un vissuto di lontananza e di incomprensione nei confronti di un mondo fino a quel momento dato per scontato e condiviso con gli altri (Marzano, Romano,2007).
Nella pratica medica, benché in molti casi l’interpretazione oggettivistica del corpo si possa rivelare di grande utilità, la separazione tra l’analisi dei processi fisiologici e quella dei fenomeni psicologici e sociali – cui essi danno luogo- può generare forme di profonda incomprensione dei bisogni di cura e di assistenza della persona anziana dipendente. Una netta distinzione tra il mondo degli oggetti fisici e gli stati mentali della persona malata, soprattutto quando quest’ultima è esposta all’esperienza del dolore cronico, può offuscare a tal punto l’interpretazione da rendere i fenomeni illeggibili. Il dolore causato dalla malattia rappresenta, infatti, una sfida a uno dei principi cardine della biomedicina: quello che ritiene possibile la conoscenza oggettiva del corpo umano e della malattia prescindendo dall’esperienza soggettiva della persona malata (Good,1999) 1).
In questo capitolo ci proponiamo di analizzare i vissuti associati alla perdita di efficienza e funzionalità corporea cui sono esposte le persone anziane. Il loro corpo non verrà considerato tanto come dominio o oggetto della pratica medica, quanto come origine creativa dell’esperienza. L’attenzione verrà posta, in particolare, sulla relazione che intercorre tra l’esperienza incarnata e il significato intersoggettivo della cronicità da un lato, e le pratiche sociali che influiscono sul comportamento dei soggetti anziani che ne sono interessati dall’altro.
L’ipotesi interpretativa che verrà utilizzata è quella elaborata da Byron Good (Good,1999) sulla base delle analisi fenomenologiche dell’esperienza della malattia condotte da Alfred Schutz (Schutz,1979), che considera la malattia cronica e il dolore da essa causato, come un fattore di cambiamento e di “distruzione del mondo” (Scarry,1985) nell’esperienza quotidiana della persona malata.
Per illustrare alcuni dei cambiamenti più significativi introdotti dal processo di deterioramento corporeo nelle relazioni con se stessi, con il mondo e con gli altri faremo ricorso al pensiero di Jean Amèry, autore di un testo che, per la lucidità e la profondità dell’analisi, resta a tutt’oggi una testimonianza insuperata su questa difficile età della vita (Améry,1988).
Diventare corpo
Per la persona anziana l’invecchiamento è vissuto come se esso fosse situato nel corpo. “ Ma -come sostiene Byron Good- il corpo non è semplicemente un oggetto fisico o uno stato fisiologico: è una parte essenziale del sé. Il corpo è soggetto, è il fondamento stesso della soggettività e dell’esperienza del mondo, e il corpo come oggetto fisico non può essere distinto nettamente dagli stati di coscienza. La coscienza stessa è inseparabile dal corpo consapevole e perciò il corpo malato non può che essere un agente disturbato dell’esperienza. Per questa ragione (l’invecchiamento corporeo) è percepito come un mutamento nel mondo della vita” (Good,1999).
Il primo segnale di logoramento del rapporto dell’anziano con il suo corpo proviene dalla percezione della sua immagine riflessa che, in modo inatteso e sconcertante, può svelare la trasformazione di ciò che, fino a quel momento, si era presentato in termini di familiarità e gradevolezza in qualcosa che inquieta, impaurisce, insospettisce. Per definire il sentimento prodotto da questo sdoppiamento dell’immagine di sé, Sigmund Freud ha elaborato, sulla base di un’esperienza vissuta in prima persona all’età di sessantatre anni, il concetto di perturbante. In un saggio scritto nel 1919 egli racconta il disagio provato nel vedere, durante un viaggio in treno, la propria immagine di vecchio riflessa dal vetro di una porta e per un attimo non riconosciuta (Freud,1995).
La parola perturbante, nella lingua tedesca, è pervasa da una forte ambiguità in quanto può riferirsi contemporaneamente sia a ciò che è familiare e piacevole, sia a ciò che è nascosto e va tenuto celato perché sgradevole. Il sentimento di perturbamento sarebbe generato dall’incontro con ciò che doveva rimanere segreto ma che è venuto alla luce.
Da vecchi, osservando l’immagine del nostro volto riflessa dallo specchio, ci accade di notare per la prima volta i segni che il tempo vi ha lasciato: una pelle raggrinzita e maculata, uno sguardo spento, una diffusa calvizie … Una visione che, costringendoci a prendere coscienza per la prima volta che possiamo essere nello stesso tempo io e non-io, mette in discussione il nostro io abituale alimentando un senso di inquietudine. Questa disarmonia fra il giovane io, che abbiamo portato con noi inconsapevolmente attraverso gli anni, e il vecchio io, dell’immagine ora riflessa dallo specchio, può suscitare disgusto. Ma in quel medesimo istante possiamo comprendere di essere, indipendentemente dal sentimento di disgusto, più vicini a noi stessi di quanto non siamo mai stati (Améry,1998).
Oltre che in termini di ripugnanza, i sentimenti negativi suscitati dall’esperienza di estraneità verso se stessi, possono manifestarsi nella forma della vergogna, della stanchezza di sè o dell’odio. Espressioni di disamore di sé che possono cronicizzare una condizione di ambiguità che, nelle fasi precedenti della vita, poteva sia pur temporaneamente, essere ricomponibile in univocità. La natura di questa ambiguità non può essere spiegata in termini intellettuali poiché, esistendo “una contraddizione insuperabile tra l’intima persuasione che ci garantisce la nostra immutabilità e la certezza obiettiva della nostra metamorfosi, non possiamo che oscillare che dall’una all’altra, senza mai tenerle fermamente insieme” (Beauvoir de, 1971).
La percezione del cambiamento dell’immagine esteriore del nostro corpo ci annuncia che l’esperienza dell’invecchiamento e della morte non riguarda ormai più soltanto gli altri, ma che è entrata definitivamente a far parte della nostra vita quotidiana. E’ come se, disattivando il meccanismo di rimozione che considerava la morte e l’invecchiamento come fenomeni normali solo per gli altri, essa ci sottoponesse, al pari di una mannaia, a una brutale “reimmissione nel corso della vita e della morte”.
Il riconoscimento del nostro cambiamento corporeo può avvenire anche tramite la percezione della nostra immagine riflessa da quel particolare specchio sociale rappresentato dai nostri coetanei; esperienza incomparabilmente descritta da Marcel Proust nel capitolo finale del Tempo ritrovato. Tornando dopo molti anni nel salotto della principessa di Guermantes, Proust incontra persone che un tempo gli erano state familiari e che ora fatica a riconoscere: “Lì per lì non riuscii a comprendere perché esitassi a riconoscere il padrone di casa, gli invitati, e perché apparisse ciascuno di loro, come se si fosse composto un volto, generalmente incipriato e che li trasformava del tutto. (…) Rimasi stupitissimo, nello stesso istante, sentendo chiamar duca di Chatellerault un vecchietto dai baffi argentei da ambasciatore, nel quale soltanto un angoletto dello sguardo, rimasto identico, mi permise di riconoscere il giovanotto che m’era stato presentato una volta, in visita, a casa della signora di Villeparisis. (…) Una giovane donna che avevo conosciuto in passato, ora incanutita e rattrappita sotto le spoglie d’una vecchietta malefica, sembrava volesse indicare che nella scena finale d’una recita i personaggi devono essere così camuffati da rendersi irriconoscibili”.
Nel corso della serata, la sensazione di estraniamento nei confronti di persone tanto sfigurate da indurre lo scrittore ad immaginare di assistere a una “mascherata tra le più riuscite”, si trasforma nella consapevolezza che il tempo non è passato soltanto per loro. “Allora io m’accorsi […] dalle metamorfosi subite da tutta codesta gente, del tempo per quella trascorso, il che mi scosse profondamente come la rivelazione ch’esso era trascorso anche per me. E a me, indifferente in se stessa, la loro vecchiaia mi desolava come foriera della mia. […] Noi vediamo il nostro aspetto, la nostra età, ma ciascuno, come in uno specchio che lo fronteggi, vede quella dell’altro” (Proust,1955).
Con il crescente aumento delle patologie e delle disabilità, la faticosa ma pacifica convivenza con un corpo in cui non ci riconosciamo, ma che conserva le sue capacità operative, può essere turbata dall’incontro con un corpo che non si presenta più ai nostri occhi solo sotto le sembianze dell’estraneo, ma anche sotto quelle del nemico. Un corpo che, nella giovinezza e nell’età adulta, obbediva all’intenzionalità e che ci metteva in relazione con il mondo e con gli altri, nella vecchiaia non solo non sorregge più, ma diviene un ostacolo. Se prima il corpo era con l’individuo, ora si manifesta come un’entità che agisce contro l’individuo (Mistura,1995).
Poiché agiamo nel mondo mediante i nostri corpi, sono loro il soggetto delle nostre azioni, ed è per loro tramite che esperiamo, comprendiamo e agiamo sul mondo. La perdita di operatività del corpo sottrae all’individuo la possibilità di continuare a sentirsi autore delle proprie attività e a concepirsi come sé totale indiviso (Good,1999).
La natura cronico degenerativa della maggior parte delle patologie geriatriche trasforma il corpo in un nemico sempre più forte e alla fine invincibile . “ E’ vero che anche nel corso dell’invecchiamento ci ammaliamo e che successivamente in senso medico guariamo. Tuttavia nell’invecchiamento dopo ogni guarigione ci troviamo in un punto più profondo della spirale della vita organica: non siamo più sani come lo eravamo in precedenza, per quanto possano essere tranquillizzanti i chiarimenti del medico” (Améry,1988).
Così come l’immagine riflessa dallo specchio ci aveva resi consapevoli dell’esistenza di una parte estranea del nostro sé, le malattie e le disfunzioni della vecchiaia aumentano, paradossalmente, la consapevolezza del nostro stato di salute. “Fino a quando eravamo veramente in pieno possesso delle nostre forze e vivevamo nella certezza di una corporeità sana, non ci sentivamo, non sentivamo il nostro corpo. Non eravamo, per così dire, in noi stessi, ma eravamo là presso le cose e gli avvenimenti del mondo, eravamo fuori di noi, nello spazio che era parte di noi e che ci apparteneva, che era indissolubilmente cresciuto insieme al nostro io” (Améry,1988).
L’irruzione di un corpo pesante e sempre meno funzionale nella vita di ogni giorno costringe la persona anziana a impegnarsi in faticosi processi di mediazione tra l’io-tempo-ricordo, su cui si fonda il suo sentimento di continuità nel corso del tempo, e l’io-corpo-presente, che lo mette in discussione. Tra questi due io si stabilisce una inquietante affettuosità, che raramente giunge al livello del pensiero discorsivo, ma che rafforza il sentimento di ambiguità nel rapporto con se stessi che si era manifestato attraverso la percezione del cambiamento dell’involucro esteriore del proprio corpo. La convivenza con un corpo deteriorato e inefficiente comporta un lavoro di elaborazione emotiva assai più arduo di quello richiesto dall’accettazione di una sgradevole immagine di sé. Al disagio psichico subentra una sofferenza fisica che assume le sembianze della pena e del tormento. La pena è causata dalla confusa semi-consapevolezza dell’incurabilità di un male; il tormento scaturisce dalla certezza che, dopo ogni malattia acuta, possiamo guarire in senso medico, ma che nel nostro vissuto ci alzeremo dal letto più ammalati di quanto non lo fossimo in precedenza.
Scrive Améry:“Mi sento male al pensiero che io sono la mia gamba, il mio cuore, il mio stomaco, che sono tutte le mie cellule, ancora vive ma ormai molto restie a rinnovarsi, e che nel contempo non sono tutto ciò; che quanto più mi accosto ad essi, tanto più divento estraneo a me stesso, pur divenendo me stesso” (Améry,1988).
L’appesantimento del corpo, generato dall’estendersi delle malattie e delle disabilità, non solo rende il mondo più lontano, ma costringe la persona anziana a farsi carico del suo corpo. Per usare la terminologia della fisica, il corpo diviene sempre più massa e sempre meno energia. Questa massa, che l’individuo affetto da invecchiamento avverte in sé, è vissuta come un nemico, un io straniero e autenticamente avverso che lentamente, ma inesorabilmente, va impadronendosi della sua persona e della sua vita. La sensazione è di subire un’aggressione esterna da parte del proprio corpo che può condurre prima all’imprigionamento e poi a una morte concepita in termini di omicidio.
Volendo concludere l’analisi del processo di estraniazione da sé, continuando a utilizzare il linguaggio dell’allegoria proposto da Améry, cui abbiamo fin qui fatto ricorso, potremmo dire che durante il processo di invecchiamento noi siamo noi attraverso il nostro corpo e contro di lui, mentre in gioventù eravamo noi, senza il nostro corpo (in quanto non lo sentivamo) e con lui. Ora che siamo entrati a far parte definitivamente dell’esercito dei vecchi, siamo solo corpo e nient’altro.
Un io privo di mondo
L’indebolimento e la cessazione della funzione di mediazione che il nostro corpo esercita tra noi e il mondo, trasforma quest’ultimo in qualcosa che si sottrae al nostro controllo, che fatichiamo a riconoscere e che, alla fine, diventa un nemico.
Il corpo che con il suo respiro affannoso, con le sue gambe affaticate, con le sue articolazioni logorate, ci isola dal mondo, diviene la nostra prigione. “L’individuo che invecchia è sempre più partecipe di un io privo di mondo” (Améry,1988).
La natura, un tempo profondamente amata, si allontana trasformandosi in una sorta di circolo esclusivo che, nella sua selettività, ci respinge. Calandosi nei panni dell’immaginario testimone cui ricorre per analizzare l’esperienza soggettiva dell’invecchiamento avanzato, Améry racconta le difficoltà che si manifestano sul piano delle relazioni con il mondo: “Egli si rese conto, come il mondo, che pure aveva posseduto come parte della sua persona, fosse divenuto negazione della stessa. (…) Gli altri scalavano le montagne, nuotavano nei laghi, passeggiavano nelle valli: lui era ripudiato e rigettato su se stesso (…) Iniziò a evitare la natura. Adesso gli è diventata del tutto estranea ed egli si ritira nel luogo in cui la sfida da parte di un mondo che è la sua negazione, non lo mortifica ad ogni istante: nella sua stanza” (Améry,1988).
Provati da una insostenibile stanchezza di fronte a un mondo sempre più ostile, tutti, presto o tardi, finiscono col rinunciare all’impari lotta scegliendo il disimpegno. Per tutti, inevitabile come la morte che esso annuncia, arriva il giorno della ritirata, della sconfitta totale di fronte a un mondo divenuto nemico.
Non è solo la perdita di operatività del corpo a generare il sentimento di estraneità nei confronti del mondo: un ruolo importante è giocato anche dalle molteplici perdite, incluse quelle affettive, che contrassegnano l’età avanzata. Queste perdite generano nella persona anziana un sentimento di lutto, che, se non viene adeguatamente elaborato, può influenzare notevolmente la sua percezione del mondo. “Per chi è in lutto il mondo appare inconsueto: le persone sono strane, il paesaggio irreale, i movimenti si fermano a mezz’aria, la natura appare estranea” (Good,1999). Il raffreddamento del sentimento del paesaggio, fa perdere alle case e alle strade il loro senso consueto, defamiliarizzandole. “E’ come se il mondo, smarriti all’improvviso i tratti della familiarità, fosse visto da una creatura di un’altra specie” (Merleau-Ponty,1967).
L’estendersi delle malattie e delle disabilità croniche non modifica soltanto i rapporti con il mondo fisico, ma altera profondamente anche i normali ritmi di vita, cui vanno sempre più sovrapponendosi quelli necessari alle cure a all’assistenza: “La malattia sottopone l’uomo ai ritmi vitali del suo corpo” (Merleau-Ponty,1967). Questi nuovi ritmi non solo creano una sfasatura tra tempo interno e tempo esterno, ma danno alla persona malata la sensazione che il tempo abbia perduto il suo potere organizzativo. E’ questo che si intende con l’espressione perdere il filo del tempo. Rallentando il tempo personale, il dolore fa percepire il tempo esterno nei termini di un’accelerazione che non può essere posta sotto controllo. Ecco perché per dare ordine al tempo sono necessari un atto di volontà e di impegno faticoso che spingono la persona malata a percepirlo come tempo sottratto alla propria vita.
Sconvolto dalla presenza del dolore, il mondo sociale quotidiano della persona non può più essere organizzato nei termini dei suoi progetti intenzionali e dei suoi obiettivi esistenziali, ma è scandito dai ritmi della cura e dell’assistenza. Mentre le persone sane vivono come se il presente si estendesse indefinitamente, grazie alla rimozione della consapevolezza della mortalità, le persone che soffrono di malattie croniche sono costantemente esposte all’esperienza della loro mortalità, che in termini esistenziali si traduce in una sensazione di perdita di credibilità del mondo (Schutz,1979).
Il crollo di un mondo condiviso
Una società che considera bellezza ed efficienza come valori fondamentali non può accettare che il processo di deterioramento corporeo della persona anziana si compia davanti ai suoi occhi. Vergognoso quanto la povertà, il declino fisico, mette in crisi quel sentimento di essere accolti e ben voluti su cui si fonda il principio di reciprocità, e comporta, per la persona che ne è investita, una sorta di delegittimazione comunicativa e relazionale.
Il disgusto di sé provato dall’anziano di fronte all’immagine del suo declino fisico, è rafforzato da un analogo sentimento che gli altri manifestano nei suoi confronti. “La nausea di A di fronte alle macchie gialle è imposta dall’esterno, ossia dall’esperienza che simili deturpazioni provocano la nausea a chi non è deturpato, mentre in realtà la deturpazione appartiene a lei, ad A, ed essendo sua proprietà non ne può provare un disgusto originario” (Amèry, 1988).
Tuttavia l’io sociale, sebbene inculcatoci dalla società, è qualcosa che ci appartiene quanto l’io corporeo che si autopercepisce nella sua fisica immediatezza: l’io inculcatoci dal mondo sociale è parte integrante dell’io, ed è solo ricorrendo a una forzata dissociazione dell’io che possiamo scoprire, al di là del nostro io sociale, l’io rappresentato esclusivamente dal corpo. Essendo noi stessi mondo, essendo società, non possiamo sottrarci all’influenza dell’immagine che la società si fa di noi.
La persona anziana malata e dipendente, percependo se stessa come crede la percepisca la società, vale a dire in termini riduttivi, deformanti e svalutativi, non può eludere la frustrante esperienza di sentirsi rifiutata ed espulsa dal mondo. Essa si trova perciò a vivere in un mondo che, non solo è separato, ma che non essendo più condiviso con gli altri, contribuisce al venir meno di uno dei presupposti fondamentali della vita quotidiana: vivere in un mondo che abitiamo, percepiamo e sperimentiamo allo stesso modo del prossimo. Nelle persone anziane malate e dipendenti questo presupposto “viene messo in dubbio poiché vivono il loro mondo come un mondo differente, un regno non del tutto sondabile dal prossimo, che le fa sentire estraniate dal resto dell’umanità e separate dal mondo quotidiano del lavoro e del successo” (Good,1999).
Questa esclusione dal mondo quotidiano degli altri è rafforzata dai problemi di comunicazione creati dall’esperienza del dolore: problemi che riguardano sia il contenuto che la forma della comunicazione.
Per quanto riguarda i contenuti, l’estendersi delle patologie e delle disabilità spinge inevitabilmente la persona anziana a far confluire la comunicazione con gli altri intorno ad argomenti connessi al suo stato di salute.
Per quanto riguarda la forma, la comunicazione della propria esperienza agli altri tende sempre più a essere influenzata dalla percezione del dolore che, per essere esteriorizzato, costringe l’anziano a ricorrere a un linguaggio che gli altri difficilmente comprendono. Il dolore acuto si esprime prevalentemente attraverso lamenti, pianti e grida, vale a dire in una forma che fatica ad entrare nel mondo della comunicazione razionale.
In questo senso si può affermare che il dolore “distrugge” il linguaggio e, insieme ad esso, “distrugge” il mondo (Scarry,1985): di fronte agli altri che dubitano della sua parola, l’anziano finisce col dubitare di se stesso e del mondo in cui vive.
Come abbiamo visto in precedenza il corpo- come oggetto fisico e il corpo come agente dell’esperienza- rappresenta la sintesi di due dimensioni che non sono sempre facilmente riconoscibili e conciliabili. Quando il vissuto soggettivo della malattia causa un dolore che si esprime attraverso i lamenti, se questi ultimi non possono essere spiegati nei termini di una patologia oggettiva mancano di legittimità, anche nella cerchia delle persone più care (Good,1988). Questa mancanza di una correlazione tra significati oggettivi e soggettivi della malattia è fonte di continui contrasti e incomprensioni tra il paziente, i medici e gli amministratori dei servizi sanitari.
Non esistendo ancora sistemi di misurazione del dolore soggettivo, esso resiste sia alla sua oggettivazione da parte dei test medici ordinari sia a una sua precisa localizzazione: considerato lo stretto legame tra il visibile e il reale che influenza le pratiche della medicina, il non manifestarsi vivamente della sofferenza preclude la comprensione del paziente, conducendo, talvolta, alla sua sconfessione. Mentre per il paziente il dolore è una certezza assoluta, per tutti gli altri è oscuro e impenetrabile; esso rimane interno, resistente a ogni conferma sociale.
Nel mondo sociale dell’anziano malato e dipendente ad agire sono gli altri, poiché il corpo sofferente è loro preda. Per l’anziano dipendente l’unica azione possibile consiste nell’afferrare gli altri, senza i quali non può esistere.
L’inevitabile contatto fisico causato dai bisogni di cura e di assistenza con gli altri, desiderato o subito che esso sia, mette in discussione il modo abituale di percepire la relazione tra mondo interno e mondo esterno. E’ infatti la nostra superficie cutanea a delimitarci stabilendo che quanto accade al di qua di questo confine siamo noi e che quanto accade al di là del confine è l’altro.
In condizioni di buona salute il contrasto tra interno ed esterno non è percepito in quanto ci viviamo al contempo come “noi” stessi e “mondo”, ma ciò nonostante in quello stesso ambito noi siamo sempre in grado di stabilire una distinzione. In condizioni di malattia cronica, che comportano contatti fisici frequenti con le persone che si prendono cura di noi, questa distinzione non è più possibile e, nella vita di tutti i giorni, il mondo esterno, da fattore di ambiguità, si trasforma in un’entità antinomica.
Al termine della sua dolente e amara testimonianza, Améry giunge alla conclusione che “ l’io, nella malattia dell’invecchiamento, si dissocia più volte – nel corpo che ho io, nell’ “altro” corpo, che nel dolore ha me, nella res cogitans e nella res extensa del mio sé, nell’io ambiguamente derivato dalle reazioni del prossimo, che noi conserviamo come tempo vissuto, e nell’io dell’invecchiamento che quotidianamente si modifica – l’assurdo risultato, dicevamo, di un simile indagare nelle nostre più intime faccende, dovrebbe essere che un io vissuto, un’identità autentica non esiste” (Améry,1988).
L’assommarsi, l’intersecarsi e il sovrapporsi di queste scissioni danno luogo a un processo di disintegrazione identitaria che non solo trasforma l’anziano malato e dipendente nella persona che non avrebbe mai voluto diventare, ma che lo condanna a vivere in un mondo di cui si sente espropriato e che non è più condiviso con le persone che gli vivono intorno.
La sua aspirazione, manifesta o latente, di tornare ad essere la persona che è sempre stata, vale a dire ciò in cui si è costituito attraverso i ricordi, può essere soddisfatta a due condizioni: la prima, possibile solo alle persone anziane che hanno conservato la lucidità mentale, è quella di ricomporre le scissioni che contrassegnano il processo di disgregazione identitaria attraverso un’azione narrativa che dalla successione degli avvenimenti sappia ricavare, attraverso la loro interpretazione, una configurazione che conferisca loro una coerenza di fondo e una direzionalità (Ricoeur,1981;Censi, Foce,1997); la seconda è che chi si prende cura delle persone anziane dipendenti non può porsi solo l’obiettivo di erogare prestazioni sanitarie e assistenziali di elevata qualità tecnico-professionale, ma è chiamato ad impegnarsi nella ricostruzione intorno a loro di un mondo riconoscibile e condiviso.
Se, come abbiamo cercato di dimostrare, la transizione alla condizione di dipendenza segna, per la persona anziana, una lacerante separazione del suo corpo dalla vita, ogni piano di cure a lungo termine che perda di vista l’esperienza soggettiva della malattia è destinato a rafforzare questa scissione, che per la persona assistita equivale a una morte sociale prematura.
Per temperare le impietose riflessioni di Jean Amèry – nelle quali alcuni suoi interpreti hanno visto una proiezione della sua esperienza di internato ad Auschwitz, che lo avrebbe portato a stabilire una analogia tra il destino del corpo umano e l’universo concentrazionario – abbiamo pensato di ricorrere a un testo letterario che sembra indicare la possibilità di assumere uno sguardo meno pessimistico su questa difficile età della vita. Se, come ha riconosciuto Claudio Magris nella presentazione del libro di Améry: ”La vecchiaia è identica alla scrittura (in quanto) è un testo, scritto dalla vita sul corpo dell’uomo, ma alterabile e manipolabile dalla sua intelligenza e dalla sua fantasia” (Magris,1988) la creatività letteraria può diventare una risorsa insostituibile per padroneggiare i sentimenti suscitati dal declino fisico e dalla morte imminente .
Nel testo che presentiamo (La Capria,2009), l’ultraottantenne Raffaele La Capria, dopo essere stato sottoposto a un’operazione a cuore aperto, ci mostra la possibilità di accettare l’ambiguità della relazione con un corpo che pur essendo percepito come “un’entità che vive per conto suo”, ha sempre lavorato per lui, e che ora ha diritto a un meritato riposo. “Mi dico: che sta facendo, ora, in questo momento il mio corpo? E non posso fare a meno di rispondere: che sta facendo? Lavora. Lavora come il corpo di ogni essere vivente, uomo, animale o pianta. Lavora sempre, come un ossesso, e non si concede mai un minuto di riposo. E’ una fabbrica in piena attività, nel pieno del fervore lavorativo, come ce la fanno vedere in televisione col telegiornale, per mostrare che la nostra economia va bene e funziona a pieno ritmo. (…) Come mai tutto questo incessante indaffararsi avviene ogni giorno nell’universo e si ripete nel mio corpo, per mesi, per anni, con una misteriosa regolarità e una magistrale orchestrazione? E come mai è avvenuto che per tutti i miei ottantasei anni l’ho dato per scontato, non ho nemmeno avvertito la sua musica universale nascosta, e non ho rivolto nessun ringraziamento a questo laborioso mio corpo e alla sua incredibile resistenza? (…) Se ci penso non riesco nemmeno a immaginare il lavorio segreto delle cellule che si rinnovano continuamente in me e crescono, fino a produrre un mio nuovo corpo di carne dopo un certo numero di anni. E con un brivido penso ancora che una parte di queste cellule continueranno a vivere anche quando io sarò morto, e le unghie continueranno a crescere, i capelli a spuntare, come se lui, il corpo, non volesse decidersi ad abbandonare questa terra: e così la morte mi appare in modo diverso, come la fine di questa continua inesorabile ostinazione di ogni organo del corpo, come il meritato riposo al quale tutti i lavoratori aspirano. E come la fine di quella meravigliosa tremenda ossessione chiamata vita” (La Capria,2009).
1 Tuttavia va riconosciuto che anche le scienze umane sono in ritardo su questo terreno: non solo perché scarseggiano i resoconti etnografici dettagliati delle esperienze della malattia e del dolore cronico, ma soprattutto in quanto manca un vocabolario teorico organico capace di avvicinarci alla malattia, intesa come esperienza umana.