QUADERNI EUROPEI SUL NUOVO WELFARE

Parte quarta: Le relazioni di aiuto a domicilio e in istituzione

Le relazioni di aiuto nell’ambito del sistema di cure a lungo termine

La fase finale della vita della persona anziana dipendente può essere raffigurata come un lungo attraversamento dei servizi di assistenza continuativa (long term care- LTC) 1.

Nel corso di questo attraversamento la persona anziana dipendente entra in relazione con la molteplicità dei soggetti che operano a vario titolo all’interno di questi servizi e che nei loro comportamenti e atteggiamenti si rifanno a valori spesso difformi e tra loro non sempre facilmente conciliabili. Per questa ragione la persona anziana viene sempre più a trovarsi coinvolta in relazioni segnate dalla frammentazione e dalla discontinuità; particolarmente evidente là dove manchi una forte azione di coordinamento e di integrazione dei servizi.

La nascita dei sistemi di long term care risale alla fine degli anni ’70 e la loro diffusione è avvenuta in concomitanza con una profonda crisi dei sistemi di welfare. Poiché nel loro patrimonio costitutivo questi servizi conservano alcuni tratti della crisi allora in atto, ci è parso opportuno analizzare alcuni dei fattori che hanno concorso a farla emergere.

Le persone anziane dipendenti rientrano in quella categoria di soggetti fragili per la cui protezione le società industrializzate, a partire dalla fine seconda guerra mondiale, avevano approntato sistemi di previdenza e di assistenza, che si sono rivelati finanziariamente insostenibili in seguito ai cambiamenti di natura sociale, economica e demografica successivamente intervenuti e giunti a maturazione nel corso degli anni ’70: aumento della disoccupazione, invecchiamento della popolazione, difficoltà di inserimento sociale e professionale dei giovani, incremento delle spese per la salute, crisi del sistema pensionistico.

Per fronteggiare la crescita inarrestabile del costo di questi sistemi di protezione i governi si sono trovati costretti a ricorrere, da un lato, a una drastica riduzione della spesa e a limitare l’accesso ad alcuni servizi; dall’altro, a valorizzare forme di tutela ravvicinata attraverso il ricorso alle risorse assistenziali primarie costituite da famiglie, conoscenti, vicinato (Community Care)2.

Questo nuovo orientamento ha contribuito a sancire il passaggio da un’assistenza fornita nella comunità, grazie a una significativa presenza dei servizi pubblici, a un’assistenza fornita dalla comunità, cioè dalle reti di aiuto familiari e informali, dove il ruolo dello Stato tende sempre più a ridursi al coordinamento piuttosto che alla gestione diretta dei servizi.

Al di là delle sue motivazioni finanziarie, la diversificazione delle fonti di assistenza e di cura può essere considerata come una risposta più efficace a una domanda di servizi che si manifesta sempre più in forma spiccatamente individualizzata in quanto fortemente influenzata da dinamiche sociali specifiche a ogni percorso biografico. Va aggiunto che l’individuo della società postmoderna, sempre più impegnato ad affermare la sua autonomia e ad assumere la piena responsabilità della gestione delle sue condizioni di vita, tende a ridurre le aspettative nei confronti di sistemi di previdenza universali e standardizzati.

Nella concreta realtà dei fatti l’emergere di questo nuovo orientamento nel campo dei servizi alle persone ha posto in evidenza contraddizioni e ambiguità che meritano di essere segnalate.

Come ha legittimamente fatto rilevare la letteratura femminista, sia il termine Community Care che quello di “assistenza familiare” sono in realtà un eufemismo poiché nella stragrande maggioranza dei casi l’assistenza all’anziano dipendente è fornita da un familiare di sesso femminile.

All’interno della famiglia esiste una gerarchia implicita tra i responsabili delle cure stabilita su una divisione dei compiti in base ai sessi. Uomini e donne non occupano le stesse posizioni di fronte alla vita e alla morte, di fronte alla conservazione della salute e al carico della malattia. La responsabilità davanti alla malattia (e alla morte) ma anche alla salute è il prodotto di una posizione occupata da un soggetto, culturalmente, socialmente e storicamente situato, uomo o donna (Saillant, Gagnon,2001). Di solito la responsabilità dell’aiuto viene assunta rispettando la seguente gerarchia: prima la moglie, o una parente convivente, poi una figlia, una nuora, un figlio, un parente, e infine, una persona non appartenente alla famiglia (Micheli,2008).

Le possibilità di scelta delle forme di aiuto non solo sono limitate a causa della carenza di servizi pubblici, ma sono anche fonte di profonde ineguaglianze poiché la disponibilità di un supporto familiare adeguato non è distribuito uniformemente all’interno di questa fascia di popolazione. Ne risultano fortemente penalizzati, ad esempio, gli anziani non coniugati o coniugati senza figli, che, rispetto agli anziani coniugati o con figli, vivono una evidente condizione di svantaggio. Va aggiunto che chi non può godere di un adeguato supporto familiare risulta penalizzato anche in relazione all’accesso ai servizi pubblici in quanto non può contare sugli aiuti necessari a espletare le pratiche burocratiche che regolano l’erogazione delle prestazioni assistenziali.

Se in taluni casi la carenza di risorse assistenziali primarie può essere compensata dalla disponibilità di adeguate risorse economiche che offrono la possibilità di ricorrere a forme di assistenza a pagamento, va ricordato che anche questa soluzione è accessibile a una fascia ristretta di popolazione anziana, poiché, come abbiamo visto, la maggioranza dei suoi componenti dispone di redditi largamente insufficienti a fronteggiare l’aumento del bisogno di assistenza prodotto dal peggioramento delle condizioni di salute.

Per quanto possa apparire sorprendente non è detto tuttavia che per l’anziano dipendente il ricorso alle risorse assistenziali della famiglia rappresenti sempre la soluzione più gradita. “Per la donna anziana, che si è sempre presa cura dei propri familiari, il non dipendere da questi, ma l’essere assistita da un estraneo, può essere un prerequisito necessario per poter mantenere con essi un rapporto reciproco su altre basi” (Sutter,1988).

Oltre al problema della diversa distribuzione delle risorse informali fra la popolazione anziana dipendente, vanno considerate le profonde differenze qualitative che caratterizzano le relazioni di aiuto fornite dagli aiutanti familiari, pubblici e a pagamento.

 

La relazione di aiuto familiare

Il progressivo disimpegno dello Stato, nei confronti degli anziani dipendenti, rende inevitabile una “presa in carico accresciuta” da parte dell’ambiente sociale, i cui attori (famiglia, mondo associativo, assistenza a pagamento e servizi pubblici) sono chiamati a fare la loro “parte” di fronte alle persone anziane dipendenti, non solo per offrire loro la possibilità di vivere “autonome” il più a lungo possibile nella comunità, ma contribuendo, nello stesso tempo, a limitare il ricorso a forme di assistenza pesanti e costose come, ad esempio, l’istituzionalizzazione in una residenza per anziani.

Una visione di questo tipo, ponendo l’accento sui vari compiti e funzioni che gli aiutanti informali sono chiamati a svolgere, può indurre a considerare la solidarietà in chiave esclusivamente strumentale e funzionale, oscurando, in questo modo, il significato sociale più profondo che la relazione di aiuto porta con sé: la decisione di assumere la presa in carico di una persona anziana dipendente non è mai da intendersi soltanto come il prodotto di un dovere da compiere, ma oggi è più che mai il risultato di una scelta. Nella relazione di aiuto, infatti, tali dimensioni sono spesso presenti, intrecciandosi tra loro in forme che possono presentare differenze da caso a caso (Saillant, Gagnon,2001).

Sebbene nella società postmoderna si sia affermata una cultura che ha prodotto norme edoniste che mirano principalmente al benessere individuale a discapito di quello collettivo (Bauman,1999), la dissoluzione di norme sociali condivise, che ne consegue, non ha ancora condotto alla totale scomparsa del sentimento di responsabilità, che continua invece a sopravvivere e a esprimersi in forme diverse dal passato (comunità di cura) (Bonomi,2010), come si può riscontrare dalla presenza di termini ricorrenti quali “responsabilità”, “condivisione”, “partenariato”, ”sussidiarietà” nelle attuali politiche sociali rivolte alle persone dipendenti. Una concezione, quest’ultima, che porta a giudicare la solidarietà come un bene e un ideale da perseguire, in quanto non più attribuibile a un individuo o a un’istituzione, ma più genericamente a un’intera “comunità”. Ma se questa visione della “responsabilità condivisa” può facilitare e valorizzare l’individuazione, nella comunità, di maggiori e più variegate risorse assistenziali da utilizzare sul piano della cura e dell’aiuto, essa può d’altro canto impedire il riconoscimento e la comprensione della natura specifica dei bisogni, dei vissuti, delle attese e delle speranze che caratterizzano le relazioni tra coloro che sono assistiti e coloro che prestano assistenza.

Oggi, a differenza di quanto avveniva nella società moderna, alla base dell’assunzione della presa in carico si colloca, quasi sempre, e in linea con lo spirito post-moderno, una scelta volontaria che può dare origine ad atti dei quali, chi fornisce aiuto, non solo si sente responsabile di fronte agli altri, ma anche e soprattutto di fronte a se stesso, ai propri valori e alle proprie aspirazioni: per l’uomo della società post-moderna, la volontà è diventata una delle dimensioni fondamentali della persona. La tensione a realizzarsi attraverso ciò che si fa, a esprimersi attraverso opere che manifestino il proprio essere autentico, risponde all’esigenza di unicità e di originalità della persona postmoderna 3.

Nella post-modernità, quindi, l’importanza accordata all’autonomia e all’individualità del soggetto curante conduce a dare un significato nuovo alla responsabilità, collocandola sotto il segno della “cura dell’altro” in quanto “cura di sé”. Il concetto di responsabilità, dopo avere assunto per molto tempo il significato prevalentemente giuridico di tutela di “cose o persone che si hanno sotto la propria protezione” e che vanno difese dai possibili rischi cui vanno incontro, assume oggi sempre più il significato morale del “prendersi cura di persone fragili e vulnerabili”, ponendo così l’accento più sulla sua dimensione intersoggettiva che sul suo aspetto funzionale e strumentale (Ricoeur,1994).

Nella post-modernità, la responsabilità che spinge l’aiutante familiare a farsi carico di un congiunto anziano dovrebbe essere perciò pensata sia nei termini di una “presa in carico” o di una “condivisione di responsabilità” tra il “privato” e il “pubblico”, sia nei termini di un impegno personale verso l’altro fragile. Una forma di impegno, quest’ultima, che muovendo dalla preoccupazione morale che diventa responsabilità individuale per gli altri, permette di coniugare, in modi assai diversificati, le dimensioni dell’ “obbligo” e della “scelta” di fronte a un altro prossimo.

Da tempo gli scritti prodotti dalle comunità scientifiche sul lavoro di cura delle persone anziane dipendenti (Balbo,2008) hanno evidenziato che esso può assumere una duplice natura: strumentale e morale.

  • Sul piano strumentale consiste nel far fronte, scegliendo e combinando le diverse risorse disponibili nel contesto della famiglia e della comunità (personali, pubbliche, a pagamento), ai molteplici compiti necessari ad assicurare il benessere della persona assistita.
  • Sul piano morale comporta il costante impegno a valutare in che misura quanto si fa sia utile o benefico per l’altro. Ciò significa che i compiti non possono mai essere staccati dall’orizzonte morale nel quale prendono forma.

Facendo riferimento al piano strumentale, quando si domanda agli aiutanti principali di parlare di ciò che fanno quotidianamente per i loro famigliari, essi evocano numerosi “compiti”, mettendo in primo piano le prestazioni fisiche fornite; ma mentre si soffermano poco sulla descrizione della materialità dei gesti di cura, si dilungano sul senso e sulla finalità che essi attribuiscono a questi gesti. Ciò che gli aiutanti chiamano “cure fisiche” rinvia a un concetto di cura in termini più generali: accompagnamento, attenzione, presenza. Buona parte delle attività di cura delle persone aiutanti sono volte a facilitare la vita quotidiana dell’aiutato, ricorrendo a interventi suscettibili di rendere il corpo confortevole. Con la locuzione “faccio tutto” gli aiutanti familiari sottolineano fortemente la “totalità” di questo impegno che porta a doversi occupare delle cure più intime e di quelle più correnti, come lo si farebbe per un bambino (Saillant,Gagnon,2001). Tali attività possono andare dalla preparazione dei pasti, all’aiuto nell’alimentarsi, dalla preparazione di un bagno, alle cure intime. Ad esse possono aggiungersi le attività di gestione e di riorganizzazione dell’ambiente domestico necessarie a compensare le incapacità della persona aiutata.

Esiste infine una serie di compiti che mira a mantenere l’aiutato inserito nelle diverse reti dell’ambiente sociale circostante: partendo dalla rete familiare per allargarsi alla rete dei servizi socio-sanitari e amministrativi. Questi compiti non sono mai puramente strumentali, poiché sono iscritti in una relazione, inserita a sua volta nella biografia familiare e in un sistema, sociale, in cui vengono assegnati posizioni e ruoli, quali quello di madre o di figlio, di marito o di amico, che rinviano a forme particolari di responsabilità.

L’aiuto informale si esprime in tempi, luoghi e modi che ne rendono difficile la misurazione: i compiti, infatti, vengono eseguiti all’interno di un universo domestico, con le sue connotazioni affettive e private, inscindibile dalla relazione intima, che ne rappresenta l’elemento centrale. Gli aiutanti coordinano, prendono decisioni importanti (ad esempio, l’eventuale ricovero in ospedale, i servizi da fornire con urgenza quando non c’è alternativa), assicurano una mediazione tra l’aiutato e i servizi, tra l’aiutato e gli altri familiari. Per definire il loro ruolo, non a caso, Francine Saillant ha proposto il termine aiutanti estremi (Saillant,2000), in quanto primi e ultimi ad essere presenti accanto alla persona anziana dipendente, assumendosi responsabilità essenziali, responsabilità che non si delegano, o che si delegano solo difficilmente. Per l’elevato valore simbolico di tali responsabilità, i compiti assistenziali non vanno intesi come rivolti a un “altro generico”, ma a qualcuno con cui si è condiviso una parte importante della propria storia e della propria biografia (il coniuge, i figli e i parenti) in nome di valori e di ideali condivisi: il bagno non rappresenta una semplice misura di igiene; il pasto trascende il suo aspetto “alimentare” per diventare l’atto nutritivo che assicura il mantenimento nel bios, nella discendenza, nel “noi”.

Le cure fisiche permettono di toccare, di comunicare senza ricorrere a parole che sarebbe difficile pronunciare. Attraverso la loro familiarità e il loro carattere ripetitivo, esse assicurano alla persona aiutata un contatto intimo che rafforza la sua sicurezza ontologica (Giddens,1986). Ciò che si vuole preservare è la dignità che si degrada, rendere felice la persona assistita, darle un po’ di speranza facendole vedere e sentire che la vita potrebbe essere un po’ diversa, meno monotona, meno sofferta.

Alle cure fisiche si accompagna anche il sostegno psicologico che è almeno altrettanto importante della cura del corpo, ma di cui non è questa la sede di trattazione.

Non mancano i casi in cui l’aiutante familiare è tenuto a dover eseguire dei “compiti spiacevoli”, come raccogliere gli escrementi o il vomito del proprio caro. In queste occasioni, ciò che genera disagio nell’aiutante, è vedere l’altro in una situazione di perdita di dignità che rappresenta una sorta di minaccia ai sentimenti di rispetto, di affetto e di stima, su cui si fonda una relazione di reciprocità.

Spesso i compiti più spiacevoli l’aiutante familiare preferisce conservarli per sé, sia perchè preferisce essere il solo testimone della perdita di dignità del proprio caro , sia perché desidera essere il solo responsabile della sua assistenza.

Come abbiamo visto nell’ambito dei servizi di cure a lungo termine, la delega di compiti assistenziali tra i vari attori del sistema (operatori professionali, aiutanti famigliari, volontari) dovrebbe essere una pratica diffusa, non a caso si parla di “condivisione di responsabilità” o di “partenariato”. In realtà, essa risulta essere alquanto problematica poiché, essendo l’azione strumentale intimamente legata all’agire morale, la delega risulta di difficile attuazione.

Per comprendere le difficoltà legate a delegare, è necessario risalire anche alle motivazioni che hanno condotto gli aiutanti estremi all’assunzione dell’impegno di assistere il loro famigliare. Se si spingono le persone aiutanti ad approfondire le ragioni della loro scelta, si scopre, infatti, che esse tendono a rappresentarla come una forma di altruismo che tuttavia risponde a degli obblighi, a dei ruoli, a dei valori e a delle necessità che sono, nello stesso tempo, un’espressione di “egoismo”: gli aiutanti sono convinti di “restituire” a un famigliare ciò che hanno ricevuto, ad esempio, l’amore da parte di un coniuge o di un famigliare o il patrimonio di valori o di insegnamenti da parte della famiglia; talvolta si vuole riallacciare un legame deteriorato con l’intento di recuperare il tempo perduto oppure riconoscendo di aver contratto un debito che si intende ricambiare; talvolta ancora si vogliono evitare all’aiutato le cattive cure, il malessere, la sofferenza affermando che non lo si può lasciare “solo come un cane”.

Nell’assunzione della presa in carico, una motivazione ricorrente è quella del debito e della sua restituzione (“restituisco a mio marito o a mio padre o a mia madre ciò che mi ha dato”, “lei si è presa cura di me, è stata generosa io mi prendo cura di lei”, ecc…), che non va intesa come l’espressione di una società arcaica, bensì come una modalità relazionale post-moderna di affrontare la cura. “Attraverso il dono gli statuti del figlio e del genitore possono riequilibrarsi, essendo entrambi donatori a turno; il dono può singolarizzarli (io dono a chi mi ha donato e non semplicemente a causa di uno statuto, per il semplice fatto che sia mio padre o mia madre) e portare con sè una parte di indeterminatezza (su ciò che deve essere donato e restituito) e una libertà. Questo sguardo rivela che il dono può essere postmoderno, ma con un’accezione positiva, poiché fondato su una relazione intima, tra individui singolari, in nome dell’affettivo e della unicità di ciascuno” (Saillant, Gagnon,2001).

Sebbene il lavoro di cura familiare si sia fortemente “tecnicizzato”, grazie all’incremento delle conoscenze e delle competenze sanitarie degli aiutanti (Balbo,2003), tanto da spingerli in taluni casi ad autodefinirsi “infermieri”, in essi prevale la consapevolezza che la natura dei compiti eseguiti non può essere equiparata a quella di un operatore professionale. La relazione di aiuto con un famigliare, con il quale si è condiviso una storia comune caratterizzata da specifici risvolti affettivi, non può essere equiparata alla relazione con un operatore professionale che, agli occhi dell’assistito, appare come un estraneo dal comportamento affettivamente neutro.

Per quanto siano sentimenti positivi quelli che gli aiutanti generalmente associano al loro impegno (gratificazione, tenerezza, presenza, continuità, amore, generosità, accompagnamento, scambio, libertà oblio di sé), non mancano riferimenti a vissuti più problematici (paura, malattia, vecchiaia, pesantezza, calvario). Questi sentimenti rivelano la natura ambigua e paradossale della relazione di aiuto che è, nel contempo, fonte di gratificazione, permettendo all’aiutante di affermare liberamente i propri ideali, e fonte di disagio e frustrazione, per la natura vincolante e costrittiva dell’impegno assunto.

Nonostante gli aspetti problematici non vengano sottaciuti, da parte degli aiutanti famigliari i bilanci negativi sono piuttosto rari: in questi casi è l’imprigionamento con l’aiutato che rappresenta un problema, la difficoltà di sottrarsi al legame, l’obbligo della responsabilità e di non poter disimpegnarsi, soprattutto se i conflitti hanno segnato la storia familiare e il legame particolare con l’aiutato.

La relazione di aiuto può essere considerata una sorta di riconversione identitaria che coinvolge sia la persona che aiuta sia la persona che riceve aiuto. La resistenza che l’aiutante manifesta nel delegare ad altri il suo aiuto deriva dal fatto che non si tratta tanto di delegare compiti assistenziali particolari, quanto di poter perdere parti della nuova identità che si è andata plasmando attraverso l’esperienza del lavoro intimo di cura. Ciò spiega, ad esempio, la difficoltà di convincere dei mariti o delle mogli a ricoverare il loro coniuge. Per loro significherebbe abbandonarli, e, nello stesso tempo, mettere a repentaglio non soltanto il benessere dell’aiutato, ma la loro stessa identità.

Il legame di cura tra l’aiutante familiare e la persona anziana dipendente resta tuttavia caratterizzato da una fragilità che diviene sempre più manifesta, per entrambi, con il protrarsi dell’impegno assistenziale. Il progressivo aumento dei carichi assistenziali, infatti, può contribuire a far emergere quegli elementi di ambivalenza (solidarietà vs egoismo) presenti, come abbiamo visto, in ogni relazione di aiuto (Phillips,Ray,Ogg,2003) e nelle prime fasi del lavoro di cura è facile riscontrare un rafforzamento dei legami affettivi, anche a fronte di relazioni segnate da un passato conflittuale, nelle fasi successive, l’appesantimento dei carichi di lavoro può far emergere reciproche incomprensioni che, oltre ad ampliare la distanza emotiva tra i partner della relazione, possono condurre anche ad abbandoni o ad atti di violenza.

Per l’aiutante familiare una notevole fonte di ansia è rappresentata dalla difficoltà di conciliare il rispetto di quelli che ritiene i suoi obblighi familiari con ciò che egli può ragionevolmente fare. Sebbene il riconoscimento dell’insostenibilità dei compiti assistenziali da parte dell’aiutante familiare tenda generalmente ad essere eluso, giunge il momento in cui la sua evidenza non può più essere ignorata. Talvolta è la stessa persona anziana a prendere coscienza di essere ormai diventata un peso insostenibile per il suo congiunto e chiedere il ricorso ai servizi di assistenza domiciliare o al ricovero in una residenza. Accade, tuttavia, anche se raramente, che i due partner giungano contemporaneamente al riconoscimento dell’insostenibilità del legame, attraverso un faticoso e sofferto processo di negoziazione.

In qualsiasi modo si manifesti, la rottura del legame di cura è fonte di sofferenza per entrambe le persone coinvolte. Nell’aiutante, può tradursi in sentimenti di fallimento del suo lavoro di cura o di colpa per aver mancato l’obiettivo di evitare al suo congiunto l’onta dell’istituzionalizzazione; nella persona anziana, può assumere la forma del sentimento di abbandono da parte di una figura determinante agli effetti della protezione della propria dignità personale o del sentimento di colpa per avere imposto al proprio congiunto un carico assistenziale insostenibile.

 

La relazione di aiuto pubblica

In Italia, a differenza di altri Paesi europei (Inghilterra, Francia, Germania e Paesi Scandinavi), l’assistenza domiciliare non prende inizialmente forma all’interno del Servizio Sanitario Nazionale. Anche perché negli anni ‘60, epoca in cui si avviano le prime sperimentazioni di questa nuova forma di assistenza, il Servizio Sanitario Nazionale ancora non esisteva. Il principio delle cure a domicilio si consolida solo con l’introduzione della riforma sanitaria. L’articolo 25 della Legge 833/1978, che istituisce il Servizio Sanitario Nazionale, recita infatti che le prestazioni “di cura, mediche e infermieristiche sono erogate in forma ambulatoriale e domiciliare”.

Nel corso degli anni ’60 erano stati in gran parte i comuni a promuovere le prime esperienze in questo campo. Ai suoi inizi l’assistenza domiciliare consisteva in interventi semplici di natura sanitaria (prelievo sanguigno, medicamenti, pulizia e sostituzione cateteri, terapie iniettive e flebo, ecc…) e sociale (pulizia dell’ambiente domestico, aiuto nella preparazione dei pasti e del mantenimento dell’igiene personale), che avevano spesso un carattere discontinuo e che non rientravano in piani personalizzati di assistenza.

Da allora, soprattutto a causa della grande espansione delle patologie croniche, l’assistenza domiciliare ha subito una profondo cambiamento: oggi, infatti, i bisogni che il servizio si trova a dover fronteggiare sono molto più complessi e non è più possibile soddisfarli con una semplice assistenza infermieristica, poiché richiedono prestazioni assistenziali tecnicamente più sofisticate (interventi riabilitativi, forme diverse di nutrizione, impiego di tecnologie complicate). Attualmente, per questa sua più forte caratterizzazione sanitaria, l’assistenza a domicilio viene considerata soprattutto come un’alternativa ai ricoveri ospedalieri inappropriati.

Per evidenziare i tratti più rilevanti del cambiamento che questi servizi hanno subito nel corso degli ultimi decenni faremo riferimento all’assistenza domiciliare integrata (ADI).

Derivata dal sistema inglese di home care, l’ADI prevede la contemporanea erogazione, con diverse intensità e gradualità, di prestazioni sanitarie e assistenziali volte a soddisfare i molteplici bisogni della persona non autosufficiente.

In Italia, la promozione e diffusione dell’ADI e dell’approccio multidisciplinare ai bisogni dell’anziano non autosufficiente che le è indissolubilmente legato, è avvenuto grazie alla diffusione dei principi e dei metodi della medicina geriatrica (Banchero, Trabucchi,2010).

L’ADI fa la sua prima comparsa nel Progetto Obiettivo “Tutela degli anziani” dove viene definita come una modalità di assistenza che prevede l’erogazione di un “complesso di prestazioni mediche, infermieristiche, riabilitative e socio-assistenziali, rese al domicilio dell’ammalato, in forma integrata, nel rispetto di standard minimi di prestazione, secondo piani individuali programmati di assistenza, definiti con la partecipazione delle figure professionali interessate al caso”.

La valutazione dei bisogni e la pianificazione degli interventi compete a un’équipe multiprofessionale composta da un medico (MMG), un infermiere professionale, un assistente sociale e personale di aiuto domestico familiare, con l’eventuale coinvolgimento di altre figure mediche specialistiche in base alle caratteristiche del paziente. Dopo aver valutato i bisogni, l’équipe predispone un Piano individualizzato di assistenza (PAI), che definisce le prestazioni da erogare e la loro periodicità.

L’efficacia, l’efficienza e la qualità delle prestazioni erogate deve essere costantemente misurata analizzando i processi e le modalità operative con l’intento di assicurare: a) che le diverse prestazioni professionali siano gestite in maniera coordinata; b) che le risorse strutturali e tecnologiche (automezzi e apparecchiature per telemedicina, presidi sanitari, farmaci, ecc.) siano adeguate ai bisogni della persona assistita; c) che venga approntato un idoneo sistema informatizzato di raccolta dei dati necessari alla gestione e all’archiviazione dei casi (Trabucchi, Banchero,2010).

La possibilità di disporre in modo continuativo di tutte le informazioni relative alle caratteristiche dei pazienti trattati, alle prestazioni, alle modalità e ai tempi di erogazione, rappresenta la base per poter effettuare valutazioni relative all’appropriatezza, all’efficienza, alla qualità e alla sostenibilità economica del servizio al fine di creare pacchetti di prestazioni con diversi livelli di intensità assistenziale, cui attribuire anche tariffe differenziate.

Infine la scelta corretta e appropriata degli assistiti e uno stabile collegamento con i comparti ospedalieri o le strutture semiresidenziali e residenziali extraospedaliere (Istituti/centri di riabilitazione, RSA, Residenze Protette, Hospice, Centri diurni, ecc…) permette all’équipe di rispondere con celerità ed efficacia alla domanda assistenziale e soprattutto a garantire quella continuità assistenziale, che rappresenta l’obiettivo primario del servizio.

E’ importante ricordare che i servizi di assistenza domiciliare, essendosi sviluppati all’interno di politiche sociali caratterizzate dal crescente contenimento della spesa, hanno sempre potuto contare su limitate risorse. Ciò spiega la fragilità che li contraddistingue, in particolare la loro distribuzione in maniera disomogenea sul territorio nazionale.

Nella grande maggioranza dei casi, il servizio si attiva quando la persona anziana non può contare su un aiuto familiare o nei casi in cui la “tenuta” dell’aiutante familiare, che ha preso in carico la persona, viene meno. Con l’appesantimento dei carichi assistenziali gli aiutanti familiari, infatti, si vengono a trovare nella necessità di chiedere consulenza e sostegno tempestivi agli operatori professionali per fronteggiare situazioni che non sono più in grado di gestire da soli. In questi momenti, risulta centrale la capacità di organizzare interventi a elevata integrazione socio-sanitaria, in forma prevedibile e certa, in modo da attutire il senso di abbandono, in attesa che la rete familiare e i servizi pubblici o accreditati di routine, siano in grado di predisporre l’intervento. Spesso, superato il momento critico, le famiglie riescono a riorganizzarsi, ricercando il migliore equilibrio possibile fra costo e qualità del servizio, facendo ricorso anche al mercato privato (badanti) o chiedendo, in alcune situazioni, un’integrazione economica parziale da parte servizi pubblici.

Come si può constatare l’assistenza domiciliare si è andata caratterizzando come un servizio volto a intervenire con strategie di urgenza nei momenti di crisi familiare causati dal verificarsi di “eventi avversi” a carico di una persona non autosufficiente, fornendo “pacchetti assistenziali” flessibili, a elevatissima integrazione, per tempi brevi, a costi certi, in grado di migliorare sensibilmente le potenzialità della relazione di aiuto familiare.

Così concepiti, i servizi di assistenza domiciliare rivelano la loro inadeguatezza a rispondere in modo globale ai bisogni espressi dalla popolazione anziana dipendente. L’inadeguatezza non si manifesta solo sul piano quantitativo, a causa cioè della scarsa e non uniforme distribuzione dei servizi sul territorio, dovuta all’insufficienza dei finanziamenti, ma soprattutto sul piano della qualità della presa in carico. L’aiuto formale può sostenere, integrare, rafforzare, ma quasi mai sostituirsi all’aiuto informale. Se la presa in carico del famigliare si fonda, generalmente, su un principio di volontarietà e gratuità, garantendo la globalità e la continuità dell’aiuto, quella dell’operatore professionale è sempre parziale, in quanto viene assunta nell’ambito di competenze tecniche formalmente ed economicamente definite per periodi di tempo necessari al superamento di circostanze critiche. Per questa ragione sarebbe più corretto equiparare il lavoro di assistenza degli operatori formali all’erogazione di prestazioni di servizio piuttosto che alla fornitura di relazioni di aiuto.

Come abbiamo visto in precedenza, la relazione di aiuto è prima di tutto l’incontro di due persone, nel riconoscimento reciproco della loro qualità di soggetto. Essa comporta, per colui che aiuta, il rispetto dell’altro, nella sua libertà di condurre la vita che desidera. Aiutare una persona significa, ben al di là dell’effettuazione dei servizi e dei compiti necessari alla sua vita, allacciare una relazione umana che coinvolge l’identità, la storia di ogni persona aiutata e aiutante, i suoi legami e i suoi scambi con l’ambiente.

Anche se si riconosce, formalmente, che una prestazione di servizio a una persona non è equiparabile a un atto di mercificazione, di fatto oggi essa è concepita sulla base di concetti e strumenti di misura derivati dall’industria manifatturiera che hanno finito col trasformarla sempre più in un insieme di gesti tecnici competenti ed efficaci e sempre meno in una relazione globale e in un lavoro sulla relazione (Sutter,1988). Concependo l’anziano come un destinatario di prestazioni assistenziali, l’assistente professionale si pone nell’impossibilità di riconoscere nell’altro un “se stesso” di cui ha bisogno per definire la sua stessa identità e di generare un legame sociale che possa essere esteso anche alle persone anziane in condizioni di grave disabilità (Ennuyer,2004).

L’incapacità dei servizi pubblici di assistenza domiciliare a sostituirsi al lavoro della famiglia nella cura degli anziani dipendenti pone in evidenza una situazione di profonda disuguaglianza tra i cittadini che possono disporre di un supporto familiare adeguato e quelli che non ne possono disporre. Per questi ultimi la possibilità di continuare a vivere nel proprio ambiente domestico una volta perduta l’autonomia fisica e funzionale è molto ridotta. Ma anche per coloro che dispongono di un supporto familiare la fragilità del servizio di assistenza domiciliare pubblico può avere delle ripercussioni negative. Non va dato per scontato che tutti gli anziani dipendenti preferiscano essere assistiti da un famigliare: esistono situazioni in cui la persona anziana preferirebbe poter contare su un’assistenza pubblica. E’ il caso, ad esempio, di quegli anziani che temono di diventare un peso insostenibile per i propri cari o di coloro che possono contare sull’aiuto di un famigliare con il quale hanno sempre intrattenuto relazioni problematiche o conflittuali.

Proiettandoci, infine, in un non lontano futuro, non si può non accennare alle prospettive che la fragilità del servizio pubblico di assistenza domiciliare può aprire se si pensa che le risorse assistenziali della famiglia sono destinate a ridursi drasticamente in seguito ai profondi cambiamenti demografici e socio-economici in atto nella nostra società (Di Rosa, Melchiorre, Lamura,2010).

Sul piano demografico nel giro di un paio di decenni assisteremo alla drastica diminuzione delle famiglie multigenerazionali, all’aumento delle famiglie uni-personali (le persone sole già oggi rappresentano oltre un quarto di tutte le famiglie) e di quelle (oltre un quinto) composte di soli anziani.

Sul piano socio-economico la tendenza all’incremento del tasso di partecipazione femminile al mercato del lavoro, che tra il 1994 e il 2004 è cresciuto dal 42% al 51% (OECD, 2005) e che continuerà a crescere in futuro, contraendo la disponibilità di assistenti familiari unito alla graduale posticipazione dell’età di pensionamento delle donne, per effetto delle recenti riforme del sistema pensionistico, contribuiranno a ridurre la disponibilità di risorse assistenziali familiari.

 

L’aiutante privato a pagamento

In Italia i servizi domiciliari pubblici sono l’espressione di un sistema di welfare che ha sempre mostrato una spiccata propensione a destinare risorse monetarie alle famiglie piuttosto che a estendere la presenza dei servizi sul territorio (Melchiorre et al., 2008). A fronte di questa situazione di insufficiente copertura pubblica, è venuta aumentando in misura notevole la percentuale di famiglie che si rivolgono ai servizi di cura prestati a pagamento da assistenti di origini straniere, il più delle volte secondo modalità irregolari.

In meno di due decenni il numero delle assistenti famigliari a pagamento è triplicato, passando da 181.096 (di cui il 16,5% straniere) nel 1991 a circa 760.000 (di cui il 90% straniere) nel 2009 (Di Rosa, Melchiorre, Lamura,2010).

La consistenza del fenomeno è tale che l’effetto di sostituzione che viene a generarsi tra lavoro di cura privato (soprattutto se espletato da immigrati conviventi con la persona da accudire) da un lato, e i servizi di assistenza domiciliare a finanziamento pubblico, dall’altro, ha finito col favorire una vera e propria “metamorfosi” di questo servizio che ha visto ridursi l’intervento degli operatori domiciliari pubblici prevalentemente all’area della cura personale e del trasporto.

Molte di queste assistenti famigliari straniere, provenienti soprattutto dall’Est Europa – in particolare da Ucraina e Romania, ma anche da Polonia, Moldavia e Albania – dal Sud America e da Paesi asiatici come Filippine e Sri Lanka, coabitano con le persone anziane assistite (Catanzaro, Colombo,2009). Svariate sono le motivazioni che spingono la famiglia a ricorrere all’aiuto di un’assistente a pagamento: per delegare il lavoro di cura pesante, limitando il proprio impegno al supporto affettivo e all’organizzazione delle attività di assistenza, per sostituire un membro della famiglia non più in grado di aiutare il proprio congiunto per il sopravvenire di nuovi impegni familiari o lavorativi, per l’esaurimento delle risorse psicofisiche necessarie, ad esempio, a fronteggiare l’incalzare di una demenza grave. Infine non vanno tralasciati i casi in cui si ricorre all’aiutante a pagamento in seguito all’acquisizione di risorse economiche aggiuntive come l’assegno di cura o l’assegno di accompagnamento.

Fra i compiti affidati alle assistenti a pagamento straniere, che non convivono con la persona anziana, prevalgono il lavoro di gestione dell’ambiente domestico, la preparazione e la somministrazione dei pasti, la compagnia e la cura dell’igiene personale dell’assistito. Meno frequente è invece la delega della gestione delle finanze, dell’organizzazione dell’assistenza e del trasporto. Mentre si tende a cercare un supporto professionalmente più qualificato e specializzato per quelle funzioni (come appunto il trasporto con mezzi adeguati e l’assistenza infermieristica) che richiedono un certo livello di professionalità.

Nei casi di convivenza il coinvolgimento dell’assistente a pagamento in tutte le attività di aiuto è difficilmente evitabile e conduce al ridimensionamento della presenza degli operatori domiciliari professionali o alla loro completa sostituzione.

Il maggior numero di assistenti famigliari retribuite si riscontra all’interno di nuclei famigliari composti da un solo anziano (63,2%) (IREF,2007). In questi casi, oltre a diventare una fonte insostituibile di informazioni per i famigliari, l’assistente diviene una figura fondamentale per il benessere psicologico della persona anziana.

La condizione di co-residenza pone assistente e assistito in una condizione di intimità che favorisce l’instaurarsi di relazioni caratterizzate da una forte ambiguità: l’aiutante è esposto al fenomeno della familiarizzazione che lo ingloba all’interno di un nuovo nucleo sociale, in una veste di “familiare vicario” (quasi parente) (Toniolo, Piva,2004) che, per quanto poco definita, genera il rischio di obblighi e aspettative reciproche.

La familiarizzazione presenta aspetti problematici sia per l’assistente che per l’assistito. L’assistente, vivendo a tempo pieno con la persona assistita non solo finisce spesso col lavorare più ore del dovuto, accollandosi carichi di lavoro penalizzanti, ma si viene anche a trovare nella difficile situazione di dover gestire un conflitto tra le richieste affettive della nuova famiglia e quelle della famiglia di origine, di cui rischia di diventare un membro assente. Il labile confine che separa le relazioni personali dal rapporto di lavoro fa sì che la famiglia possa interpretare come un’espressione di ingratitudine la richiesta dell’assistente di definire con maggiore chiarezza le modalità e i tempi delle prestazioni lavorative.

Per gestire al meglio questa doppia appartenenza familiare, mantenendo il nuovo legame senza sacrificare quello con la famiglia di origine, alcune assistenti a pagamento stabiliscono contrattualmente il frazionamento del lavoro assistenziale in blocchi di quattro o di sei mesi alternandosi con una collega. Una soluzione che se assicura una certa continuità delle cure, introduce forti elementi di precarietà e discontinuità nella relazione affettiva che si stabilisce tra assistente e assistito.

Analoghe difficoltà incontra la persona anziana nel coniugare il ruolo di datore di lavoro con quello di pseudo familiare della persona che lo assiste.

Il processo di familiarizzazione è spesso ostacolato dalle profonde differenze fra le caratteristiche personali e culturali di assistente e assistito: in molti casi l’accettazione dell’assistito da parte della persona anziana si manifesta difficoltosa fin dall’inizio. Talvolta la difficoltà di trovare un’assistente a pagamento che risulti gradita alla persona anziana assistita contribuisce a protrarre relazioni di aiuto problematiche o conflittuali.

Sia pure fra molte complicazioni, le relazioni tra anziani e assistenti a pagamento possono dispiegare forme di solidarietà che vanno al di là del rapporto di lavoro. Solidarietà che possono nascere dalla condivisione delle attività di tutti i giorni (ad esempio, stando sul divano a guardare la televisione o sedendosi a tavola insieme durante i pasti) ma che, nei casi più fortunati, possono trasformarsi, per assistente e assistito, in una forma di reciproco arricchimento umano attraverso il confronto di valori, di tradizioni, di sensibilità, di abitudini di vita derivanti da culture diverse.

Se in alcuni casi il legame di cura con le assistenti a pagamento può raggiungere un’intensità affettiva non lontana da quella che si esprime nella relazione di aiuto con un membro della propria famiglia, non si può nascondere che la sua tenuta sia molto più debole. Tale legame è infatti costantemente esposto al rischio di una brusca interruzione, ad esempio, in seguito alla scelta di un lavoro più stabile e meno stressante da parte dell’assistente retribuita o al suo definitivo rientro in patria. La sostituzione o la rotazione delle assistenti a pagamento sottopone l’anziano a una faticosa attività di investimenti e disinvestimenti affettivi che possono logorare la sua fiducia nella possibilità di trovare una relazione di aiuto che gli assicuri una maggiore stabilità affettiva.

Da quanto abbiamo esposto si deduce che i molteplici bisogni della persona anziana dipendente possono essere soddisfatti più efficacemente attraverso la presa in carico globale da parte di un aiutante in grado di assicurarle una relazione intima, ininterrotta, prolungata e molto impegnativa sia sul piano fisico che su quello psichico. Fino ad oggi questa forma di aiuto è stata assunta nell’ambito della famiglia, generalmente da donne di mezza età, con basso titolo di studio, esperienza di casalinghe, capacità pratiche nel pulire, cucinare, fare la spesa, chiacchierare, con modalità relazionali il cui parametro di riferimento sono i rapporti familiari (Sutter,1988).

Sebbene in molti casi la presa in carico della persona anziana dipendente, da parte di un’assistente retribuita (badante), possa avvicinarsi a quella fornita dall’aiutante familiare, ciò che possiamo sostenere a conclusione di questa riflessione è che essa rimane comunque contrassegnata da forti elementi di ambiguità e di fragilità che incidono soprattutto sulla continuità e sulla durata della relazione di aiuto.

Il recente sviluppo del servizio di assistenza domiciliare pubblico, che è andato sempre più assumendo caratteristiche quali la specializzazione, l’ipermedicalizzazione, la mancanza di flessibilità, la frammentazione e la spersonalizzazione, lo ha reso di fatto inadeguato ad assumere una presa in carico globale della persona dipendente.

A nostro avviso, un’équipe di professionisti dell’assistenza può assumere una presa in carico globale ed efficace soltanto a fronte di situazioni critiche di breve durata o può tutt’al più supportare tecnicamente il lavoro di aiuto dei famigliari nei compiti di assistenza a più elevata intensità sanitaria, ma non può garantire una relazione di aiuto a lungo termine.

Proiettandoci nel futuro, l’organizzazione dell’assistenza domiciliare va ripensata non solo in termini strutturali, attraverso un suo consolidamento certamente al fine di compensare il calo di risorse assistenziali familiari, ma anche in termini culturali favorendone un’evoluzione che prenda a modello il caring familiare piuttosto che un lavoro ad alta professionalità tecnico-specialistica.

 

1 Con il termine long term care ci si riferisce ai servizi destinati a persone che hanno bisogno di assistenza permanente a causa di disabilità fisica o psichica. Questi possono essere erogati in strutture residenziali, a domicilio o nel territorio e comprendono assistenza informale offerta da familiari o da altri così come prestazioni monetarie e servizi professionali forniti da singoli e organizzazioni” (Institute of Medicine,1986).
2 Questo nuovo orientamento si è consolidato negli anni ’80 negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, dove i governi conservatori di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, al fine di contenere le spese per la salute pubblica, affermarono il principio che il dovere di prendersi cura degli altri non spetta solo al governo, ma anche a tutti i cittadini (Leseman, Martin,1994).
3 Tuttavia, a questo proposito, gli studi di genere in campo sociale hanno ampiamente dimostrato come persista ancora un grado di responsabilizzazione molto differenziato tra i due sessi rispetto alle situazioni di disagio o di malattia che investono i membri del nucleo familiare e come questa diversa responsabilizzazione sia il prodotto della posizione, culturalmente, socialmente e storicamente determinata, dell’aiutante familiare: nella stragrande maggioranza, una donna in età adulta (Balbo, 2008).


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