QUADERNI EUROPEI SUL NUOVO WELFARE

Parte seconda: La sfida della grande vecchiaia

3 Il sentimento di appartenenza al mondo

In questo ambito la prova della grande vecchiaia assume la forma particolare della tensione tra estraneità e familiarità con il mondo.

Nel grande anziano l’estraneità nei confronti del mondo ha una doppia origine: da un lato, vi è la spiacevole constatazione di non potervi più occupare un posto stabile; dall’altro, vi sono le difficoltà, sempre crescenti, di comprenderlo e di esserne compreso.

Il sentimento di estraneità si manifesta attraverso una pluralità di segnali che possono provenire da diversi ambiti di vita.

Come abbiamo visto in precedenza, nella tarda età anziana il ridimensionamento delle attività e delle relazioni sociali può introdurre cambiamenti radicali nei rapporti con il mondo fisico e sociale circostante. Si pensi, ad esempio, alla rinuncia all’automobile e ai significati che questa scelta può assumere sia sul piano operativo che su quello simbolico. Per il grande anziano smettere di guidare può segnare il riconoscimento della propria estraneità nei confronti del mondo, sentimento traducibile nell’espressione “ormai non faccio più parte della mia epoca”.

Sul piano più strettamente relazionale, tale estraneità può essere generata sia dalla scomparsa dei propri coetanei, con i quali la comunicazione era facilitata: “ci si intendeva senza tante parole” , “a volte bastava uno sguardo”; sia dal cambiamento in rapporto con i membri più giovani della propria famiglia. A tale riguardo, pensiamo ad esempio ai nipoti: quando questi ultimi raggiungono l’età dell’adolescenza, il gap culturale esistente tra loro e i grandi anziani oggi si fa incolmabile, poiché sospinto da stili di vita sempre più lontani e inconciliabili.

Christian Lalive d’Epinay (Lalive d’Epinay,1996) sostiene che il vissuto di estraneità della persona anziana nei confronti di quella che è considerata la “vita normale” degli altri può assumere forme e significati diversi secondo la cultura dominante nell’ambiente sociale in cui vive.

Per i contadini, immersi in un mondo impregnato di sacro, l’estraneità deriva dall’impossibilità di continuare il lavoro agricolo, anche a un ritmo rallentato. Lavoro che, fino a quel momento, aveva consentito loro di sentirsi partecipi della “grande liturgia cosmica” che organizza l’ordine del mondo.

Per gli operai e i quadri della società industriale fondata sulla centralità del lavoro l’estraneità nasce dal sentimento di lontananza dal mondo professionale o dai sostituti che gli sono stati trovati dopo il pensionamento.

Per i membri delle classi medie e superiori, portatori dell’etica dello sviluppo personale, l’estraneità deriva dall’impossibilità di continuare a condividere con gli altri la ricerca dei piaceri che può offrire l’esistenza.

Per descrivere il sentimento di lontananza dall’ambiente fisico e sociale gli scrittori anziani fanno spesso ricorso alla metafora dello straniero (Dowd,1986; Puijalon,2007)7.

I progressi, oggi sempre più rapidi, in campo scientifico e tecnologico espongono ad analoghi vissuti anche coloro che si sono dedicati al lavoro intellettuale. Scrive, ad esempio, Norberto Bobbio: “Il sistema di concetti, costruito a poco a poco, che ti ha permesso di ordinare il materiale di fatti e di idee che le tue letture ti hanno offerto in anni di studio, invecchiando, tende a chiudersi come fosse giunto alla sua perfezione. Diventa quindi sempre più difficile farvi entrare fatti e idee nuove che non trovano caselle già formate, pronte ad accoglierle” (Bobbio,1996).

La grande antropologa americana Margareth Mead (Mead,1978), in un suo studio sul rapporto tra le generazioni nella società attuale mette in evidenza il profondo gap culturale che lo caratterizza: “Nel mezzo del ventesimo secolo, nessun’altra generazione emergente ha vissuto una rottura così profonda tra il passato e l’avvenire. Fino a non molto tempo fa i più anziani potevano ancora dire: Sapete, io sono stato giovane ma voi non siete mai stati vecchi.

Oggi i giovani possono rispondere: Voi non siete mai stati giovani nel mondo in cui, noi siamo giovani e voi non lo sarete mai.” (Mead,1978). La profondità di questa frattura culturale induce Margareth Mead a considerare l’anziano come un immigrato nel tempo, vale a dire, “proveniente da un tempo anteriore” e pertanto “portatore di una cultura più antica”.

La prova della tarda età anziana non va considerata un’esperienza omogenea, poiché si manifesta con caratteristiche diverse in funzione dei contesti fisiologici e sociali che caratterizzano la vecchiaia. La durezza di questa fase della vita varia notevolmente in funzione delle risorse di cui si può disporre per proteggersi o superarla. Tuttavia queste risorse non derivano soltanto dal bagaglio personale dell’individuo (stato di salute, forza di carattere, capacità cognitive o di adattamento, che ha acquisito nel corso dell’esistenza), ma, più estesamente, possono essere attinte dalle reti di supporto sociale: aiuti tecnici ed umani che permettono all’anziano di proseguire le sue attività malgrado i suoi problemi.

Nella società attuale lo spaesamento di fronte a un mondo che perde i tratti della “familiarità” non è un’esperienza che riguarda esclusivamente i grandi vecchi, ma è un’esperienza comune a larga parte dei suoi membri.

Gli sconvolgenti cambiamenti introdotti dalla postmodernità hanno condotto all’indebolimento e alla frammentazione dei legami sociali che, nella società moderna, garantivano il senso di appartenenza a una comunità (Bonomi, 2009; Giddens,1991; Beck,2010).

La liquefazione dei legami sociali, oltre che dalla scomparsa di punti di riferimento comuni, è stata favorita dall’affermarsi di strategie di vita fondate su rapporti umani discontinui che, sottraendosi a ogni forma di legame durevole, evitano agli individui di incorrere in doveri reciproci. Queste relazioni, irreparabilmente slegate e sregolate, sono funzionali alla costruzione dell’identità del soggetto postmoderno che, diversamente da quello della modernità, tende a evitare la fissità.

Il carattere aperto delle carriere biografiche contemporanee pone l’individuo in contatto con mondi di significato e di esperienza diversificati e spesso contrastanti, che lo espongono a esperienze di natura spiccatamente “migratoria” (Berger, Berger, Kellner,1983; Bauman,1999)

Nella città, luogo per eccellenza della vita postmoderna, “il segreto per ottenere la felicità (…) consiste nel saper vivere intensamente l’avventura generata dalla incerta definizione della propria meta e del proprio itinerario, e allo stesso tempo arginare e rendere innocua la minaccia che nasce dalla condizione altrettanto incerta degli altri” (Bauman,1999).

Sotto la spinta di questi vasti processi di disgregazione e di frammentazione dei legami, nella società postmoderna si è affermata un’immagine del mondo priva di quei caratteri di solidità e continuità che connotavano le società moderne. E’ da qui che trae origine quel sentimento di incertezza che, non solo influenza l’agire quotidiano del soggetto, ma si estende all’immagine del mondo futuro, al modo di vivere in esso e ai criteri per valutare i comportamenti.

Mentre nella società moderna l’incertezza si manifestava come un problema temporaneo, che poteva essere attenuato o addirittura risolto attraverso un adeguato impegno personale, nella postmodernità essa è diventata una condizione permanente e ineludibile. Sebbene rappresenti l’inevitabile costo che il soggetto deve pagare in cambio di una sua maggiore libertà, l’impossibilità di trovare un terreno stabile, cui ancorare i progetti di vita individuale e su cui costruire una salda identità personale, genera un diffuso sentimento di sradicamento e di perdita metafisica della casa (Berger, Berger, Kellner,1983). Di conseguenza, oggi, chi non è in grado di sostenere a lungo un’identità costruita su legami fluidi e incerti, si pone alla ricerca di un territorio in cui rimettere solide radici e intorno al quale tracciare un confine più marcato fra sé e gli altri. Solo così è possibile riconquistare una posizione sociale sicura e uno spazio incontestabilmente personale all’interno del quale progettare la propria vita, limitando le interferenze altrui e uniformandosi a regole che, non mutando continuamente e senza giustificazione, possano conferire più coerenza all’agire quotidiano e consolidare la speranza in un domani migliore.

Fra i grandi vecchi la ricerca di questo territorio, incontestabilmente personale, li spinge a ritirarsi nell’ambiente domestico che, nella loro vita quotidiana può assolvere la funzione del rifugio o quella del supporto identitario (Veysset,1989).

La casa diviene un rifugio quando è vissuta come un luogo che offre protezione dalle aggressioni di un ambiente esterno avvertito come ostile e minaccioso, mentre diviene un supporto identitario quando simbolizza la continuità tra ciò che la persona è stata e ciò che è, al di là dei cambiamenti intervenuti nel corso della vita.

Le configurazioni cui può dar luogo il ripiegamento domestico (Caradec,2007) e i significati che può assumere nella vita quotidiana dei grandi vecchi sono fortemente influenzate dai sentimenti che connotano l’esperienza dello sradicamento nei singoli soggetti. Sentimenti che, pur nella varietà delle loro manifestazioni, possono essere ricondotti a due registri principali: quello del risentimento (Tomelleri,2004) e quello della cura (Bonomi,2010).

Il risentimento del soggetto postmoderno può avere una doppia origine: da un lato, vi può essere la delusione di aspettative riposte nelle istituzioni, che non sono più in grado, come nella società moderna, di offrire reti di protezione adeguate; dall’altro un sentimento di sfiducia nei confronti degli altri, considerati come pericolosi rivali nella ricerca delle risorse necessarie a realizzare i progetti di vita individuale.

Il sentimento della cura nasce invece dalla consapevolezza che nella postmodernità il disagio non investe soltanto i soggetti marginali, fra i quali vengono fatte abitualmente rientrare anche le persone anziane, ma è un’esperienza comune a tutti i soggetti sociali. La constatazione che la sofferenza, il dolore, la disperazione psicologica sono esperienze che investono anche chi è giovane e sano, può aiutare il grande vecchio a mantenere viva in sé la sensazione di appartenere a una comunità di destino “dove una parola, uno sguardo, un sorriso, trasformandosi in cura interpersonale, possono aprire nuovi orizzonti” (Borgna,2009).

 

La casa come spazio minimo di sopravvivenza.

Quando il ripiegamento domestico è dettato dal risentimento, la natura della vita domestica del grande anziano può essere efficacemente rappresentata dalla metafora della dimora sicura: principio cardine di tutte le forme di xenofobia e di razzismo che interpretano lo straniero come nemico e limite estremo della sovranità individuale (Cohen,1993) .

La metafora della dimora sicura è costruita sull’idea che il mondo esterno sia un territorio pieno di pericoli, i cui abitanti rappresentano una minacciosa fonte di incognite: per questo devono essere controllati, scacciati o tenuti lontano. La casa diviene così quella piccola parte di mondo che il soggetto è in grado di occupare e controllare direttamente, introducendo in essa quel senso coerente di “ordine e decenza” non più rintracciabile al di là delle mura domestiche.

Si realizza così il “sogno di uno spazio difendibile, un luogo dai confini sicuri e protetti, un territorio semanticamente trasparente e semioticamente leggibile, un posto in cui non si corrono rischi imprevedibili. (…) La dimora/rifugio di questo sogno deriva il suo significato dall’opposizione tra rischio e controllo, pericolo e sicurezza, conflitto e pace, episodico e perpetuo, frammento e intero. Quella casa, in altri termini, è il sospirato rifugio e riparo al tormento e alle sofferenze del vivere in città, una vita da stranieri fra stranieri” (Bauman,1999).

All’interno di queste dimore rifugio, una versione in scala ridotta delle gated community (comunità fortezza), gli spazi e i tempi della vita quotidiana sono organizzati per mantenere a distanza lo straniero, che, per il grande vecchio, può assumere sia le sembianze di un corpo che declina e che va sottraendosi al suo controllo, sia le sembianze degli altri, di coloro che vivono nel mondo esterno e che potrebbero irrompere nel momento in cui venissero a mancare le risorse indispensabili per conservare il governo della propria vita, l’autonomia. I grandi vecchi che abitano le dimore/rifugio, per scongiurare questo pericolo dedicano una parte rilevante del tempo quotidiano alla pratica di attività finalizzate alla conservazione di un buon stato di salute e di efficienza funzionale.

Un contributo originale alla comprensione del ruolo che può giocare l’ambiente domestico nella vita dei grandi anziani ci è fornito da Jean Buoisson (Bouisson,2007) in un articolo in cui mette in luce i rapporti che intercorrono tra la vulnerabilità e la routinizzazione.

Il sentimento di vulnerabilità si manifesta quando perdite che si possono situare sia nell’ambiente esterno (morte di parenti, del congiunto, perdita di ruoli sociali, ecc…) che interno (alterazione dello stato di salute, danni organici, deficit cognitivi, ecc…) sottraggono all’individuo punti di riferimento familiari, esponendolo a un indebolimento del sentimento di identità e a una caduta della stima di sé. Quando, di fronte a una nuova realtà, ci si trova nell’impossibilità di far ricorso all’esperienza anteriore, l’io è investito da un ansia talmente elevata da rappresentare una seria minaccia alla sua capacità di garantire la sicurezza di base.

Muovendo dalla premessa che la vulnerabilità dei grandi anziani derivi da condizioni di vita che presentano molte analogie con quelle che in campo sociologico vengono definite situazioni estreme (Fisher,1994), Bouisson analizza in particolare i vissuti delle persone anziane di fronte all’aumento di vulnerabilità e le strategie che esse adottano per affrontarli.

Una situazione estrema può essere definita come uno sconvolgimento radicale delle condizioni di vita abituali, di intensità tale da spingere il soggetto al limite delle sue risorse adattative, esponendolo alla sensazione di sprofondare in un abisso senza uscita (Fisher,1994).

Le situazioni estreme possono essere scelte, come nel caso in cui i soggetti decidono di vivere in ambienti molto difficili per misurare i loro limiti e le loro capacità di adattamento, oppure possono essere imposte all’individuo da circostanze esterne imprevedibili, che lo pongono in condizioni talmente difficili da far sentire la sua vita fortemente minacciata 8.

Nelle situazioni estreme i soggetti sono costretti a elevare la loro vigilanza sia per far fronte ai rischi esterni, reali o immaginari, sia per far fronte al rischio interno della perdita del controllo di sé.

Nei soggetti ad alto rischio di vulnerabilità, le prime manifestazioni di questo sentimento, indipendentemente dalla causa scatenante e dalla forma che assumono, finiscono col diventare presto un sistema di vita, una condizione psicologica e un modo di guardare ciò che ci circonda con una sensibilità accresciuta. E’ come se il soggetto vivesse nell’attesa di un processo di disintegrazione interna o di un disastro esterno di natura sconosciuta che lo minaccia ad ogni angolo di strada. Paure di varia natura caratterizzano la perdita della sicurezza interiore: quella di impazzire, di spersonalizzarsi, di essere risucchiati in una dimensione immaginaria. Particolarmente diffuse sono le paure che riguardano il mondo esterno: ogni incontro, ogni relazione sociale, è suscettibile di diventare una fonte di rischio per il soggetto e può dar luogo a vissuti persecutori.

Una strategia, frequentemente osservata, per affrontare questi vissuti è la routinizzazione, ben conosciuta fra i bambini e gli adulti, ma ancora poco studiata, nonostante la sua diffusione, fra gli anziani.

Nelle esperienze di situazioni estreme, Bouisson ha individuato numerose convergenze cliniche che lo hanno portato a concludere che la routinizzazione si fondi principalmente su quattro meccanismi difensivi:

  1. Una regressione a bisogni infantili. Davanti a una prova che ci sovrasta viviamo un sentimento di debolezza e impotenza che ci induce a manifestare, come i bambini, il bisogno di essere protetti, rassicurati, consolati, abbracciati.
  2. Una concentrazione del pensiero su un piccolo numero di contenuti e di attività. Un esempio: un esploratore artico nel momento in cui si sente in pericolo di morte scopre che la sua coscienza si trova invasa da un ritornello di Georges Brassens di cui non riesce a sbarazzarsi:”Gare au gorille!”.
  3. L’assunzione di un ordine fisso e rigido in tutto ciò che fa parte dell’universo prossimo e familiare. Per tutti i soggetti in situazioni estreme il bisogno di ordine è vitale ed è un mezzo per lottare contro la paura del caos interno. Sembra essenziale che gli oggetti dell’universo intimo stiano al “loro” posto, che non si muovano né cambino.
  4. La delimitazione di un territorio intimo alla periferia del sé, all’interno del quale collocare alcuni oggetti che assolvono la funzione di reperti identitari. Questo bisogno di creare un territorio intimo è stato notato da Fisher (1994) soprattutto nei casi di situazioni estreme non volute9.

La routinizzazione degli anziani è un fenomeno poco studiato. Bouisson segnala un solo articolo specifico su questo argomento (Reich,Zautra,1991).10

In assenza di analisi dettagliate sulla routinizzazione negli anziani, Bouisson ha rivolto la sua attenzione a un fenomeno che è facilmente rintracciabile nella loro vita quotidiana: l’instaurazione di un ordine fisso e rigido in tutto ciò che fa parte dell’universo prossimo e familiare. Sulla funzione di questa pratica, ancora attualissime risultano alcune riflessioni di Simone de Beauvoir: “Il vecchio cerca di difendersi contro la precarietà obbiettiva della propria situazione, e contro la propria intima ansietà: bisogna interpretare – perlomeno in gran parte – come difese la maggior parte dei suoi comportamenti. Ve ne è uno che è comune a quasi tutti: si rifugiano nelle abitudini (…) Paradossalmente l’abitudine è ancora più necessaria alle persone che non hanno nulla da fare che non agli attivi: se non vogliono adagiarsi nella molle stagnazione delle giornate, devono opporvi la rigidezza d’un impiego del tempo ben definito. La loro vita riveste allora una quasi-necessità. Il vecchio sfugge alla nausea di un ozio eccessivo popolandolo di mansioni e di esigenze che per lui si traducono in obblighi; evita in tal modo di porsi l’angosciosa domanda: che fare? Ad ogni istante ha qualcosa da fare. Ricordo come mio nonno aveva regolato le sue occupazioni; lettura dei giornali, ispezione dei suoi rosai, pasto, siesta, passeggiata, si succedevano in un ordine immutabile” (Beauvoir de,1971).

Più la persona avanza in età, più essa attribuisce importanza a uno svolgimento ritmato delle giornate, delle settimane, degli anni. Grazie a questo ritmo, che scandisce le diverse attività temporali della sua vita, essa cerca di renderla più prevedibile e dunque più controllabile. Sono soprattutto le persone anziane con un’idea negativa del loro stato di salute che hanno più bisogno di giornate e settimane ben ritmate (Bouisson,2007). E’ dunque importante, soprattutto se la persona è in una condizione di salute precaria o se soffre di una riduzione della sua autonomia funzionale, che essa abbia dei ritmi giornalieri e settimanali ben definiti, perché si tratta di un aspetto centrale della qualità della sua vita. Per migliorare il benessere di una persona anziana basta a volte permetterle di conservare e padroneggiare al meglio le sue routine. Le routine delle persone anziane vanno altresì considerate come possibili segnali di vulnerabilità psicologica, che può derivare da uno stato ansioso e che può preludere all’emergenza di una sindrome demenziale. A lungo andare le routine finiscono quasi sempre con l’imprigionare l’essere umano in un modo di vita che lo “cristallizza”, che impoverisce progressivamente le sue relazioni sociali e lo allontana dal suo ambiente più familiare, con il rischio di accelerare le sue perdite e la sua entrata in un processo demenziale. In questi casi la routinizzazione può diventare tossica e si rende perciò necessario intervenire per attenuarne gli aspetti negativi (Bouisson,2007)11.

La casa come luogo della cura di sé.

Quando il sentimento che informa il ripiegamento domestico è quello della cura, l’abitare assume nella vita del grande anziano una configurazione e un significato diversi. I tempi, gli spazi e le relazioni che scandiscono la vita domestica non sono più volti a delimitare un territorio minimo di sopravvivenza, esasperandone i tratti di separatezza ed esclusività rispetto a un mondo circostante vissuto come inospitale e ostile, ma vengono utilizzati per dare una forma al vivere quotidiano che rifletta uno sguardo amorevole su di sé.

In questo senso la casa diviene l’espressione di quelle arti dell’esistenza che per Michel Foucault rappresentano “pratiche ragionate e volontarie attraverso le quali gli uomini non solo si fissano dei canoni di comportamento, ma cercano essi stessi di trasformarsi, di modificarsi nella loro essenza singola, di fare della loro vita un’opera che esprima certi valori estetici e risponda a determinati criteri di stile” (Foucault,1998).

Il principio ispiratore delle arti dell’esistenza è l’“aver cura di se stessi”, un precetto che ritroviamo in molte dottrine filosofiche del mondo ellenistico e romano e che ben ha sintetizzato, in forma quasi prescrittiva, Foucault: “Oggetto della cura di sé è l’anima, organo della vita per eccellenza, che, secondo Apuleio, pochi uomini coltivano. L’uomo è tenuto a imparare a vivere per tutta la vita considerando l’esistenza come una sorta di esercizio permanente. La cura di sé richiede tempo e sta a ogni uomo fissare quanta parte della giornata o della vita è opportuno consacrarle” (Foucault,2009).

Perciò ogni tanto è utile interrompere la propria attività abituale ed effettuare dei ritiri dal mondo per dedicarsi a “momenti di meditato raccoglimento”. “I ritiri consentono di stare a tu per tu con se stessi, di meditare sul proprio passato, di rivisitare l’insieme della vita trascorsa, di familiarizzarsi, attraverso la lettura, con i precetti e gli esempi cui ci si vuole ispirare, e di ritrovare, grazie a una vita di austera semplicità, i principi essenziali di una condotta razionale” (Foucault,2009). Non è un tempo vuoto e inanimato quello dedicato ai ritiri, ma è popolato di esercizi, di compiti pratici, di attività. Alla cura del corpo, attuata attraverso il rispetto di regimi dietetici e la pratica moderata di esercizi fisici, si unisce la cura dell’anima, cui ci si può dedicare con la meditazione e letture.

La cura di sé stabilisce una circolarità tra il lavoro sulla mente e quello sul corpo: formarsi e curarsi sono attività collegate. Il punto cruciale delle pratiche di sé è che i mali del corpo e quelli dell’anima possono comunicare fra loro e scambiarsi i rispettivi malesseri: le cattive abitudini dell’anima possono comportare delle miserie fisiche, mentre gli eccessi del corpo possono rivelare e alimentare difetti dell’anima. Ciò vale, in particolar modo, per l’anziano il cui corpo non è più quello che in gioventù era destinato a essere plasmato con la ginnastica, ma è un corpo fragile, minacciato da lievi mancanze e che, paradossalmente, minaccia l’anima, non tanto con la sua esuberanza, quanto per la sua fragilità.

Di fronte ai perturbamenti prodotti da uno stato di fragilità si rende necessario correggere l’anima se si vuole che il corpo non prevalga su di essa e migliorare il corpo se si vuole che l’anima mantenga la piena padronanza di sé; ma affinché ciò sia attuabile, è necessario dedicarsi a pratiche di autoformazione codificate. Si tratta di prove che, non solo impegnano l’individuo ad acquisire una virtù, ma che gli impongono di verificare rigorosamente il grado di miglioramento ottenuto con la sua acquisizione. Le prove sono un modo di misurare e confermare l’indipendenza di cui si è capaci nei confronti di tutto ciò che non è indispensabile ed essenziale. Si tratta di imparare a fare a meno del superfluo al fine di ristabilire una sovranità su se stessi.

L’obiettivo comune alle pratiche di sé è il ritorno a se stessi. Sfuggendo a ogni dipendenza e a ogni asservimento, è possibile raggiungere se stessi, come una “zona protetta al riparo delle tempeste” (Foucault,2009). Sottraendosi alle preoccupazioni del presente e alle angosce del futuro, ci si rivolge al proprio passato, ripercorrendolo e rielaborandolo con la memoria, per stabilire nei suoi confronti un rapporto privo di turbamenti.

Quando il ripiegamento domestico avviene all’insegna della cura di sé, il domicilio rappresenta uno spazio che resta in relazione con il mondo sociale circostante. L’isolamento, in questo caso, non è più l’espressione di un indifferenza o di un rifiuto del mondo dettato dall’egoismo e dalla mancanza di amore, ma è un modo di partecipare al destino degli altri immedesimandosi nelle loro gioie e nelle loro sofferenze. Come scrive Eugenio Borgna: “Così, siamo soli nel deserto, o nella casa in cui abitiamo, nella cella di un monastero, o su di un alta montagna, e nondimeno la nostra anima non è lacerata dalle spine roventi dell’”essere soli”, ed è aperta alla solidarietà e al colloquio interiore: alla trascendenza che ci porta fuori dalla nostra individualità e ai confini del nostro io” (Borgna,2011).

Un esempio di come sia possibile continuare a sentirsi socialmente integrati anche quando si vive in condizioni di isolamento ci è offerto dai risultati di una ricerca condotta da David Unruth (Unruth,1983) utilizzando il concetto di mondo sociale.

I membri dei mondi sociali non sono legati dalla co-presenza in uno stesso spazio, ma dalla condivisione di prospettive simili derivanti da un centro di interesse comune e dalla condivisione degli stessi canali di comunicazione. I mondi sociali presi in considerazione dalla ricerca furono quelli della bicicletta, del ballo, dell’arte, del collezionismo di francobolli. Si scoprì che questi mondi sociali occupavano un posto più o meno importante nell’esistenza degli anziani intervistati: per alcuni, ancora bene integrati nelle associazioni, nelle cerchie di amici e all’interno della famiglia giocavano un ruolo secondario, ma per altri, più isolati, contribuivano notevolmente a dare un senso alla loro esistenza. Certi mondi sociali restano così molto presenti grazie ai legami mantenuti attraverso i media o il ricordo.

Anche gli oggetti dell’ambiente domestico, attraverso la loro presenza, possono evocare legami allacciati nel corso dell’esistenza. Alcuni possono richiamare la passata esperienza professionale, altri, come ad esempio i doni ricevuti da persone care, l’amore di cui si è stati destinatari. La presenza di questi oggetti familiari può costituire un supporto affettivo al momento della vedovanza, al punto che lo spazio domestico può diventare, soprattutto quando è tardiva, un luogo di conservazione e protezione di ricordi della vita passata.

Nella tarda età anziana il ripiegamento domestico può rappresentare il tentativo di circoscrivere un territorio su cui riedificare l’identità minacciata da processi di natura biologica e da un ambiente sociale defamiliarizzato e non più padroneggiabile.

Se entrambi i modelli dell’abitare che abbiamo analizzato rispondono a questa comune esigenza, diverso è il ruolo che essi giocano sul piano dell’identità dei grandi anziani.

Quando il principio che informa l’organizzazione dello spazio abitativo è quello della dimora sicura, la sua finalità è di stabilire, cristallizzandola, una differenza fra sé e l’altro, fra sé e il mondo.

Quando prevale l’amore di sé, l’abitazione assolve una funzione integrativa, poiché assicura all’individuo la possibilità di mantenere nel tempo il senso di questa differenza, ossia il senso della continuità del sé (Sciolla,1983).

 

La molteplicità di forme del vivere nella grande vecchiaia

Lo scenario che abbiamo tratteggiato è un tentativo di collocare la riflessione sulle persone molto anziane nello “spazio del quotidiano”, assumendo il punto di vista dell’individuo nella sua vita reale e concreta e cercando di descrivere alcuni dei principali cambiamenti che investono i suoi sistemi sottovitali.

In campo sociologico con il termine quotidiano si intende la dimensione spazio-temporale all’interno della quale ciascun attore sociale elabora, pianifica e realizza strategie, alternando momenti inventivi a momenti adattativi, in funzione del suo progetto di vita. E’ all’interno di questa dimensione che l’individuo opera quei processi di apprendimento dall’esperienza e mette alla prova le sue capacità di affrontare le sfide costanti a misurarsi, a riprovare, a perseguire obiettivi di riuscita, anche nelle piccole cose. Come tutti i soggetti che vivono nella modernità molti anziani sono oggi dotati non solo di conoscenze pratiche sulla vita sociale che li rendono “competenti”, ma posseggono anche le capacità di rivedere, ridefinire, riformulare strategie e percorsi di vita.

Come abbiamo visto, nella società postmoderna, in seguito alla scomparsa di modelli culturali che orientino l’agire sociale, gli individui si trovano a dover negoziare e a scegliere, tra una molteplicità di opzioni, gli stili di vita da adottare. L’aspetto saliente dello strutturarsi dell’identità è costituito dal progetto di vita organizzato in modo riflessivo (Giddens,1994).

Dalla persona anziana l’esperienza del declino corporeo all’interno di un contesto urbano – dove si è ormai affermata la dimensione competitiva e sono scomparsi i luoghi generatori di legami solidali (Bonomi,2009) – è vissuta come un attacco alla sua identità che produce una profonda ferita narcisistica (Spagnoli,2005; Fonzi,2006). Per curarla la persona anziana deve ricorrere a una revisione dell’immagine di sé attingendo alle sue capacità di plasticità e di adattamento per costruirsi una specie di scudo protettivo.

Tra le creature viventi, l’uomo è l’unico essere il cui comportamento può migliorare o peggiorare la qualità del suo invecchiamento attraverso la gestione delle fluttuazioni cui sono sottoposti i suoi sottosistemi vitali e relazionali.

Se è vero che la lunghezza della nostra vita biologica è ampiamente determinata dal punto di vista genetico e che l’ambiente fisico, storico e sociale in cui viviamo può ostacolare o potenziare le nostre capacità adattative nel momento in cui si riducono le nostre capacità funzionali, è altrettanto vero che l’individuo umano con il suo patrimonio di idee, credenze, ruoli sociali, apprendimenti può produrre “cultura”, anche “cultura della vecchiaia”. Proprio nelle ultime età della vita, il genere umano denota sorprendenti capacità di apprendere dall’esperienza e di generare nuove strategie per acquisire le informazioni e le energie indispensabili per padroneggiare le necessità corporee e ambientali. Anche di fronte alla riduzione delle forze fisiche, all’avanzare di un decadimento cognitivo fisiologico e in presenza di condizioni ambientali sfavorevoli, alcuni individui che invecchiano sanno avvalersi della “saggezza”, intesa come capacità di adottare strategie di vita apprese dall’esperienza e raffinate dalle difficoltà incontrate: non tutte le persone che invecchiano sono “sagge”, alcune non lo diventano mai, altre possono diventarlo in ambiti specifici. Queste differenze individuali non fanno che confermare che la saggezza propria di un individuo che invecchia è il risultato ottimale dell’evoluzione in termini psichici, che va al di là delle barriere biologiche e che pone le distanze tra invecchiamento biologico e psicologico (Laicardi, Pezzuti,2000).

Nel corso dell’età avanzata i cambiamenti cui va incontro la persona sono numerosi e si susseguono a distanza ravvicinata. Ciò la costringe a un costante processo di riconversione identitaria volto a ristabilire un equilibrio tra i suoi vari sottosistemi vitali. Il risultato di queste riconversioni resta tuttavia caratterizzato da una profonda fragilità in quanto l’identità non può essere soltanto il prodotto di scelte individuali, ma necessita di un riconoscimento sociale. Un saldo sentimento di identità può essere costruito solo se si può contare sui riconoscimenti che si ricevono dagli altri, da cui origina sia la stima, che è possibile nutrire in se stessi, sia la disponibilità alla socialità (Pizzorno,2007).

Fino a quando nella nostra società dominerà una visione della vecchiaia avanzata fortemente condizionata da paure e stereotipi e fino a quando la cultura positiva dell’invecchiamento resterà patrimonio degli specialisti, l’identità dei grandi vecchi non potrà contare sul quel riconoscimento sociale in grado di sostenere e promuovere densi sentimenti di identità.

Di fronte a una società incapace di leggere l’esperienza dell’invecchiamento avanzato, se non in termini negativi o distorti, ai grandi vecchi non resta che ripiegare sull’unico spazio sociale che conserva i tratti della familiarità: l’ambiente domestico (Caradec,2008). Un ripiegamento che più che in termini di auto-esclusione, va considerato come un modo per rimettere radici in un “angolo di mondo” volto a salvaguardare il sentimento di integrità personale. Senza un ordine del vivere quotidiano è impossibile dare un senso al fatto di vivere, per tale ragione l’individuo cerca di costruire intorno a sè un “mondo familiare” durevole.

La nostra ricostruzione dello spazio del quotidiano dei grandi vecchi potrebbe far pensare a una sorta di vita semplificata, impoverita o organizzata secondo canoni sostanzialmente uniformi. In realtà, proprio grazie all’agire riflessivo del soggetto anziano, ci troviamo in presenza di una molteplicità delle forme del vivere che nella fase finale della vita raggiungono la loro massima espressione. Ciò è in consonanza con gli orientamenti più recenti della psicologia dell’invecchiamento (Laicardi, Pezzuti,2000) secondo cui lo sviluppo umano è il risultato di un percorso sempre più complesso e individualizzato.

Rifacendosi alla “teoria generale dei sistemi”, Schroots (1996) spiega questa complessità dell’organismo umano come sistema aperto di un essere vivente gerarchicamente ordinato in sottosistemi vitali che aumentano con il tempo di complessità, di forma e di organizzazione. Secondo la teoria integrata ed ecologica dell’invecchiamento psicologico di Birren (1996), l’invecchiamento è un fenomeno che, oltre al patrimonio biologico di un individuo, implica l’ambiente fisico e sociale in cui egli vive così come i cambiamenti che esso ha incontrato e gestito.

Nella vecchiaia, mentre alcuni stati vitali dell’organismo perdono informazione e si disorganizzano, altri si arricchiscono di informazione e aumentano in regolazione e ordine.

Definire l’invecchiamento come una perdita graduale di complessità è assolutamente erroneo, come il paragonare un vecchio ad un bambino.

Per descrivere lo sviluppo polimorfico dell’età avanzata, Schroots (1988) ricorre alle metafore dell’ “albero” e del “fiume”. La vita può essere rappresentata come un albero che al termine del suo sviluppo si compone di una parte uniforme, il tronco, e di una parte altamente differenziata, rappresentata dai rami e dalle foglie, oppure, più dinamicamente, come un fiume che, dopo aver proceduto in una sola direzione, giunto in prossimità del mare (metafora della morte) vi si immette attraverso una serie complessa di ramificazioni. Lo sviluppo polimorfico di un fiume ben si adatta, secondo Schroots, a immaginare ciò che l’invecchiamento umano soprattutto non è: cioè uno sviluppo comportamentale lineare secondo fasi, stagioni e transizioni ben delineabili perché biologicamente determinate.

La molteplicità delle forme del vivere prodotta dai grandi anziani in condizioni di grande criticità rappresenta un patrimonio antropologico che la nostra società fatica a riconoscere e a valorizzare. Per poterlo fare è necessario abbandonare il punto di vista unico, centrale e dominante, generalmente assunto da una certa ricerca scientifica e spesso da coloro che rappresentano e progettano le politiche sociali. Entrare nella singolarità dei percorsi biografici (Bourdieu,1993) e dei contesti secondo una prospettiva situata (Schutz,1967; Duranti,2002; Zucchermaglio,2002), così come tentare di assumere uno sguardo sul fenomeno sociale che tenda a gestirlo senza comprimerlo entro griglie interpretative predeterminate, dovrebbe costituire un orientamento condiviso perché mosso da consapevolezza e responsabilità civica.

7 Di fronte alla crescente disaffezione dei lettori uno scrittore può essere spinto a prendere amaramente atto che la sua opera è “superata” . E’ ciò che sperimenta Gilbert Césbron quando scrive: ”Sono un uomo che sta morendo – ma ogni uomo è destinato a morire! Solo che io sono un uomo che lo sa: che lo sa di corpo, e non di spirito. Ho già cambiato pianeta” (Cèsbron,1980). Anche Julien Green nel suo diario torna spesso su questo sentimento di estraneità: ”Essere nati all’inizio di questo secolo che vede scivolare una civiltà nel nulla, che strano destino. (…) Dal 1990, io mi sento straniero in questo secolo che, tutto a un tratto, si è messo a cambiare troppo in fretta, troppo male. (…) Mi sento sempre più spaesato” (Green,1997). In Jean Guéhéno l’estraneità scaturisce dal venir meno del contatto fisico con gli altri: ”Invecchiare bene? Nella vita nessun’ora è più triste di quella in cui si assiste al disfarsi dell’accordo che ci univa agli altri uomini del nostro tempo, quando non si avverte più il tepore del soffio degli altri” (Guehéno,1971).
8 Per studiare queste esperienze Bouisson ha preso spunto da tre racconti autentici: un’esperienza di centodieci giorni nel fondo di una grotta (Le Guen V.,Seule au fond du gouffre,Paris,Arthaud,1989), una spedizione solitaria di sessantatre giorni per tentare di raggiungere il Polo Nord (Etienne J.L., Le marcheur du polo,Paris, Laffont,1986), un’esperienza di internamento nei campi di concentramento di Dachau e di Buchenwald (Bettelheim B.,Le coeur conscient,Paris, Laffont,1972).
9 La nidificazione, la possibilità di creare intorno a sé un contenitore rassicurante, sarebbe anche uno dei primi meccanismi di adattamento e di sopravvivenza. Scrive Primo Levi: ”La facoltà che ha l’uomo di scavarsi una nicchia, di secernere un guscio, di erigersi intorno una tenue barriera di difesa, anche in circostanze disperate, è stupefacente” (Levi,1989). Attraverso un intenso lavoro di adattamento, nel giro di poche settimane, è possibile costruirsi un nido. La tenda e lo spazio direttamente intorno al sacco a pelo, la camerata con l’armadio contenente gli oggetti personali, diventano per i soggetti studiati la “conchiglia”, l’“involucro”, il “nido” che abbiamo descritto. Un luogo che non accetta di essere turbato, in quanto territorio minimo di sopravvivenza, ultimo spazio di sicurezza.
10 Per colmare questo vuoto gli è perciò stato necessario rivolgersi di nuovo ad alcune testimonianze d’autore, che, come nel caso di Francois Nourissier (Nourissier,2001),possono raggiungere una forte pregnanza espressiva. Scrive Nourissier: “Chi di noi, nel momento in cui la vita scorre tra le dita, non ha pensato a sotterrarsi, a rintanarsi?(…) La grotta, la conchiglia. Ne sono tentato, attraverso iniziative, abitudini ancora innocenti: riunire intorno a me gli oggetti consueti – disporli in un ordine immutabile, afferrarli, riporli per procurarmi questa sensazione di densità, dunque di sicurezza, che io credo mi aiuti a vivere. Letto del bambino prima del sonno. Nicchia del cane. Cabina del navigatore solitario. Si è liberi di vedere in questi modi di rannicchiarsi al centro di un reticolo di comodità minuscole e maniache, una nostalgia dell’ovulo, del ventre materno, di invulnerabilità originaria”.
11 Concludendo la sua analisi Bouisson segnala “la necessità di distinguere una routinizzazione-strategia, che possiamo definire come un’attività destinata ad assicurare al meglio o a mantenere il benessere fisico e/o psicologico di un soggetto di fronte a un avvenimento percepito come minacciante e una routinizzazione-processo determinata da un insieme di fenomeni consecutivi ed evolutivi organizzati da dinamiche non intenzionali che può condurre la persona su una strada senza ritorno, con una diminuzione sempre più drammatica delle sue risorse adattative e un impoverimento delle sue relazioni con gli altri”.
12 Marco Aurelio esemplifica così quella che chiama anacoresi in se stessi: un lungo lavoro di riattivazione dei principi generali e delle argomentazioni razionali che possono essere utilizzate per non lasciarsi irritare né dagli altri, né dagli accidenti, né da ciò che ci “è riservato dall’ordine universale” (Marco Aurelio,Ricordi, IV,3). Uno degli aspetti più importanti di questa attività consacrata a se stessi è che essa costituisce non tanto un esercizio della solitudine, quanto una vera e propria pratica sociale.


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