QUADERNI EUROPEI SUL NUOVO WELFARE

Parte seconda: La sfida della grande vecchiaia

2 Il rapporto con il sé

Nella grande vecchiaia il rapporto con il sé è caratterizzato dalla tensione tra sentimenti di “compiutezza” e “incompiutezza” sempre più accentuata.

Diversamente dall’individuo delle società pre-moderne, che viveva in un mondo coerente connotato dalla stabilità e dalla continuità, nella società post-moderna l’individuo abita contemporaneamente in una pluralità di mondi sociali in costante evoluzione che lo espongono a svariate esperienze dai significati spesso contraddittori (Berger P., Berger B., Kellner,1983). L’appartenenza simultanea a più mondi sociali porta l’individuo a relativizzare ognuno di essi, con la conseguenza che l’ordine istituzionale vigente, all’interno di ogni mondo, subisce una certa perdita di influenza sulla sua vita, costringendolo a spostare la sua attenzione dalle istituzioni alla sua sfera soggettiva.

I percorsi biografici individuali che ne scaturiscono assumono così la forma di una migrazione attraverso mondi sociali diversi, che dando luogo alla realizzazione di un certo numero di possibili identità, rendono l’individuo particolarmente vulnerabile alle mutevoli definizioni che gli altri danno di lui, costringendolo a trovare dentro di sé l’appiglio che egli vede mancare nella società.

Nel grande anziano, la tensione tra compiutezza e incompiutezza può essere affrontata in due modi: ancorando la propria identità a ciò che si “è stati” oppure ancorandola a ciò che tuttora “si è”.

Per i più anziani il problema dell’identità si pone nei termini di una scelta dello spazio temporale in cui poter ancorare il proprio sentimento di autostima su cui costruire un rapporto positivo con se stessi e con gli altri. Il rafforzamento del sentimento del proprio valore nel presente può essere facilitato se si continua a fare ciò che si è fatto nel corso della vita precedente.

Nei grandi vecchi la valutazione di se stessi si forma prevalentemente attraverso il confronto con persone della stessa età. La strategia del “confronto discendente”, vale a dire con qualcuno che si giudica inferiore, è la più diffusa. Lo è meno quella “ascendente” (Beaumont, Kenealy,2003). Una donna ultraottantenne può confrontarsi con una coetanea appartenente alla stessa cerchia familiare dicendo ad esempio: “Mia cognata non è in grado di cavarsela da sola. Per la strada deve appoggiarsi al braccio di qualcuno. Non è più in grado di fare le pulizie mentre io chiamo una donna di servizio solo una volta al mese, al massimo due. Per il resto mi arrangio da sola. Mia cognata invece…”

Quando gli impegni nel presente si diradano, alcuni eventi della vita passata possono divenire il principale punto di appoggio per salvaguardare il proprio valore: un successo scolastico che ha fatto la gioia dei genitori, un’esperienza di lavoro in un ambiente prestigioso, un impegno nel volontariato, un incarico sindacale, la partecipazione ad un evento storico (come la guerra o la resistenza).

Fondamentalmente ci si identifica con la società passata – come rivelano le espressioni “ai miei tempi”, “alla mia epoca” – che viene valorizzata e posta su un piano di superiorità rispetto a quella attuale. Agli occhi del grande anziano la società di un tempo, infatti, malgrado fosse fonte di difficoltà (povertà, durezza della vita, guerre), possedeva anche virtù quali la solidarietà, il rispetto e la gioia di vivere: oggi alquanto indebolite. Sotto questo aspetto la televisione offre numerose opportunità di confronto tra i propri valori morali e l’immoralità che si può percepire attraverso certi programmi televisivi: confronto che può essere utilizzato per riaffermare il valore di ciò che si continua ad essere e di ciò in cui si è creduto e si continua a credere.

Un’altra strategia di rafforzamento del valore di sé consiste nel mettere in relazione il presente e il passato attraverso il ricorso alla “valorizzazione indiretta di sé”, stabilendo un’identificazione con i successi di figli e nipoti. Durante un’intervista, una nonagenaria poco loquace mostra il quaderno di un nipote e dice: “Quando la mia donna di servizio di colore ha visto questo quaderno ha esclamato: E’ uguale a quello di mio nipote. Allora le ho risposto: Ma mio nipote è entrato al Politecnico“(Caradec,2007).

A partire da una certa età diventa difficile non riconoscere di essere definitivamente entrati a far parte della categoria dei vecchi. Tutti, prima o poi, devono assumere lo status di anziano. Tale problema può essere affrontato in due modi: da un lato, considerandosi come persone che stanno diventando vecchie, ma che non lo sono ancora; dall’altro, riconoscendo che ormai sono diventate vecchie (Lalive d’Epinay,1996; Clément,1997).

Due modi di affrontare la vecchiaia che si trovano associati a due “identità narrative” (Ricoeur,1990) o a due “racconti di sé” (Giddens,1991) differenti e che rinviano a maniere opposte di stabilire il legame tra il presente e il passato e di progettarsi per l’avvenire.

Coloro che affermano di “sentirsi invecchiare” tendono a esprimersi in termini di continuità rispetto al loro passato, non avvertendo una rottura radicale tra ciò che sono e ciò che sono stati. Il filo conduttore dei loro discorsi è all’insegna del “Continua tutto come prima, malgrado le difficoltà”. Anche se, contemporaneamente, possono cominciare a proiettarsi in un futuro di “vecchi” molto diverso dalla realtà attuale.

Coloro che, invece, riconoscono di essere vecchi possono avere la sensazione che nella loro esistenza sia avvenuta una rottura 4, spesso precisamente collocabile nel tempo, che segna il momento a partire dal quale hanno cominciato a sentirsi diversi da ciò che erano prima. Il leit motiv in questo caso diventa “Adesso, non sono più come prima”. Una convinzione che impedisce loro di proiettarsi in un futuro diverso dal presente fissandoli, in molti casi, in una posizione di attesa passiva della morte.

La definizione “soggettiva” di sé non rispecchia meccanicamente la situazione “oggettiva” della persona: a partire dalla sua situazione presente, dalla sua storia e dal contesto culturale, ciascuno elabora una narrazione al singolare del proprio invecchiamento.

Bernadette Puijalons (Argoud,Pouijalon,1999) attraverso l’analisi dei racconti autobiografici delle persone anziane ha individuato diversi temi che possono essere utilizzati per elaborare l’esperienza di essere invecchiati.

In questi racconti la vecchiaia è spesso percepita non come il risultato di un lungo percorso, ma come un evento che, pur essendo stato preceduto da segni annunciatori, si manifesta come “un colpo di tuono” provocato da un’esperienza apparentemente banale: una caduta, un compleanno, una frase o uno sguardo altrui.

Un altro tema ricorrente nelle narrazioni dei grandi vecchi è il ritorno all’infanzia: il “risalire verso la propria fonte” per far rivivere le sensazioni del passato, ritrovarne la potenzialità progettuale e sospendere, in questo modo, il trascorrere del tempo.

Molto diffuso è l’orientamento a condurre una lettura a ritroso della propria esistenza in modo da poterne ricavare un senso e un insegnamento attraverso la ricerca di una coerenza negli avvenimenti che l’hanno contrassegnata.

Nelle narrazioni è frequente il ricorso a metafore di natura animale, vegetale (“si era l’uccello, si diventa l’albero” scrive ad esempio Gilbert Cesbron (1980)) o minerale (Guéhenno,1971) si sente come “una vecchia stoffa usata, piena di buchi”); stereotipate (“la vecchiaia è un naufragio”) o fantasiose (“Ho la mano piena di sabbia che cade. Me ne resta poca ed è senza valore”, scrive Marc Bernard (1984)).

Nella definizione di sé come vecchi o non vecchi va tuttavia sottolineata l’influenza esercitata dalle relazioni con gli altri, che contribuirebbero a imporre– attraverso i loro sguardi e le loro comunicazioni – etichettamenti (Goffman,1969) che imprigionerebbero gli anziani nella vecchiaia.

Se l’esistenzialismo ha fatto dello sguardo altrui il vero generatore del sentimento di invecchiare: “Dato che in noi è l’altro che è vecchio” scrive Simone de Beauvoir – “è normale che la rivelazione della nostra età ci venga dagli altri” (de Beauvoir,1971); l’interazionismo simbolico (Blumer,1937; Malinowsky,2004; Schutz,1967; Mead,1978; Garfinkel,1967; Goffman,1969), insistendo sul modo in cui l’identità viene costruita in reazione alle immagini di sé rinviate dagli altri, ha contribuito a formulare la nozione di ageismo interattivo per designare le interazioni nel corso delle quali una persona ha il sentimento di essere “vecchia” (Minichiello et al.,2000).

Entrambi gli approcci, a nostro avviso, attribuiscono un peso eccessivo al potere di condizionamento identitario dello sguardo altrui dimenticando, da una parte, che gli altri sono molteplici (e i loro sguardi non necessariamente omogenei) e, dall’altra, che le attribuzioni identitarie che essi operano possono essere respinte come non pertinenti (Blumer,1937). Gli altri, attraverso il loro sguardo, intervengono certamente nella definizione di sé come “vecchi” (o come “non vecchi”), ma più spesso lo fanno indirettamente: sia come “coproduttori” dell’abbandono sia come punti di confronto con sé; noi abbiamo visto che, molto spesso, all’anziano questo confronto con gli altri serve per differenziarsi da coloro che stanno più male al fine di conservare una buona immagine di sè.

Nella tarda età anziana esiste tuttavia un fattore di incomprensione nei rapporti con gli altri che non va sottovalutato. Esso deriva dal contrasto tra l’immagine interiore e l’immagine esteriore di sé.

“Al centro della difficoltà di spiegare cosa sia essere vecchi – sostiene Hepworth – sta la consapevolezza di una differenza esperienziale tra i processi fisici dell’invecchiamento, così come si manifestano nella loro apparenza esterna, e il sé reale interno o soggettivo, che paradossalmente rimane giovane” (Hepworth,1991).

In termini soggettivi il declino fisico può essere interpretato come una maschera che l’invecchiamento sovrapporrebbe a un corpo interno che conserva i tratti della giovinezza (Featherstone, Hepworth,1989,1995), esponendo l’anziano a un’esperienza di rifiuto e di esclusione da parte degli altri che, dal suo punto di vista, andrebbe così riformulata: “gli altri mi respingono non tanto perché sono diventato vecchio, quanto perché sono rimasto un giovane che essi non sono in grado di riconoscere”.

In una ricerca australiana sull’ageismo (Minichiello et al.,2000) viene mostrato come la coscienza di invecchiare possa essere rafforzata dalle interazioni quotidiane con gli altri, i quali esporrebbero l’anziano a rispecchiamenti spiacevoli di varia natura come: l’insofferenza per la lentezza; gli atteggiamenti dubitativi sulla loro capacità di fare; la mancanza di attenzione e di pazienza da parte dei medici; un comportamento protettivo o condiscendente da parte dei più giovani; la sensazione di essere sottoposti a controllo, ecc…

Sebbene si attribuisca, a volte, troppa importanza al potere di condizionamento identitario che gli altri possono esercitare su di noi, le manifestazioni di ageismo non sono senza conseguenze, inducendo le persone a confrontarsi con una nuova immagine di sé che le costringe a interrogarsi sulla loro identità. Al fine di evitare valutazioni negative di sé, la persona anziana può perciò scegliere di evitare i contatti sociali che le generano più incertezza o di negoziare con gli altri una nuova immagine di sé, sforzandosi di adattarsi a un modello di persona attiva.

Nella costruzione dell’identità anziana anche l’uso di alcuni oggetti (come un bastone o il telesoccorso) o le difficoltà di accesso a certi luoghi (ad esempio, per la pesantezza di una porta o per l’altezza di un gradino) possono giocare un ruolo importante.

Il rapporto con il sé del grande anziano è profondamente condizionato anche dalle culture della vecchiaia presenti nella nostra società. Culture che possono essere raggruppate in tre macro categorie: la prima, considera la vecchiaia nei termini di un declino fisico e sociale; la seconda, la considera come una fase in cui è possibile mantenere, sia pure con alcuni adattamenti correttivi, lo stile di vita precedente; infine, la terza, considera la vecchiaia come il punto di massimo sviluppo personale.
a) La vecchiaia declino

Un’analisi dell’origine e dell’affermazione delle teorie della vecchiaia come declino nella società contemporanea ci è fornita da Christofer Lasch che, alla fine degli anni ’70, ha messo a fuoco i presupposti ideologici e le conseguenze pratiche della diffusione su scala di massa di un individualismo esasperato (Lasch,1981). In un capitolo del suo libro Lasch analizza le caratteristiche distintive dell’esperienza del declino fisico e sociale nella personalità narcisistica.

Secondo Lasch la vecchiaia, intesa in termini di declino fisico, si configura come un problema nei confronti del quale “ il vostro medico potrà sperare di trovare rimedio” (Rosenfeld,1976). Questo approccio muove dall’erroneo presupposto che l’incremento della longevità sia dovuto allo sviluppo della medicina moderna, mentre è da tempo provato che in realtà esso è dovuto a uno standard di vita più elevato. Secondo gli storici e i demografi, l’aumento della durata della vita media verificatosi a partire dal XVIII secolo è dovuto più al miglioramento dell’alimentazione, delle condizioni igieniche e dello standard di vita in generale, che all’evoluzione delle tecnologie mediche (Mc Keown,1978). L’assunzione di questa prospettiva conduce a sovrastimare il potere della medicina di prolungare la vita e di eliminare gli orrori della vecchiaia.

Sul piano sociale il declino degli anziani avrebbe origine dall’intolleranza della società nei loro confronti, che può manifestarsi sia attraverso la negazione di un loro ruolo riconoscibile e consolidato all’interno della struttura sociale, sia rendendoli oggetto di processi di marginalizzazione e di esclusione. Per questa ragione, con l’approssimarsi della perdita dell’autonomia e della salute, la loro maggiore preoccupazione è di diventare un peso insostenibile per gli altri e di essere abbandonati nella mani di infermieri indifferenti.

Quando la vecchiaia è concepita come declino l’individuo è portato a contrastarla con tutte le sue forze, piuttosto che riconoscerne l’evidenza. Questa avversione è particolarmente acuta nelle personalità narcisistiche che giudicano la vecchiaia e la morte come atti di prevaricazione e di ingiustizia inaccettabili (Harrington,1969).

Se la vecchiaia suscita apprensioni non è solo per l’obiettiva prospettiva di perdere la salute o per il timore di essere abbandonati, ma anche e soprattutto, perché è la fase della vita che precede la morte. Sebbene da sempre gli uomini temano la morte e coltivino il desiderio di vivere in eterno, la paura di morire si è accentuata in una società in cui si è indebolito il sentimento religioso e che mostra uno scarso interesse per la posterità. “Se la nostra epoca – scrive Lasch – è tanto terrorizzata dalla vecchiaia e dalla morte, deve esistere una qualche predisposizione interiore a provare sentimenti di questo genere, che rispecchiano non soltanto variazioni obiettive dello stato sociale degli anziani ma anche esperienze soggettive che rendono la prospettiva della vecchiaia insopportabile” (Lasch,1981).

La paura della vecchiaia ha perciò una doppia origine: da un lato, essa è il frutto di una valutazione razionale e realistica del destino che la società contemporanea riserva agli anziani, dall’altro è l’espressione della paura della morte: uno dei sentimenti più intensi cui è esposto ogni individuo nel corso della sua esistenza e che la civiltà occidentale ha contribuito a consolidare (Elias,1985).

La personalità narcisistica, oggi sempre più diffusa nella nostra società, è fortemente influenzata dal terrore nei confronti della vecchiaia e della morte. A causa della scarsità delle sue risorse interiori, il narcisista necessita di un forte riconoscimento esterno per rafforzare il suo senso di sé. Egli ha bisogno di suscitare ammirazione per la sua bellezza, il suo fascino, la sua celebrità e il suo potere: attributi che di solito svaniscono con il tempo. Con il venir meno della possibilità di affermare una positiva immagine di sé in campo amoroso e lavorativo, il narcisista scopre di avere ben poco a cui appoggiarsi quando la giovinezza lo abbandona. Le teorie della vecchiaia come declino hanno contribuito alla costruzione e alla diffusione di strategie di vita finalizzate alla conservazione della giovinezza (Puijalons,2004).

Per contrastare il declino fisico ci si dedica al culto positivo della salute, rafforzando le pratiche di governo del proprio corpo, mettendo in primo piano la cultura del fitness e della propria immagine, oppure contrapponendo il regime salutista della dieta permanente ad ogni abuso di eccesso alimentare. In taluni casi si può giungere a nascondere i segni esteriori dell’invecchiamento attraverso il ricorso alla chirurgia estetica o a potenziare le proprie prestazioni fisiche e mentali (human enhancement) avvalendosi delle tecnologie biomediche (Maturo,2009). Per allontanare lo spettro del declino sociale si cercano nuovi interessi e nuove occupazioni: viaggi, sport, letture, attività sociali e culturali. Anche se in questi ambiti non si fanno molti progressi ciò che conta è combattere il disfattismo che consiglierebbe di rallentare, di lasciar perdere, di guardare la televisione, tenendo ben desti tutti i nostri sensi in modo da non farci sentire troppo vecchi.

Per quanto non del tutto inutile agli effetti del mantenimento della salute e dell’efficienza fisica, questa strategia di vita può degenerare facilmente in una sorta di dottrina positivista incentrata sul miglioramento dell’”immagine” fisica e sociale di sé, dietro la quale nascondere i disagi e i malanni della vecchiaia.

L’illusione della giovinezza non può essere protratta all’infinito e la sua caduta, ponendo impietosamente l’individuo di fronte alla sua decadenza fisica, può farlo sprofondare nella disperazione più nera.

 

b) La vecchiaia continuità

Le teorie più recenti sul corso della vita individuale (Levinson,1986) considerano la vecchiaia in termini di continuità rispetto alle fasi della vita che l’hanno preceduta. Secondo queste teorie il corso della vita non sarebbe caratterizzato da compiti evolutivi predeterminati, con cui ciascun individuo dovrebbe misurarsi attraversandone le varie fasi (infanzia, adolescenza, giovinezza, maturità e vecchiaia), ma piuttosto dall’impatto relazionale con eventi “marcatori” imprevedibili che caratterizzano la biografia di ciascun individuo.

“Le nostre vite -secondo Levinson- sono punteggiate da eventi quali il matrimonio, il divorzio, la malattia, la nascita o la morte di persone amate, traumi inaspettati o colpi di fortuna, avanzamenti o fallimenti nel lavoro, il pensionamento, la guerra, periodi di prosperità e di difficoltà economica. Usiamo il termine evento contrassegno (marker event) per identificare un’occasione di questo tipo, che ha un impatto notevole sulla vita di una persona” (Levinson,1986).

Gli eventi contrassegno vanno intesi come momenti salienti della biografia che impongono all’individuo di reagire, di scegliere la strada da intraprendere, attuando una costante riorganizzazione del suo sistema bio-psico-fisiologico interno. Diversamente dai compiti evolutivi delle teorie stadiali, che rappresentano risposte adattative della psiche, gli eventi contrassegno vanno considerati come conflitti generatori di sviluppo: vale a dire elementi capaci di incidere, in profondità, sugli stili comportamentali di ogni individuo (Demetrio,1991). L’impatto che gli eventi contrassegno esercitano sul mondo interno dell’individuo dà luogo a una “struttura di vita” diversa da soggetto a soggetto5.

Il successo o il fallimento nell’affrontare gli eventi contrassegno dipenderebbe sostanzialmente dalla capacità di ridefinizione di sé, poiché gli individui, a prescindere dalla loro età, sono sistemi aperti a continue sollecitazioni e capaci di liberare energie vitali. Questo costante processo di rielaborazione di sé conferisce ai percorsi biografici il carattere della ricorsività, agendo come fattore di arricchimento e di differenziazione delle strutture di vita individuali. Mentre i modelli stadiali del corso della vita considerano il passato come un’entità chiusa e immodificabile, i modelli ricorsivi ritengono possibile introdurvi cambiamenti di prospettiva nella relazione tra i vari elementi che lo caratterizzano.

I cambiamenti della tarda età anziana non rappresenterebbero perciò una rottura irreversibile con la vita precedente ma costituirebbero un’occasione per rendere più ricca, complessa, e perciò unica, la struttura della propria vita individuale.

 

c) La vecchiaia sviluppo

Fra le teorie della vecchiaia che, in termini psicologici, la considerano il più alto livello di sviluppo personale, la più nota è quella di James Hillman (Hillman,2000), uno dei più prestigiosi psicanalisti di scuola junghiana.

La tesi di Hillman si fonda sulla critica alla teoria che interpreta la longevità come il prodotto difettoso della nostra civiltà (Péllissier,2007). Secondo questa teoria, lo sviluppo della scienza e dei servizi sociali condurrebbe alla produzione di una “schiera di mummie viventi”, esseri umani inutili e incomprensibili da relegare in una zona marginale della società. Al contrario, secondo Hillman, la vecchiaia – non avendo origine né dai geni, né dalla medicina, né tanto meno da un accordo collusivo con la società – costituisce quel periodo della vita necessario a confermare e portare a compimento il nostro carattere, vale a dire la nostra peculiarità di esseri umani 6.

Con il trascorrere del tempo, mentre il corpo e la mente si trasformano, il carattere rappresenta quella componente psicologica duratura che rende ogni individuo diverso dagli altri. “Non ho un centimetro quadrato di pelle visibile che sia uguale a prima, non un grammo di materia ossea uguale, eppure io non sono qualcun altro. Si direbbe che esiste un’immagine innata che non dimentica il mio paradigma di base e mi mantiene fedele a me stesso, in carattere con me stesso”(Hillman,2000).

Secondo Hillman l’invecchiamento andrebbe inteso come un’espressione dell’ “intelligenza della vita” come accade, ad esempio, con la crescita durante la giovinezza. Così come all’inizio della nostra vita ci dispieghiamo imparando a parlare, a camminare, a ragionare e a padroneggiare il mondo esterno, allo stesso modo ci ripieghiamo in quella che consideriamo un’involuzione dovuta all’età. Laddove il dispiegamento ci ha assicurato l’ingresso nel mondo, il ripiegamento si rivela essenziale per la nostra uscita dal mondo. In questo senso, leggere i fenomeni della vecchiaia come un preannuncio di morte anziché come un’ occasione per assumere altre modalità di vita sarebbe un errore.

Gli eventi che contrassegnano l’esistenza di ogni individuo, compresi gli accadimenti casuali e il tempo dedicato ad attività inutili, possono essere modellati in un’immagine globale che assicura il mantenimento di un senso di coerenza interiore. In questo modo gli ultimi anni potrebbero essere dedicati a esplorare anche particolari insignificanti o a ripercorrere errori passati al fine di ricavarne configurazioni comprensibili nuove; così come potrebbero consentire una seconda lettura di quelli che erano sembrati essere soltanto problemi biomedici: “La vecchiaia -dice Hillman- deletteralizza la biologia proprio quando più ne siamo fatti schiavi” (Hillman,2000).

Per poter condurre questo lavoro di rimodellamento, è indispensabile sostituire le idee che abbiamo sulla vecchiaia, oggi fortemente connotate da giudizi di valore, considerandole né più né meno “come un’anca che non sostiene più il peso o come un cristallino con la cataratta che non ci consente più di vedere al di fuori della nostra testa, in sala operatoria” (Hillman,2000).

Partendo da presupposti scientifici diversi, anche altri studiosi giungono a conclusioni analoghe a quelle di Hillman.

Rudolf Arnheim (1986), per rappresentare la natura paradossale dell’invecchiamento che, come abbiamo visto, può essere caratterizzato dalla compresenza di componenti involutive ed evolutive, ricorre a una soluzione grafica in cui si sovrappongono due figure: una scala, che sta a rappresentare il concetto di una ascesa spirituale, che può durare fino al termine della vita, e una parabola, che ci riporta all’idea più diffusa dello sviluppo umano, secondo cui a una fase evolutiva succede invariabilmente un periodo involutivo.

Alla metafora dell’ascesa ricorre anche Michel Philibert (1968) che, con il suo libro “L’echelle des ages”, ha dato un contributo fondamentale alla costruzione di una cultura positiva dell’invecchiamento. Contrapponendo al concetto di “invecchiamento-declino”, di origine scientista, il concetto di “invecchiamento-sviluppo”, di origine umanistica (Gaullier,1989), Philibert sostiene che il ciclo di vita andrebbe concepito come una serie di tappe successive che, disposte in una progressione equivalente a un ordine di valorizzazione crescente, offrirebbe, a chi le percorre, occasioni per un costante miglioramento di sé.

Le tre diverse concezioni della vecchiaia che abbiamo sinteticamente riassunto possono influenzare fortemente l’esperienza individuale dell’invecchiamento. Sebbene sia difficilmente contestabile che la concezione dell’invecchiamento come declino, oggi prevalente, contribuisca a rafforzare nella maggioranza dei grandi anziani sentimenti di incompiutezza di sé, questo fenomeno va interpretato come una conseguenza del ritardo culturale che la nostra società manifesta di fronte all’invecchiamento avanzato.

4 Chi sente di “essere vecchio” può far risalire l’origine di questo sentimento ad un evento traumatico come, ad esempio, la mancanza di desiderio, un ricovero ospedaliero, l’aggravamento di un problema di salute, il decesso di un congiunto, un compleanno contrassegnante il passaggio alla decina superiore (come, ad esempio, quello degli 80 anni).
5 “Benché la struttura di vita di ciascuno rifletta la struttura della società, per certi aspetti è anche unica – un riflesso del suo sé e delle sue circostanze specifiche. A partire dalle possibilità e vincoli dati nel suo ambiente, (il soggetto) fa le proprie scelte e costruisce il proprio mondo. Il sé è un fattore cruciale nella formazione e nella trasformazione del mondo di ciascuno. Per essere veramente impegnato con il suo mondo, un uomo deve investire parti del suo sé in esso, e deve ugualmente prendere il mondo nel proprio sé ed essere arricchito, svuotato o corrotto. Fa ciò in infiniti modi. Lo sviluppo adulto è la storia del processo evolutivo d’interpenetrazione reciproca” (Levinson,1986).
6 In ambito sociologico (Gallino,2004), con il termine “carattere” ci si riferisce alla manifestazione esteriore dei modi con cui un individuo, nel corso della sua esperienza sociale, armonizza i compiti postigli dalle sue pulsioni interne con le richieste o le pressioni provenienti dall’ambiente sociale. Il “carattere”, in sostanza, è ciò che caratterizza la specifica natura umana di ogni individuo e che lo rende unico e irripetibile: “E’ il carattere a plasmare la nostra faccia, le nostre abitudini, le nostre amicizie, le nostre peculiarità, il livello della nostra ambizione con il suo corso e i suoi errori” (Hillman,2000).


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