Parte seconda: La sfida della grande vecchiaia
L’inarrestabile incremento del numero dei grandi vecchi (persone ultraottantacinquenni) in corso in tutti i Paesi industrializzati rende necessaria la diffusione di un sapere sociale che, non limitandosi a una valutazione quantitativa del fenomeno e del suo impatto sui sistemi di welfare, contribuisca a delineare il profilo sociale di questa fascia di popolazione e a comprendere i problemi con cui i soggetti che ne fanno parte si misurano nella vita di ogni giorno.
Una “cultura dell’invecchiamento avanzato” è richiesta non solo ai responsabili delle politiche sociali e agli operatori socio-sanitari che lavorano con le persone anziane, ma anche a coloro che giungono a questo stadio dell’esistenza. Come insegna Paul Baltes (1997), uno dei più autorevoli gerontologi del secolo scorso, i grandi anziani, se da un lato devono fronteggiare un nemico, rappresentato dalle risorse biologiche che si vanno degradando, dall’altro, possono contare su un alleato, l’ambiente sociale e culturale che può aiutarli a gestire i problemi della vita quotidiana e a dare un senso a questa difficile fase dell’esistenza.
In questo capitolo, avvalendoci di teorie e strumenti di analisi come quelli di abbandono (Barthe, Clément, Drulhe,1988; Caradec,2004, 2007)1, di fragilizzazione (Bergman, Bèland, Karunananthan, Hummel, Wolfson,2004), di routinizzazione (Bouisson,2007), di ottimizzazione selettiva con compensazione (Baltes,1991, 1997), elaborati negli ultimi decenni nel campo della gerontologia sociale, cercheremo di porre in evidenza ciò che vi è di comune e di diverso nella grande varietà delle forme del vivere che caratterizza l’esperienza individuale della grande vecchiaia.
Le nostre considerazioni si svilupperanno a partire dalla traccia proposta dal sociologo francese Vincent Caradec (2004) in un articolo in cui vengono analizzati i tratti che caratterizzano “la prova della grande vecchiaia” (Caradec,2007)2. Una sintesi di grande utilità per chi vuole leggere, in chiave sociologica, il tema della tarda età anziana.
Caradec (2004, 2007) affronta il tema della grande vecchiaia alla luce dell’approccio sviluppato da Danilo Martuccelli attorno all’esperienza dell’individuo nella società contemporanea (Martuccelli,2006). Questa esperienza si traduce in una serie di prove che l’individuo è chiamato a superare lungo il corso della sua vita e che gli impongono specifiche strategie di adattamento (Martuccelli,2006). Nella grande vecchiaia sono tre le dimensioni nell’ambito delle quali la persona viene messa alla prova:
- il rapporto pragmatico col mondo;
- il rapporto con il sé;
- il sentimento di appartenenza al mondo.
Ciascuna di queste dimensioni è caratterizzata da una tensione tra due polarità: nel rapporto pragmatico col mondo, la polarità è tra l’allontanamento del mondo e la permanenza nel mondo; nel rapporto con il sé, la polarità è tra il sentimento di compiutezza e quello di incompiutezza; infine, nel sentimento di appartenenza al mondo, la polarità è tra l’estraneità e la familiarità del mondo.
1 Il rapporto pragmatico col mondo
La tarda età anziana è fortemente contrassegnata dall’emergere di limitazioni di varia natura che possono introdurre radicali cambiamenti nell’ordine del vivere quotidiano. Tali limitazioni sono molteplici e possono investire contemporaneamente più ambiti di vita. Secondo Caradec le principali limitazioni che si manifestano nella vita quotidiana dei grandi anziani sono associabili ai seguenti fattori:
- il peggioramento della salute fisica e funzionale;
- l’abbassamento dell’energia vitale;
- la rarefazione delle attività
- la contrazione della vita di relazione;
- la consapevolezza accresciuta della finitezza della vita.
Fattori che, combinandosi in modo differenziato da soggetto a soggetto, concorrono a ridurre lo spazio fisico e sociale della persona e ad alimentare la sua sensazione di un allontanamento del mondo.
Senza entrare in un’analisi dettagliata dei fattori di cambiamento della vita quotidiana dei grandi vecchi, proveremo a riassumerne, in termini prevalentemente descrittivi, i tratti che ci paiono più diffusi.
La comparsa di difficoltà di deambulazione, molto diffusa fra i grandi vecchi, determina un restringimento dello spazio-azione. Pensiamo, ad esempio, a chi vive in grandi quartieri periferici, dove i luoghi pubblici sono spesso inaccessibili o poco fruibili a causa delle barriere architettoniche o dell’eccessiva estensione delle distanze. In questi casi lo stimolo ad uscire, non solo può venire meno, ma può essere rafforzato dall’assenza di spazi che possono favorire la socializzazione della persona anziana, come i centri sociali o le aree verdi. Per chi vive in quartieri più centrali lo scoraggiamento alle uscite può derivare dalla scomparsa degli abituali punti di riferimento rappresentati dai piccoli esercizi commerciali.
Nella vecchiaia avanzata lo spazio extradomestico tende a diventare fonte di angoscia e di ansia: guidando si può essere presi dalla paura di non riuscire a rispettare le norme di mobilità in macchina e di suscitare l’ira degli altri automobilisti; camminando vi è il timore di ostacolare il flusso pedonale; prendendo l’autobus ci si scontra con la difficoltà di salire, per l’altezza dei gradini, e di mantenersi in equilibrio durante la marcia. Tutti fattori che rendono queste manovre faticose e frustranti per l’amor proprio. Le persone anziane finiscono col limitare perciò le loro uscite, e quando escono scelgono gli orari meno affollati, gli spazi protetti, i percorsi conosciuti, i luoghi pubblici poco frequentati dai giovani. Alcune, quando sono ancora in grado di uscire, si limitano a percorrere il giro del proprio isolato; altre dispongono di un’autonomia motoria limitata alle dimensioni della propria abitazione. Con il trascorrere del tempo, lo spazio motorio va sempre più contraendosi seguendo un percorso che conduce dalla camera alla poltrona, dalla poltrona al letto.
Con l’insorgere della sordità anche lo spazio uditivo si restringe: molti suoni sfuggono o sono perduti. Sul piano visivo molte cose non sono più viste nitidamente. Sul piano mentale il campo coperto dai processi intellettuali è minore e i tempi di reazione si allungano. Si pensi, ad esempio, al tempo necessario a una persona molto anziana di riconoscere qualcuno che viene a trovarla all’improvviso. L’imprevisto non fa parte del campo psichico della persona anziana. Quante volte, dopo la visita a un parente anziano, abbiamo sentito pronunciare da un famigliare la seguente frase: “Pensavo di fargli piacere, ma ha fatto una grande fatica a riconoscermi”. Anche lo spazio temporale si contrae: i giorni sono contati e la consapevolezza di non aver più molto tempo da vivere comprime il futuro. I ritmi della vita quotidiana si fanno più rigidi, e in molti casi sono scanditi dagli orari delle trasmissioni televisive e radiofoniche.
Ma, nell’età avanzata, è senza dubbio lo spazio sociale a subire la restrizione più rilevante. La riduzione si manifesta innanzitutto nell’ambito famigliare, sia per la notevole diminuzione delle convivenze intergenerazionali che si è registrata negli ultimi decenni, sia per l’aumento della vedovanza, più diffusa fra le donne. Sulla vita di relazione di queste ultime, la vedovanza sembra manifestare spesso un impatto più pesante, poiché a causa della loro maggiore propensione a svolgere attività sociali in coppia con il coniuge, una volta rimaste sole, possono non riuscire a portarle avanti come prima (Pitaud,2004).
Sarebbe comunque un errore concludere che l’età avanzata sia caratterizzata dal vuoto relazionale e affettivo. Le relazioni familiari restano solide. I contatti con i figli sono frequenti, così come quelli con fratelli e sorelle, soprattutto quando non si hanno figli. La stessa diminuzione di coabitazioni intergenerazionali non va interpretata come il segno di un indebolimento delle relazioni tra genitori anziani e figli adulti, ma come un segno della loro trasformazione. L’avvicinamento abitativo tra genitori e figli è di solito preferito alla coabitazione e il telefono assicura oggi un’intensificazione delle comunicazioni a distanza (Pitaud,2004).
Tuttavia esistono, in questa fascia di età, sacche di profondo isolamento sociale che interessano soprattutto le persone senza figli o prive di contatti con i figli.
All’interno della popolazione anziana più isolata vanno tenute distinte le persone abituate a “sbrigarsela da sole” che conservano la loro rete di relazione e danno prova di essere in grado di attivare un aiuto in caso di necessità, e quelle che, essendosi aspettate di vivere la loro vecchiaia in famiglia, soffrono più intensamente i deficit relazionali. In questi casi radio e televisione possono contribuire ad assicurare una presenza affettiva e a colmare il vuoto lasciato dalla scomparsa dei congiunti e certe fiction televisive sono l’occasione per ritrovare personaggi familiari.
Al di fuori della famiglia la vita di relazione è influenzata dalla contrazione delle reti amicali dei coetanei, falcidiate dai decessi e dal ripiegamento sullo spazio domestico, che riduce le occasioni di incontro con quelli sopravvissuti. Nell’età avanzata le relazioni con gli amici sembrano essere fortemente influenzate da un fattore di natura psicologica: il peggioramento dello stato di salute si traduce spesso in un malessere fisico e psichico che, erodendo il senso di autostima, agisce come fattore di elusione dei contatti con gli altri.
Anche l’aspetto fisico esteriore, in una società che enfatizza la bellezza fisica e la pone al centro delle relazioni con gli altri può esercitare un’influenza sulla vita sociale (Lasch,1981). Grazie ai progressi della medicina e, soprattutto, al notevole incremento della qualità complessiva della vita, i segni dell’età lasciati sul corpo affiorano soltanto in età avanzata.
Fino a pochi decenni fa esisteva una certa corrispondenza tra l’età anagrafica e i segni dell’invecchiamento fisiologico. Oggi è solo intorno agli ottanta anni che si manifesta un deterioramento corporeo esteriore. Deterioramento che si rende visibile attraverso la perdita dei capelli, la comparsa delle rughe, l’alterazione fisiognomica, l’abbassamento della statura. Il peggioramento, rispetto ai canoni di bellezza oggi imperanti, dell’aspetto fisico esteriore può contribuire, anche nei casi in cui la persona disponga di un buon livello di salute fisica e funzionale, all’abbassamento del senso di autostima, che, come abbiamo visto, è un fattore che influenza notevolmente la socievolezza della persona.
La decadenza fisica sembra influire maggiormente sulla vita relazionale delle donne che, ricordiamolo, rappresentano la maggioranza di questa fascia di popolazione, poiché può segnare la perdita di due dimensioni costitutive della loro identità: la femminilità e l’eroticità. Esse sono messe in crisi dalle rughe e dal venir meno degli sguardi dell’altro sesso che obbligano la donna a rivedere l’immagine di sé e non pensarsi più come oggetto di desiderio (Fonzi,2006; Pellissier,2007).
Per compensare la mancanza di soddisfacenti relazioni familiari alcuni anziani si avvalgono della solidarietà di vicinato. Una lunga permanenza nello stesso caseggiato può contribuire a consolidare relazioni attraverso la condivisione di esperienze e gli scambi di reciproco aiuto. Un tempo gli inquilini di molti caseggiati, soprattutto nei quartieri popolari, si sentivano membri di un’unica “famiglia”.
Esiste anche una forma di isolamento sociale della persona molto anziana che è di natura culturale: essa deriva sia dai modi di vita dominanti in una società concepita per degli individui autonomi, sia dalle rappresentazioni sociali negative della vecchiaia in essa diffuse. Fattori che alimentano un sentimento di estraneità nei confronti di un mondo non più condiviso.
La vita di relazione della persona in età avanzata subisce anche cambiamenti di natura qualitativa. Un esempio è la mancanza di varietà delle relazioni, che tendono a concentrarsi sull’ambiente familiare e sulle reti amicali di coetanei. Un altro è rappresentato da una diminuzione dell’intensità emotiva nel rapporto con gli altri, spesso causato dai deficit di natura sensoriale di cui soffre la persona molto anziana. L’invecchiamento degli organi sensoriali provoca una diminuzione delle informazioni provenienti dall’esterno che si ripercuote in numerosi ambiti. “Le informazione che noi percepiamo (luce, alternanza giorno-notte, temperatura, ore dei pasti e delle attività) sono ad esempio indispensabili ai nostri sincronizzatori socio-sensoriali, che permettono al nostro organismo di regolare i suoi ritmi e il suo funzionamento (sonno, appetito, ecc.)” (Gineste, Pellissier,2007). L’impossibilità di raccogliere informazioni adeguate sull’ambiente rafforza l’insicurezza che finisce con il frenare i progetti, le attività e le relazioni con gli altri. Nell’età avanzata molte persone si sottraggono alle relazioni o si spostano meno perché non dispongono delle informazioni e delle garanzie sufficienti per affrontare queste esperienze senza correre dei pericoli.
La riduzione delle attività può derivare anche dalla coscienza accresciuta della propria finitezza che, considerata la prospettiva di vita limitata, può alimentare un sentimento di rinuncia rassegnata (de Beauvoir,1971).
L’isolamento, che deriva dall’assenza o dalla riduzione delle relazioni, non va confuso con la solitudine che, essendo associata a un vissuto di abbandono, può essere sperimentata anche da chi è inserito in un’ampia rete di relazioni familiari e amicali. Come, viceversa, è assai frequente imbattersi in persone, che pur vivendo in condizione d’isolamento, non soffrono affatto di solitudine. Ciò avviene soprattutto nei casi in cui l’isolamento deriva dalla volontaria riduzione della vita di relazione. Se si può scegliere l’isolamento, che può essere piacevole (si parla in questi casi di isolamento ben vissuto), non si sceglie mai la solitudine, che è sempre un’esperienza dolorosa e un sintomo di squilibrio della relazione individuo-ambiente. La solitudine può essere definita come un’esperienza spiacevole che appare quando la rete sociale della persona è deficitaria, o percepita come tale, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo. Generalmente le persone avvertono un senso di solitudine quando si manifesta uno squilibrio tra le relazioni sociali reali e le relazioni sociali desiderate (Peplau Perlman,1982). La solitudine può manifestarsi come una condizione permanente, cronica, che finisce col diventare un attributo personale, incorporandosi con l’individuo, ma può avere anche un andamento fluttuante. Può insorgere in concomitanza con scadenze ricorrenti, come ad esempio il compleanno, che può alimentare un sentimento di rimpianto per un’età più felice della propria vita, o come l’anniversario di matrimonio, che, nei vedovi, può amplificare il vuoto affettivo lasciato dalla scomparsa della persona amata. In altri casi ancora la solitudine è transitoria, in quanto legata ad eventi critici occasionali che possono manifestarsi sul piano fisico, come una malattia, un incidente, o sul piano sociale, come le incomprensioni, le frustrazioni e i conflitti cui si è esposti nella relazioni con gli altri.
La solitudine che scaturisce da problemi di relazione con l’ambiente sociale può assumere tre diversi registri. C’è una solitudine esistenziale che nasce dal sentimento di non essere compresi o di non rappresentare più un oggetto di identificazione per gli altri. C’è una solitudine affettiva che deriva dalla perdita delle persone amate. C’è una solitudine sociale, forse la più dura da accettare, che è associata al sentimento di essere ignorati dagli altri (Pellissier,2007).
Quando la vista si abbassa, l’udito si indurisce, le incapacità motorie aumentano, il vigore muscolare si indebolisce, la persona anziana si viene a trovare in una dimensione quotidiana in cui le distanze si dilatano: ciò che era vicino diventa lontano, ciò che era leggero diventa così pesante da non poter essere più sollevato, ciò che stava in alto non è più raggiungibile. La percezione dell’ampliamento della distanza fra sé e il mondo, che si esprime attraverso il linguaggio corporeo, spinge il grande vecchio ad adottare una contromisura difensiva assimilabile, in una certa misura, all’istinto di conservazione, che consiste nel mettere a distanza il mondo (Levet-Gautrat,1985).
Alcuni aspetti dei processi di “messa a distanza del mondo” e di riduzione volontaria dello “spazio-azione”, che rappresentano delle strategie di vita molto diffuse fra i grandi vecchi, vengono tutt’oggi interpretate sulla base di stereotipi culturali, radicatisi successivamente in pregiudizi, quali ad esempio l’indifferenza e l’avarizia, che ne impediscono la comprensione.
Prendiamo il caso una persona anziana che vive in un quartiere periferico poco servito dai mezzi pubblici e che per questa ragione ha ridotto notevolmente i rapporti con i propri figli, a loro volta assorbiti da sempre più pressanti impegni lavorativi e familiari. Cosa può fare questa persona per non sprofondare in un sentimento di disperazione? Mettendo in atto una misura di salvaguardia di sé, reagisce attraverso una presa di distanza affettiva dai propri congiunti. Questo disinvestimento affettivo, che agli occhi dei famigliari può assumere la forma di una inattesa quanto incomprensibile indifferenza, può costituire, in realtà, un mezzo per “prendere le distanze” dal mondo esteriore.
Applicando lo stereotipo dell’avarizia è difficile comprendere come una vita al risparmio, condotta attraverso la gestione oculata delle proprie risorse fisiche ed economiche, sia dettata, nella maggior parte dei casi, dalla necessità di riservarsi un margine di manovra in relazione a un ambiente fisico e sociale che il declino biologico rischia di sottrarre al proprio controllo.
Nell’età avanzata la persona è consapevole della sua fragilità fisica e sa che il minimo incidente, ad esempio una caduta, può avere conseguenze catastrofiche per la qualità della sua vita: ciò che più spaventa i grandi vecchi è la prospettiva di perdere l’autonomia senza poter contare su un aiuto adeguato. Paura più che mai fondata considerato l’attuale stato di logoramento in cui versano le reti di solidarietà pubblica e privata. “La persona anziana sa per esperienza che se non si prende cura di se stessa, nessun altro lo farà. Alla fine è solo questo il compito che la società le assegna: che non diventi un peso per nessuno, o almeno lo diventi il più tardi possibile” (Levet-Gautrat, 1985).
Sarebbe tuttavia sbagliato interpretare la riduzione dello spazio-azione come un fenomeno imposto alla persona anziana esclusivamente da condizioni ambientali sfavorevoli. Nella grande maggioranza dei casi questo processo è governato dalla persona stessa per continuare ad esercitare il controllo sulla sua vita, mano a mano che avanzano le deficienze fisiche, che aumenta la fatica e che vengono a mancare le sollecitazioni altrui.
Per poter continuare a sentirsi radicata nel mondo è la persona anziana stessa che, consapevole di una sua minore efficienza fisica e funzionale, contrae il suo raggio di azione concentrandolo sulle attività e sulle relazioni che ai suoi occhi possono consolidare il suo sentimento di identità sociale.
Per definire questo lavoro di riorganizzazione del quotidiano condotto dai grandi anziani, i sociologi francesi Barthe, Clément e Drulhe (1988) hanno elaborato il concetto di abbandono. Alla luce di questo concetto l’individuo anziano appare come un attore impegnato in un lavoro di negoziazione finalizzato alla conservazione della sua identità minacciata dalle implicazioni biologiche e sociali legate al trascorrere del tempo.
Nato come tentativo di superamento della “teoria del disimpegno” (Cumming, Henry,1961), il concetto di abbandono, che fa riferimento a principi vicini a quelli dell’interazionismo simbolico (Blumer,2008; Garfinkel,1967) e del costruttivismo sociale (Berger, Luckmann,1969), permette di pensare in termini nuovi la perdita di competenza e la svalorizzazione di sé che si constata spesso fra le persone anziane.
Secondo la teoria dell’abbandono, per poter continuare a mantenere la presa sulla sua vita, la persona anziana può scegliere tra una grande varietà di soluzioni: il ricorso ad aiuti tecnici o ad astuzie per adattarsi alle difficoltà che deve affrontare; la sostituzione delle attività che non si riescono più a praticare (ad esempio: quando non è più possibile raggiungere la chiesa si assiste alla messa in televisione); la pratica delle attività anteriori ad un ritmo più basso o con una minore frequenza (ad esempio continuando a guidare la macchina, ma per dei tragitti più brevi; mantenendo un’attività di giardinaggio, ma per una superficie più limitata); l’abbandono di certe attività per intensificarne altre; lo sforzo di conservare il più a lungo possibile impegni importanti.
Lungi dall’essere uniforme l’abbandono si declina diversamente secondo i contesti fisiologici e sociali in cui si svolge l’avanzamento in età. Così molte persone restano coinvolte, nonostante l’età avanzata, in molteplici attività, in buona salute conoscendo poche difficoltà fisiche, continuando ad essere sollecitate, il loro abbandono prende la forma di una successione di riconversioni senza che ciò comporti una riduzione del livello delle loro attività. Al contrario, altri accumulano le difficoltà e sono condotti a impegnarsi in un ampio lavoro di riorganizzazione della loro esistenza fino ad abbandonare attività per loro essenziali a un punto tale che la noia può invadere il loro quotidiano 3.
Riassumendo, potremmo sostenere che l’abbandono presenta una duplice natura: da una lato, la tendenza all’abbassamento del livello medio delle attività; dall’altro, il fatto che questo abbassamento è il risultato delle molteplici riconversioni attraverso cui le persone che invecchiano possono sia abbandonare certe attività, sia tentare di conservare i loro impegni anteriori o di assumerne di nuovi. In altre parole, l’abbandono designa, nello stesso tempo, un processo – un insieme di riconversioni di attività – e il risultato di questo processo – una generale tendenza all’abbassamento delle attività (Caradec,2007).
Le limitazioni, oltre a non ripercuotersi in modo identico sulla vita dei grandi anziani, possono assumere significati diversi da soggetto a soggetto e dar luogo a strategie di gestione molto differenziate. L’abbandono si caratterizza come un processo attivo di riorganizzazione dell’esistenza adottato per fronteggiare l’aumento delle limitazioni e la conseguente diminuzione dell’autonomia fisica e funzionale.
1 Usiamo questo termine per tradurre la parola francese déprise il cui senso è difficilmente esprimibile in italiano. Essa deriva dal verbo de-prendre lasciare la presa, “Je me déprends de tout”, scrive Julien Green in uno dei suoi diari. Le parole italiane che forse più si avvicinano a déprise sono rilascio (nel senso di abbandono della presa), distacco e dismissione.
2 La prova della grande vecchiaia che propone Caradec differisce sensibilmente dalla “crisi” della vecchiaia cui fa riferimento Erik Erikson nella sua teoria epigenetica. Secondo questa teoria lo sviluppo psicologico avverrebbe per via cumulativa, seguendo un percorso di crescita individuale e predeterminato dove ogni avanzamento si realizzerebbe solo a condizione di avere elaborato con successo i conflitti emotivi che contrassegnano ogni stadio (intimità, generatività, ecc…). Nel caso di conflitti irrisolti, lo sviluppo si interromperebbe, a prescindere dall’età del soggetto. Nel modello di Erikson la vecchiaia, ottava e ultima crisi esistenziale , ha come suo oggetto la valutazione della vita passata, che è segnata dalla tensione tra integrità e disperazione: due maniere opposte di risolvere la questione del senso della propria esistenza (Erikson E.H., Erikson J.M., Kivnik,1986). Secondo Caradec, invece, le prove, benchè vengano studiate a livello individuale, devono essere considerate come il prodotto di una data società in un momento storico definito. Un approccio quest’ultimo, che potremmo definire socio-genetico dove “sono gli eventi extra-individuali (le occasioni, i fatti, gli episodi della vita), e non le tendenze predeterminate, a spingere gli individui ad assumere le decisioni e le strategie necessarie ad assecondare il proprio sviluppo personale” (Demetrio,1991).
3 Benché l’ abbandono presenti delle analogie con la teoria del disimpegno (Cumming,1961), le differenze tra queste due prospettive non vanno sottovalutate. In primo luogo, questa riduzione delle attività non deve essere interpretata come una manifestazione inevitabile dell’invecchiamento, ma come un processo dalle forme svariate. In secondo luogo l’abbandono non va inteso in termini funzionali per la società: essa risulta più semplicemente dall’adattamento a nuove limitazioni la cui probabilità di comparsa aumentano con l’età. Infine l’abbandono non è irreversibile: può succedere che a una fase di declino delle attività possa subentrare una loro ripresa. Il concetto di abbandono presenta evidenti analogie con il concetto di ottimizzazione funzionale elaborato in ambito psicologico da Paul Baltes (1991, 1997). La teoria dell’ottimizzazione funzionale si fonda sul presupposto che la chiave per un buon invecchiamento non consiste nel rifiuto del declino fisico, ma nel suo padroneggiamento affettivo e cognitivo. Per fronteggiare con successo il decadimento fisico la persona anziana può ricorrere a tre strategie: la selezione, l’ottimizzazione, la compensazione. La selezione consente di ridurre il numero delle attività svolte dalla persona anziana a quelle più significative. L’ottimizzazione consiste nell’impegnarsi di più e nel dedicare sforzi particolari per eseguire al meglio le attività selezionate. La compensazione conduce ad adottare delle procedure o delle tecniche che permettono di nascondere le deficienze nella loro esecuzione. Nella letteratura gerontologica la teoria dell’ “ottimizzazione funzionale” viene definita con l’acronimo SOC composto dalle iniziali delle parole selezione, ottimizzazione, compensazione.