Parte prima: La (de)costruzione sociale della vecchiaia dipendente
La sociologia ha tardato ad occuparsi della vecchiaia. Il concetto di età ha mantenuto a lungo un posto marginale rispetto alle sue preoccupazioni originarie che, alla fine del diciottesimo secolo, si concentravano sui problemi posti dalla rivoluzione industriale e dallo sviluppo delle società democratiche. L’homo sociologicus (Dahrendorf,1989) era definito innanzitutto per la sua appartenenza sociale e la sua età era considerata una caratteristica secondaria.
Parafrasando Pierre Bourdieu si potrebbe affermare che, per la sociologia, la vecchiaia, non diversamente dalla giovinezza, è rimasta a lungo “nient’altro che una parola” utilizzata per “sussumere sotto un medesimo concetto degli universi sociali che non hanno praticamente nulla in comune” (Bourdieu,1984).
Nel discorso pubblico la parola “invecchiamento” indica quasi sempre che una persona, una cosa, un’idea hanno perso, per l’azione del tempo, freschezza, vigore, funzionalità, e che per questa ragione siano da ritenersi superati. In questo modo si contribuisce ad attribuire a tutte le persone qualificate come “vecchie” tutti i deficit di performance umana o meccanica che corrispondono allo stereotipo dell’invecchiamento: fragilità fisica, cattivo stato di salute, capacità intellettuali ridotte, stato di dipendenza, povertà, incapacità di imparare cose nuove, diminuzione della libido.
Questi stereotipi, pur essendo largamente erronei, vengono ancora oggi utilizzati per giustificare forme di discriminazione nei confronti degli anziani. Nei paesi anglosassoni per definire questa visione stereotipata della vecchiaia, in analogia a termini quali “sexism” o “racism”, è stato coniato il termine “ageism”. Anche se l’aumento del numero di persone anziane dipendenti rappresenta una dolorosa realtà, i dati della ricerca ci dimostrano che esiste un ampio ventaglio di modi di essere vecchi (Johnson,2001).
Tornando al concetto di età, esso negli anni ha sofferto anche di un pregiudizio: in quanto caratteristica fortemente condizionata dalla dimensione biologica, è apparso spesso troppo poco sociale rimanendo trascurato da una sociologia che ai suoi albori si mostrava ansiosa di delimitare il proprio territorio disciplinare. Gli aspetti fisici, mentali e sociali dell’invecchiamento venivano spiegati come naturali e inevitabili, mentre si ignorava, ad esempio, il problema dell’abbassamento di status delle persone anziane, accettando la dominante visione economicistico-utilitaristica che le poneva in una situazione di disuguaglianza (De Simone,1997) rispetto agli altri membri della società (Townsend,1981).
Solo dopo la fine della seconda guerra mondiale, soprattutto negli ultimi quarant’anni, la vecchiaia e l’invecchiamento sono diventati un degno oggetto di studio per la sociologia. Tale cambiamento di orientamento è stato certamente influenzato dal costante aumento della popolazione anziana, ma soprattutto dal conseguente sviluppo di politiche pubbliche ad essa destinate. Sono queste ultime a formare (insieme alla politica sociale in materia di occupazione, salari, fisco, trasporti, pianificazione urbana rivolta alla globalità della popolazione) la pubblica coscienza sui significati dell’invecchiamento e della vecchiaia e a influenzare indirettamente la situazione e lo standard di vita delle persone anziane.
L’indebolimento della visione classista della società ha spinto la sociologia contemporanea a ridimensionare l’importanza dell’appartenenza sociale come esclusiva caratteristica personale da prendere in considerazione. Negli ultimi decenni, la ricerca sociologica, dopo aver privilegiato a lungo l’analisi dei fatti sociali (Durkheim,1996) e delle strutture sociali, ha esteso il suo interesse agli studi micro sociologici rendendo così possibile una maggiore conoscenza delle caratteristiche dell’invecchiamento individuale.
Uno degli aspetti più significativi dell’invecchiamento demografico è la rapida espansione del numero di persone anziane in condizione di dipendenza.1
La parola dipendenza ha iniziato la sua ascesa negli anni ’70 divenendo l’attributo specifico della “vecchiaia con problemi”, considerata come un fardello per la famiglia e per la società, ma anche come una categoria sociale i cui membri rischiano di non essere considerati soggetti a pieno titolo poiché non più autonomi a causa della incapacità di governare da soli la loro vita quotidiana.2
Nonostante le conseguenze dell’allungamento della durata della vita potessero essere previste con qualche decennio di anticipo, fu solo verso la metà degli anni ’70 che il fenomeno dell’aumento vertiginoso delle persone anziane dipendenti cominciò a manifestarsi in tutta la sua drammatica evidenza. Così, colti di sorpresa, gran parte dei Paesi interessati da questo fenomeno si trovarono nella necessità di elaborare previsioni (Colombo, Ronzitti,2007) attendibili intorno all’impatto che l’aumento di persone anziane dipendenti avrebbe avuto sull’incremento della domanda di servizi sanitari ed assistenziali.
Se si pensa che una persona dipendente costa da 1,5 a 2 volte più di una persona della stessa età in buona salute; che il costo annuale di una persona demente può raggiungere i 50.000 euro; che il 10% dei pazienti (in larga maggioranza anziani) assorbe da solo il 70% della spesa sanitaria (Pellissier,2007), si possono comprendere le preoccupazioni delle istituzioni chiamate ad affrontare un fenomeno che, sul piano pubblico ha assunto, fin dal suo primo apparire, le caratteristiche di una vera emergenza sociale (Guidicini, Pieretti, Bergamaschi,2000). Sulla base delle proiezioni demografiche, la dilatazione della spesa necessaria per garantire a questa fascia di popolazione cure ed assistenza minaccia di compromettere la tenuta finanziaria del nostro sistema di welfare (Callahan,1995).
Nel dibattito pubblico i costi causati dall’invecchiamento avanzato vengono presentati con metafore a forte caratterizzazione catastrofica (“bomba demografica”, “peste bianca”, “marea grigia”) che finiscono con il rafforzare l’idea che questa fascia di popolazione rappresenti un peso sociale insostenibile. In una prospettiva economicistica, infatti, gli anziani non autosufficienti rientrano in quel fenomeno della “sovrappopolazione” che comprende proprio quei soggetti che oltre a non contribuire al funzionamento senza intoppi dell’economia, rendono molto più difficile il raggiungimento – per non dire l’aumento – dei parametri in base ai quali se ne misura e se ne valuta il buon funzionamento. Il numero di queste persone sembra aumentare in maniera incontrollabile, provocando la crescita incessante delle spese, ma non dei guadagni (Bauman,2005).
Improduttivi e costosi, gli anziani dipendenti rientrano a pieno titolo nella categoria degli “inutili”, subendo il medesimo etichettamento (Goffman,2003) che, prima del XVI secolo, veniva applicato ai poveri, ai vagabondi e agli impotenti senza distinzione di età (Blois,2002).
Fra gli studiosi che si stanno occupando di questo fenomeno vi è chi sostiene che l’approccio economicistico alla condizione di dipendenza degli anziani possa riattualizzare problemi che le nostre società pensavano di aver risolto definitivamente al termine del secondo conflitto mondiale (Habermas 2002). Jérome Pellissier osserva, ad esempio, che anche i programmi eugenetici del nazismo avevano fatto ricorso a forti motivazioni economicistiche per poter essere sostenuti di fronte all’opinione pubblica. Nella loro versione più radicale, le teorie eugenetiche tedesche elaborate all’inizio degli anni ’20 e attuate nel corso delle seconda guerra mondiale, giungevano a giustificare il diritto alla soppressione di «persone mentalmente morte», «gusci vuoti di esseri umani»: termini che vennero sintetizzati nell’espressione «vite indegne di vita» oppure «vite indegne di essere vissute» (Pellissier,2007).
Peter Laslett, insigne studioso di demografia storica, ci segnala che posizioni analoghe nei confronti delle persone molto anziane si erano affacciate alcuni decenni prima dell’avvento del nazismo anche in ambienti della medicina accademica. Nel 1906 William Osler, forse il medico più eminente della sua generazione in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, in un discorso pronunciato in occasione dell’assunzione della cattedra di Regius Professor of Medicine a Oxford, espresse sentimenti di totale ostilità verso le persone molto anziane la cui “serena dipartita per mezzo del cloroformio poteva essere la cosa più desiderabile per tutti” (Laslett,1992).
Se non è sostenibile, per il momento, un’infausta replica dei programmi di soppressione delle vite “indegne di essere vissute”, il riemergere di forme di intolleranza e di aggressività diffusa nei confronti di varie espressioni di diversità (Callari Galli, Ceruti, Pievani,1998), presenti nelle nostre società, dovrebbe almeno indurci a non dimenticare il monito che Primo Levi ci aveva indirizzato nel suo ultimo scritto: “ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte e oscurate: anche le nostre” (Levi,1986).
Ciò non esclude tuttavia che già oggi nei confronti degli anziani dipendenti possano essere messe in atto misure capaci di produrre condizioni che impediscono loro di continuare a svolgere una vita dignitosa. La lentezza con cui i governi deliberano piani di finanziamento dei servizi sociali e sanitari, l’esclusione delle persone al di sopra di una certa fascia di età dalla fruizioni di prestazioni sanitarie, l’inadeguatezza della medicina di base e dell’assistenza ospedaliera ai bisogni dei malati molto anziani, l’indebolimento delle forme di tutela dei diritti di cittadinanza, la tolleranza verso forme di violenza, abuso, maltrattamento, l’indifferenza o la debole reazione di fronte a fenomeni di rilevanza catastrofica come i quindicimila decessi (cinque volte i morti dell’attentato alle Torri Gemelle) causati fra gli anziani non autosufficienti dei Paesi europei dell’area mediterranea dall’ondata di caldo dell’estate del 2003, sono tutti segnali che sembrano inviare agli anziani non autosufficienti un messaggio poco confortante: “Non volete morire… Bene, vi si lascerà vivere. Al minimo. Nessuno omicidio fisico. Solo omicidi sociali, psichici, simbolici” (Pellissier,2007). Stiamo già assistendo, secondo Pellissier, a una forma di “eutanasia morbida” che per essere sostenuta deve far ricorso ad una svalutazione sistematica della condizione sociale delle persone anziane dipendenti.
All’interno di una collettività di individui che si considerano sovrani e autonomi in se stessi e affrancati dalla relazione con Dio e con gli altri uomini, la dipendenza è una condizione inaccettabile perché smaschera la propensione della società attuale a creare “degli individui per difetto” e a “invalidare socialmente” gli individui più fragili attraverso lo smantellamento progressivo delle protezioni collettive e dei diritti sociali (Castel,2001). Rivelando un corpo che si degrada, sia funzionalmente che esteticamente, il vecchio dipendente denuncia la fragilità dei valori giovanilistici e efficientistici di cui è pervasa la nostra società e assurge a simbolo della persona che nessuno desidererebbe mai diventare.3
Anche la parola “badante”, termine ormai entrato nell’uso comune per definire la persona che assiste un anziano dipendente, contiene un significato sottilmente spregiativo, sia per chi bada, sia per chi è badato. Quasi a voler sminuire, specie quando si tratta di persone a pagamento e per di più straniere, non solo il lavoro, ma il mondo di significati e l’intensità relazionale che si producono inevitabilmente nelle relazioni di cura (Saraceno,2009).
Il disgusto nei confronti di certi prodotti corporali (come le feci, le urine e altre secrezioni), che sono sicuramente una delle manifestazioni più sgradevoli della condizione di dipendenza, rivela il timore che il loro effetto contaminante possa svelare quella natura animale che caratterizza la condizione umana anche a un elevato livello di civilizzazione (Nussbaum,2005).
La svalutazione generalizzata della vecchiaia dipendente offre ai politici un poderoso alibi per l’occultamento di aspetti significativi del problema e per l’attenuazione delle responsabilità derivanti dall’assunzione di misure palesemente inadeguate. “Prima di morire – ci ricorda ancora Primo Levi – la vittima deve essere degradata, affinché l’uccisore senta meno il peso della sua colpa” (Levi,1986).
Infine non si può trascurare l’influenza che, sul dibattito pubblico intorno a questo tema, esercita un sempre più evidente conflitto intergenerazionale che vede le giovani generazioni manifestare una certa riluttanza a farsi carico dei problemi di un gruppo sociale che ha goduto, e in larga parte ancora gode, di condizioni di vita superiori a quelle che esse vedono dispiegarsi davanti a sé (Franchini,2004).
Nate dall’esigenza prioritaria di elaborare previsioni attendibili circa l’impatto che l’incremento della popolazione anziana dipendente avrebbe avuto sulla spesa sanitaria e sociale, le politiche di welfare (Tognetti Bordogna,2007) rivolte agli anziani dipendenti sono state costruite fin dall’inizio sulla base di un paradigma bio-medico (Braibanti, Zunino,2005) della dipendenza4 che rinvia a una concezione meramente biologica dell’invecchiamento.
Quali sono le caratteristiche e le ricadute sociali di questo paradigma? Come “modello” esso rinvia a una concezione medica dell’invecchiamento assimilandolo a uno stato patologico. Come “teoria dominante”, concepita principalmente da geriatri ospedalieri, consente a questi ultimi di estendere un predominio sull’intero campo della vecchiaia. Predominio che introduce un radicale cambiamento di orientamento nelle politiche sociali per la vecchiaia, che vanno via via abbandonando una visione mirante a riconoscere e a farsi carico della globalità dei bisogni espressi dalle persone anziane dipendenti (Cutini, 2010) per appiattirsi su una visione che si limita esclusivamente a rilevare e fronteggiare i problemi che le loro condizioni di salute creano alla famiglia e alla società.
Sulla base di tale paradigma non è più la società a produrre l’invecchiamento avanzato, ma sono i vecchi che, a causa della loro età avanzata, creano problemi alla società.
Età cronologica > Patologia > Persona anziana con incapacità > Bisogno di aiuto > Difficoltà per la società
Una tale visione dell’invecchiamento, ormai profondamente incorporata nella legislazione in materia di politica della vecchiaia, se da un lato facilita la quantificazione dei costi assistenziali creando il presupposto indispensabile alla loro contabilizzazione e a un’equa distribuzione degli oneri finanziari che ne conseguono sui soggetti pubblici o privati coinvolti, dall’altro lato presenta le caratteristiche di un macroscopico processo di esclusione sociale sui cui tratti distintivi vale la pena condurre un’attenta riflessione. Questo processo trae origine dall’ambiguità del termine dipendenza che può dar luogo a interpretazioni profondamente difformi a seconda che lo si legga in chiave medica o in chiave sociale. In termini medici la dipendenza può essere definita come la situazione di una persona che a causa di un deficit fisico non è in grado di provvedere a se stessa se non con l’aiuto totale, continuo e permanente di altre persone. In termini sociali la dipendenza significa la subordinazione di una persona a un’altra persona, a un gruppo, a una famiglia o a una collettività. Una distinzione che, sul piano sociale, va considerata riguarda la differenza tra gli anziani dipendenti che sono in grado di manifestare le proprie esigenze, ma non di soddisfarle, e quelli che non sono nemmeno in grado né di manifestarle né di soddisfarle.
Fin dal suo primo apparire la dipendenza impone all’anziano una relazione, uno scambio con la persona che si impegna ad aiutarlo e che, a sua volta, diviene dipendente dalla persona che aiuta. Senza un’analisi specifica della natura dei problemi che la relazione di aiuto pone a ciascuna persona dipendente è facile mettere in atto, sia pure inconsapevolmente, processi che, imponendo profonde limitazioni al governo di sé e della sua vita, si possono tradurre in forme di emarginazione e di esclusione sociale (Ennuyer,2004).
L’essere osservato esclusivamente in una prospettiva deficitaria rafforza nell’anziano quel sentimento di estraniamento da sé e dagli altri che egli comincia ad avvertire dal momento in cui si trova ad affrontare problemi derivanti dalla sua minore efficienza fisica e funzionale. Se si pensa che l’anziano tende, per sua natura, a sentirsi più difettoso e incapace di quanto in realtà non sia, si può comprendere quanto destabilizzante possa risultare, sul piano dell’identità personale, un’esperienza di auto estraniamento vissuta in un contesto sociale che la rafforza e la cronicizza (Comitato Nazionale di Bioetica,2006).
L’accesso ai servizi socio-sanitari per la popolazione anziana dipendente è governato da metodologie di valutazione per la maggior parte di derivazione medico-geriatrica che presentano evidenti analogie con le pratiche di spersonalizzazione (Goffman,1968) che la nostra società ha adottato nei confronti di tutte le forme di devianza e che si fondano sulla scansione “categorizzazione-stigmatizzazione-confinamento”. Attraverso la categorizzazione delle persone anziane dipendenti si delimita un gruppo di soggetti separandolo dagli anziani sani e dalle persone adulte. Con la stigmatizzazione (Goffman,2003) si imprime a questa fascia di popolazione una connotazione meramente svalutante che ne giustifica il confinamento o la marginalizzazione sociale. Questo processo viene messo in atto ogni volta che nel riferirci a persone anziane dipendenti facciamo ricorso a termini che non descrivono qualche specifica caratteristica del loro essere, ma che sottolineano esclusivamente ciò che esse non sono in relazione alle nostre caratteristiche “normali”. Così facendo si pongono le premesse perché esse non siano considerate delle persone e possano invece essere “neutralizzate” (Dal Lago,1999).
Il limite più macroscopico del paradigma biologico dell’invecchiamento consiste nel trascurare l’impatto che le incapacità possono esercitare sull’identità e sulla continuità della vita della persona anziana.
Scorrendo alcune pubblicazioni scientifiche, colpisce il notevole divario tra la sovrabbondanza di informazioni presenti sullo stato di salute fisica, psichica e funzionale di questi soggetti (accuratamente riassunti in tabelle e grafici sofisticati) e la carenza di informazioni intorno alla loro identità sociale e alla struttura della loro vita quotidiana. Nella pubblicistica scientifica è raro rinvenire ricerche di stampo qualitativo (Silverman,2008) quali, ad esempio, etnografie, interviste o analisi dei discorsi che ci svelino informazioni relative alle esperienze vissute degli anziani, alle perdite da loro sofferte, alle loro relazioni affettive, alle caratteristiche dei loro ambienti familiari e sociali o ai loro desideri (Comitato Nazionale di Bioetica,2006).
Le pratiche di accertamento e certificazione della condizione di dipendenza sembrano perciò fissare il punto di inizio di quel processo di separazione tra il corpo biologico e il corpo biografico che andrà approfondendosi nella fase finale della vita (Cosmacini,2010) dove il mancato riconoscimento della molteplicità dei fattori che caratterizzano l’identità sociale di ogni individuo, equivale a un atto di discriminazione sociale.5
1 Nella letteratura scientifica e nella legislazione italiana in materia di politiche per le persone anziane con problemi di salute fisica e funzionale il termine usato per definire questi soggetti è quello di “non autosufficienti”. In questo testo abbiamo deciso di utilizzare il termine dipendenti sia perché esprime meglio il carattere relazionale di questa condizione sia perché è il più diffuso a livello internazionale . Il termine non autosufficienza pone l’accento soprattutto sulle carenze individuali del soggetto non autosufficiente che è sprovvisto delle “energie e dei mezzi necessari alla propria conservazione” (Devoto/Oli).
2 Il prolungamento della durata della vita ha determinato un notevole incremento delle malattie cronico-degenerative, che si accompagnano all’aumento delle polipatologie che per molti anziani si traducono nella incapacità di eseguire le attività comuni della vita quotidiana. Fenomeni, questi ultimi, che hanno condotto a un progressivo aumento del numero delle persone anziane dipendenti, vale a dire di coloro che, a causa di patologie fisiche e psichiche, di diversa natura e intensità, si trovano in condizioni di autonomia limitata e sono costrette a ricorrere all’aiuto di un’altra persona per compiere gli atti ordinari della vita quotidiana.
3 Regis Debray, uno fra i più noti intellettuali europei, in un provocatorio pamphlet dal titolo “Fare a meno dei vecchi”, dispiega tutta la sua immaginazione letteraria per coniare termini svalutativi degli anziani dipendenti: “corpi disgustanti”, “anziani a rischio”, “bipedi senza forti desideri”, “umani avariati”, “vecchiacci post-moderni”. Termini che definiscono lapidariamente l’immagine sociale più diffusa della persona anziana dipendente nella società: quella di un“ disgraziato degno di pietà, che è sempre stato un peso, e che oggi è divenuto anche un’oscenità” (Debray,2005).
4 La parola paradigma, dal greco “paradeigma”, vuol dire modello, esempio, in particolare parlando di cose astratte. Essa è entrata nel vocabolario dell’epistemologia come un insieme coerente e articolato di teorie, metodi e procedimenti, che in una determinata fase storica dominano all’interno di una comunità scientifica. “Se, come sostiene Bernard Ennuyer, autore di un ampio e approfondito studio del concetto di dipendenza– utilizziamo la parola paradigma, a proposito del vocabolo dipendenza, è per fare riferimento a un “modello” e a una “teoria” dominanti in una comunità medico-geriatrica nascente, che agli inizi degli anni 80, vuol farsi riconoscere come scientifica” (Ennuyer,2004).
5 Nel 2007, “Anno europeo dell’uguaglianza delle opportunità per tutti”, AGE, la Piattaforma europea delle persone anziane, organismo che raggruppa una rete europea di associazioni di persone anziane con più di 22 milioni di iscritti, ha diffuso un documento con cui invita i governi ad adeguare la loro legislazione alle molteplici esigenze di una popolazione caratterizzata da un sempre più forte invecchiamento. “La molteplicità delle identità degli individui – si legge nel documento – è riconosciuta da molto tempo ma il quadro giuridico e politico non si è ancora totalmente adattato a questa diversità”. Le persone anziane, come tutti gli altri individui della società, desiderano essere socialmente riconosciute attraverso una molteplicità di identità, di cui l’età è spesso un’identità debole. Tenuto conto delle identità multiple di ciascun individuo e della diversità crescente delle società europee, è indispensabile che i decisori delle politiche sociali adottino un approccio che riconosca questa molteplicità così come l’importanza delle singole identità, soprattutto per ciò che riguarda le persone anziane (AGE – La plate-forme européen del persones agées,2007).