Introduzione: La vera vecchiaia
Il discorso sulla vecchiaia è da sempre caratterizzato da una profonda incertezza terminologica. Termini quali persone anziane, vecchi, terza età, quarta età, pensionati, senior, si confondono, si sovrappongono o si oppongono (Caradec,2008). Nel corso del tempo può accadere che un termine assuma un significato opposto a quello originario. E’ il caso di “terza età” che, adottato negli anni 60, in alternativa al termine “pensionato”, per proporre una concezione ottimistica e attivistica della vecchiaia, ha assunto nel giro di pochi decenni una connotazione negativa, soprattutto fra le generazioni più giovani (Laslett,1994). Anche la difficoltà di stabilire una soglia di accesso condivisa alla vecchiaia, che alcune categorizzazioni statistiche fissano a 60 anni, mentre altre la elevano a 65, conferma questa incertezza. La varietà e la vaghezza terminologica denotano un’esitazione ed un’ambivalenza simile a quella che circonda i discorsi sulla morte. Il ricorso a circonlocuzioni o a espressioni eccessivamente ottimistiche o pessimistiche sembra rivelare sia il disagio che proviamo di fronte a una condizione che non abbiamo ancora imparato a padroneggiare (Laslett,1994), sia la rimozione di una condizione caratterizzata da aspetti prevalentemente indesiderabili e poco inclini a soddisfare un’immagine di sé fortemente incentrata sulla piacevolezza. Un’analisi più approfondita della storia plurisecolare della vecchiaia ci mostra come la società, al di sotto dell’incertezza che caratterizza il discorso attuale, ha sempre operato una chiara distinzione tra i due aspetti principali che configurano questa fase della vita.
Già nel XVII secolo i manuali sanitari e i dizionari distinguevano due stagioni nella vecchiaia: la vecchiaia “verde” e “l’età decrepita”.
Le rappresentazioni contemporanee della vecchiaia sono ancora organizzate intorno a questi due poli. Il primo rinvia all’immagine del “pensionato attivo”, il secondo a quello della “persona anziana dipendente”.
Queste due rappresentazioni propongono un’ulteriore ripartizione della vecchiaia: quella della “terza età” o, come viene definita oggi, dei “senior” e quella della “quarta età” o della “dipendenza”.
Essendosi andata configurando la prima di queste due fasi come una negazione della vecchiaia, in quanto rappresenta una sorta di prolungamento della vita adulta e di tempo dedicato all’arricchimento di sé, è logicamente la seconda ad essere oggi considerata la vera vecchiaia. E’ solo in quest’ultima fase della vita che si manifesta la rapida e inarrestabile espansione delle malattie e delle disabilità.
Le rappresentazioni danno spesso un’immagine parziale e deformata della realtà. Convergendo su due tipologie particolari di persone anziane la rappresentazione bipolare tende a lasciare in ombra le differenze che esistono al loro interno. Così come fa credere che tutti i giovani pensionati rispondano all’immagine dei senior impegnati nella vita associativa, così fa credere che i grandi anziani, le persone ultraottantenni, siano tutte dipendenti e pongano problemi di “presa in carico”. E’ vero che le persone anziane dipendenti si concentrano soprattutto fra la popolazione ultraottantenne, ma una certa quota di persone dipendenti è presente anche nella fascia di età fra i 65 e gli 80 anni.
Per quanto difettosa la rappresentazione dicotomica si presta bene a descrivere lo scenario sociale e le conseguenze contraddittorie che l’invecchiamento demografico ha prodotto all’interno dei paesi occidentali.
Dall’inizio del novecento a oggi nei paesi ricchi la speranza di vita è aumentata di 40 anni, passando nel breve giro di un secolo da 40 a 80 anni, dilatando notevolmente la durata della vecchiaia (Livi-Bacci,2009). Insieme all’allungamento del tempo di vita a disposizione di ogni persona è cresciuta la porzione di tempo che ogni individuo può vivere in condizioni di buona salute. Non si è invece ridotto il periodo di tempo che si vive in condizioni di grave disabilità nella fase finale della vita. L’ipotesi ottimistica di una “compressione della morbilità”, elaborata negli anni ottanta da James Fries, che prevedeva la possibilità di condurre un vita in piena salute fino a pochi mesi prima di morire, è stata smentita dai risultati di ricerche recenti che hanno dimostrato un allungamento del periodo di sopravvivenza in condizioni di disabilità1. Secondo questi studi i fattori comportamentali e ambientali in grado di ridurre i rischi di malattie mortali non modificano l’insorgenza o lo sviluppo di molte patologie associate all’invecchiamento. Un ulteriore aumento dei tassi di sopravvivenza in età avanzata potrebbe determinare perciò un incremento delle malattie invalidanti legate all’invecchiamento. Ciò significa che sul piano individuale la longevità comporta un costo poiché si è costretti ad accettare una salute peggiore in cambio di una vita più lunga. Lo stesso avviene sul piano sociale dove il compiacimento per lo straordinario incremento della longevità è parallelamente accompagnato dalla preoccupazione derivante dalla lievitazione dei costi necessari a produrre servizi e a garantire i farmaci necessari, destinati a una quota crescente di popolazione in condizioni di disabilità. Fenomeno che rappresenta un potenziale fattore di destabilizzazione economica e sociale, nella misura in cui mette a dura prova i sistemi di solidarietà pubblica e privata.
Quest’allarmante prospettiva pone la nostra società di fronte a un dilemma etico che nasce dalla constatazione sempre più evidente che l’obiettivo di ritardare la morte attraverso nuove tecnologie e nuove terapie può avere l’effetto indesiderato di accelerare l’invecchiamento della popolazione, estendendo la frequenza e la durata dei periodi di infermità, senza poter contribuire a una riduzione delle sofferenze e al miglioramento della qualità della vita.
Se si può realisticamente prevedere che i progressi della biologia molecolare consentiranno di allungare ulteriormente la durata della vita2, la possibilità di rallentare i processi di senescenza rimane argomento di congetture e discussioni.
Risulta perciò sempre più evidente che il principale avversario delle nostre società non è più la morte ma la minaccia costituita delle malattie invalidanti.
Proiezioni recenti prevedono che le donne delle società occidentali possano attendersi di passare anche un quarto della loro vita in condizioni di invalidità3.
I due problemi più importanti che deve fronteggiare una società fortemente invecchiata sono la solidità finanziaria dei programmi di previdenza sociale e di assistenza sanitaria per gli anziani e il finanziamento del servizio sanitario pubblico. In tutti i paesi occidentali i programmi di previdenza sociale sono stati impostati in un’epoca in cui esisteva un basso tasso di invecchiamento. La struttura per età della popolazione aveva un andamento piramidale e la speranza di vita era inferiore a 60 anni. Oggi i beneficiari di quei programmi sono molto più numerosi e longevi di quanto si prevedesse in origine. Essendo l’aumento della popolazione in età molto avanzata e in condizioni di disabilità divenuto da prospettiva a dato di fatto, è assai probabile che questi programmi siano destinati ad essere rivisti entro il 2020 (Olshansky, Carnes, Cassel,1993). Analoghe considerazioni valgono per la Sanità Pubblica. Una più lunga sopravvivenza in età avanzata inciderà sia sulla spesa sanitaria riguardante la cura delle malattie acute sia sulla spesa relativa ai servizi di lungodegenza per persone affette da malattie croniche e degenerative.
Questo preoccupante scenario spiega perché il dibattito internazionale intorno ai temi della vecchiaia dipendente sia quasi interamente assorbito dal problema di elaborare previsioni attendibili intorno alla quantità di servizi sanitari e sociali necessari a rispondere ai bisogni di questa fascia di popolazione, a valutarne i costi e a definire i criteri della loro ripartizione tra i soggetti pubblici e privati tenuti a sostenerne la spesa. Quest’orientamento ha lasciato in ombra un aspetto del problema di non trascurabile importanza. Le persone anziane dipendenti hanno ormai raggiunto una consistenza numerica ragguardevole. In Italia gli anziani dipendenti che nel 2005 erano 2.349.210 saliranno a 3.569.210 del 20254.
Si tratta di un gruppo sociale che non può essere considerato esclusivamente come destinatario di servizi socio sanitari, ma che, al pari di tutti gli altri gruppi sociali, è titolare di diritti di partecipazione, cittadinanza, inclusione. Diritti che una visione economicistica della vecchiaia dipendente tende a comprimere o negare. Su questo terreno si manifesta il ritardo della ricerca sociologica. A fronte di una mole notevole di studi sulle condizioni di salute e sulla domanda di servizi sanitari, scarseggiano le ricerche sociali volte a analizzare le condizioni di vita e a rilevare la molteplicità dei bisogni e delle aspettative espressi da una fascia di popolazione che, come abbiamo visto, ha ormai assunto dimensioni socialmente rilevanti. Mancano soprattutto gli studi sull’esperienza della non autosufficienza affrontata dal punto di vista della persona che invecchia, sia che viva a domicilio sia che viva in un’istituzione. Sul ritardo della ricerca sociale pesa la scarsa propensione a condurre indagini di tipo qualitativo o di taglio etnografico, che potrebbero dare invece un contributo importante alla conoscenza di coloro che abitano e agiscono all’interno dei contesti di vita e di cura in cui sono inserite le persone anziane dipendenti. E’ un peccato perché le poche ricerche finora condotte mettono in evidenza che fra gli anziani non autosufficienti è largamente diffusa l’aspettativa di continuare ad essere considerati, indipendentemente dalle più o meno compromesse condizioni di salute, persone a pieno titolo (Cohn, Sugar,1991).
Una rassegna degli orientamenti teorici e pratici sviluppati dalla sociologia in questo campo può contribuire alla riformulazione del problema della vecchiaia dipendente nei termini di un riequilibrio tra le esigenze di chi è chiamato a provvedere alle cure e all’assistenza e le aspettative di chi ne fruisce.
Aurora Minetti – Sociologa, Dottore di ricerca in Scienze della Comunicazione, già Assegnista di ricerca presso l’Università degli studi di Bergamo (con la collaborazione di Antonio Censi – Sociologo, già Direttore sociale della Residenza per anziani “il Gleno” di Bergamo)
1) Secondo i risultati di una ricerca condotta in Gran Bretagna, gli anni di vita in cattiva salute, nel periodo 1981-2001, sono passati da 6,5 a 8,7 fra gli uomini e da 10,1 a 11,6 per le donne, K.Hébert,Life expectancy in Great Britain rises, but later years are still spent in poor health, BMJ 2004, 329:250 (31 july).
2) L’ISTAT prevede che tra il 2010 e il 2050 la speranza di vita crescerà di altri 5 anni, raggiungendo i 90 anni per le donne e gli 85 per gli uomini. Cit. in L.Einaudi, Quanti siamo?Invecchiamento e popolazione, In Aspenia,n.4,2009.
3) Le ipotesi sono state elaborate da un gruppo internazionale di scienziati riunito dal governo francese sotto la direzione del demografo Jean-Marie Robine (INSERM).cit. in S.J.Olshansky. B.A. Carnes, C.K.Cassel (1993).
4) Secondo un’elaborazione Censis su dati ISTAT/ASSR, in Censis, Analisi comparativa dei principali servizi per gli anziani non autosufficienti, Roma, luglio 2005.