Leaders diversamente giovani
3. Leadership anziana tra emozioni e cambiamenti
L’interrogativo che è lecito porsi è su cosa si fonda il decadimento delle competenze di leadership con il progredire dell’età: sui tratti? Sugli stili? Sulla capacità di essere aderenti al contesto, cioè sulla capacità di realizzare il cambiamento? Sembra plausibile ipotizzare che i fattori delle competenze soggetti a maggior obsolescenza in funzione dell’età siano quelli che nel modello di Spencer e Spencer (1993) sono collocati nella parte superiore dell’iceberg e quindi più visibili (conoscenze e abilità) rispetto a quelli meno visibili (tratti, motivazioni, immagine di sé). I tratti si definiscono come disposizioni generali ad agire, piuttosto che come tratti psicoattitudinalmente intesi e come tali predittori di abilità di leadership. Yukl (2013) si discosta dalle teorie classiche su base innatistica, ricomprendendo i valori e le abilità che si esprimono in: livelli di energia, sicurezza di sé, capacità di contare su se stessi, maturità emozionale, integrità, motivazione al potere personalizzato, benefici collettivi, orientamento al risultato.
Salovey e Mayer (1990) definiscono l’intelligenza emotiva un insieme di abilità mentali in grado di percepire le emozioni, di regolarle, e di usare le informazioni emozionali per guidare il pensiero e le azioni. Ashkanasy e Tse (2000) hanno evidenziato le variabili emozionali intervenienti nei processi di leadership “anziana”. Le abilità emotive possono essere distinte in tre modalità espressive: riconoscimento emotivo, comprensione e regolazione.
Anche Joseph e Newman (2010) hanno stabilito il legame tra prestazione organizzativa e le tre specifiche abilità: riconoscimento emotivo, comprensione e regolamentazione. Tuttavia, la richiesta prestazionale va distinta in aspetti cognitivi ed emotivi, rispetto ai quali si possono registrare perdite ma anche vantaggi, spesso mediati dalle differenze soggettive nell’età funzionale e psicologica, rispetto a quella semplicemente cronologica. Se da un lato sembra che adulti più anziani abbiano prestazioni più basse rispetto ai più giovani nelle attività che richiedono un alto controllo cognitivo (Adolphs, 2002), dall’altro nell’affrontare situazioni emotivamente impegnative l’esperienza può portare a risultati migliori (Blanchard-Fields, 2007). Quindi sembra che l’età sia positivamente correlata alla comprensione e regolazione delle emozioni (Phillips et al., 2008). Proprio la regolazione delle emozioni, intesa come capacità di gestire le proprie espressioni emotive, sembra essere una competenza di leadership essenziale: è in tal modo che il leader si relaziona con i collaboratori per realizzare obiettivi di qualità (Fisk e Friesen, 2012). Dunque i leader più vecchi possono assistere a un decremento nel riconoscimento delle emozioni, ma a un miglioramento nella loro comprensione e regolazione.
Schalk et al. (2010) affermano che l’età cronologica è una concezione primaria dell’età; è la più evidenziabile almeno in termini quantitativi, anche se, come fenomeno multidimensionale (Sterns e Miklos, 1995) non è la sola: età funzionale ed età psicosociale costituiscono ulteriori definizioni dello stato di progressivo invecchiamento. L’età funzionale descrive il grado di adeguatezza fisica e cognitiva in relazione a una data prestazione (Sterns e Miklos, 1995). Wilson et al. (2002) sottolineano come l’età cronologica non rispecchi l’età funzionale. Marcate differenze si possono riscontrare in merito alle abilità cognitive e psicosociali: secondo Carstensen et al. (2011) la stabilità emotiva dei leader più vecchi è superiore a quella dei più giovani; Scheibe et al. (2013) ritengono che questo fenomeno possa essere spiegato in termini di arousal: l’arousability nelle situazioni contingenti sarebbe diversamente regolato e contenuto. È proprio una migliore competenza nel modulare l’emozione che costituisce l’essenza del leader (Côté et al., 2010; Humphrey, Pollack e Hawver, 2008).
Alla base di alcuni cambiamenti nelle modalità di gestione di leadership ci può essere il fattore cronologico, che può essere non necessariamente negativo. La stessa intelligenza emotiva può essere un elemento discriminante, non necessariamente riconducibile a comportamenti di leader più giovani.
4. Le conseguenze della perdita di potere
Per nulla irrilevante nel processo di invecchiamento sono l’auto percezione e l’etero percezione del leader, soprattutto per l’importanza della dinamica percettiva come fattore che concorre a definire sia le variabili relazionali che quelle di efficacia prestazionale. È lecito ipotizzare che quanto maggiore è la conservazione del senso del fare (sense making) e del bisogno di potere della propria leadership (need of power), tanto minore sarà la probabilità di espulsione dal circuito produttivo. La pressione mediatica esterna può contribuire a un radicamento di sfiducia nei propri mezzi. Pur conservando un’elevata o buona self-estime, il contesto sociale può minare il proprio Sé sia in termini professionali che personali.
Quanto questo possa essere favorito da un’azione psicosociale è frutto di una visione strategica delle organizzazioni come cellule plurime del corpo sociale. Va rilevato che gli ammortizzatori ai processi di senescenza risultano di gran lunga insufficienti rispetto al problema dell’aumento delle persone anziane, l’espulsione dal processo produttivo delle quali genera nuove urgenze anche sul piano politico. Un adeguato intervento di counseling organizzativo può garantire sufficienti livelli di fiducia auto percepita, evitando in tal modo l’instaurarsi di patologie comportamentali nell’esercizio conservativo del potere.
A tal proposito una riflessione importante va fatta riguardo agli aspetti patologici della leadership e a quanto si possano attenuare o acuire con l’età. La classificazione di Kets de Vries e Muller (1984) individua cinque fondamentali tendenze vicina alla patologia: paranoide, compulsiva, drammatica, depressiva, schizzoide.
Quando le persone possono essere definite borderline o per nulla vicine al confine, difficilmente tracciabile fra normalità e patologia? Il concetto di norma è sempre difficile da trattare quando riguarda aspetti comportamentali. Tuttavia, secondo Kets de Vries e Muller (1984) è possibile stabilire un profilo che si avvicinerebbe alle cinque psicopatologie considerate maggiormente ricorrenti.
Lo stile paranoide è basato sulla necessità di esercitare un controllo su tutte le situazioni della vita organizzativa, con conseguenti forme di accentramento del potere, scarsa propensione alla delega e diffusa sospettosità e diffidenza che determina un clima negativo.
Lo stile compulsivo si esprime in forme maniacali di osservanza delle procedure e di estrema burocratizzazione, reprimente ogni forma di flessibilità e cambiamento.
Lo stile drammatico è fortemente centrato sul leader decisionista spesso incoerente perché dedito a soddisfare le proprie pulsioni narcisistiche.
Lo stile depressivo è tipico di una persona in stato di ritiro libidico, astensionista, ripetitivo e poco disponibile all’interazione e all’innovazione.
Lo stile schizzoide oscilla tra la scarsa chiarezza degli obiettivi da perseguire e le tensioni interne che vengono proiettate all’esterno, soprattutto l’organizzazione che viene riprodotta a misura del proprio “teatro interno”.
La valutazione non può che essere derivata da un’analisi clinica delle persone in contesti comparabili. L’analisi quantitativa risulta difficile da testare proprio per la limitata disponibilità delle persone a sottoporsi a diagnosi. I casi clinici portati da Kets de Vries (2010) consentono tuttavia di stabilire quanto queste, e altre tendenze, possono acuirsi con il progredire dell’età.
La sindrome dell’amministratore delegato si manifesta quando si è stati troppo a lungo in posizioni di potere. Isolamento, vuoto, insoddisfazione, sentimenti di nullità, senso del tempo finito, crisi dell’abbandono, perdita del potere equivalgono a perdita di sé e quindi si cerca di restare disperatamente aggrappati al potere.
Il timore del leader di subire la rivalsa di coloro che hanno soggiaciuto al suo potere esercitato con arbitrio (la così detta “legge del taglione”) può innescare una pericolosa spirale paranoide: la perdita del potere lo espone alle altrui ritorsioni e di conseguenza comincia a vedere nemici ovunque.
Il complesso dell’edificio è la paura che tutto ciò che è stato faticosamente costruito venga dissipato o perduto. Una dimensione comune ai leader è quella di voler lasciare qualcosa in eredità perché è un modo per sconfiggere la morte. Nelle organizzazioni invece capita spesso che si incontri un rifiuto sistematico da parte dei leader emergenti, troppo impegnati nell’affermazione del loro Sé per permettere ai senior di lasciare una traccia. Di conseguenza il leader uscente capisce di doversi rassegnare a essere considerato parte di un passato di valore inferiore alla vision di cambiamento portata dal nuovo leader. Questo processo si può mitigare se la generazione successiva “accetta” la vision della generazione precedente: in tal modo il leader uscente può distaccarsi più facilmente sapendo di aver contribuito alla crescita di qualcuno che porterà avanti il suo testimone.
La nostra società impone un modello organizzativo teso a ricercare un risultato sempre migliore: in tal senso la carriera è concepita come progressiva. Quanto questo è compatibile con i processi di invecchiamento? Quali le conseguenze dello stress e dell’ansia se le aspettative vengono disattese? Con la maggiore consapevolezza dell’invecchiamento fisico matura anche il senso della finitezza della vita. Il Sé è indissolubilmente legato al corpo e quindi la percezione dell’invecchiamento è vissuta come un attacco al Sé. Il leader narciso si ancora a un’età fantasma, dove bellezza e successo continuano per sempre e, quando matura la consapevolezza che non sempre è possibile, il Sé va verso una progressiva destabilizzazione. L’ansia ipocondriaca aumenta in funzione del rischio di malattia ritenuto statisticamente più probabile. I leader tuttavia possono perdere in prestanza fisica, ma se mantengono il potere mantengono la propria “aura”.
Anche la perdita di sessualità, fino all’impotenza, può generare invidia nei confronti della generazione successiva e aumentare l’aggressività. Nelle organizzazioni questo si manifesta nei processi di successione: l’invidia generazionale si può trasformare in abuso di potere, fino a facilitare, consciamente o inconsciamente, il fallimento dei successori (Kets de Vries, Carlock, Florent, 2007). I sentimenti negativi emergono sotto forma di noia e cronicizzano in forme di ridotta creatività e vitalità. La noia origina da sentimenti di inadeguatezza e disagio, ma può avere in alcuni casi anche risvolti positivi: il minor tempo impegnato in attività lavorative consente infatti alle persone di essere più contemplative e di raggiungere maggiori consapevolezze su di sé e sugli altri.
La sensazione che rimanga poco tempo per realizzare gli obiettivi di carriera, induce stati di “panico da portone che si chiude”. Per i leader il distacco dal potere è cosa particolarmente difficile perché la posizione, accompagnata da notorietà e prestigio è una dimensione fondamentale della loro vita come processo di definizione del proprio Sé. Ne può derivare un comportamento compulsivo espresso in forme di iperattività e di comportamenti di iper-compensazione: si perseguono obiettivi sempre più irrealistici che, come tali, saranno generatori di ansia crescente.
Il pensionamento diviene simbolo di vecchiaia e quindi assume un significato simbolico negativo: nelle organizzazioni la festa del pensionamento è un rito di passaggio che pone l’enfasi sul passato, non certo sul futuro. Le persone non scelgono di andare in pensione e le attività post pensione difficilmente permettono lo stesso grado di grado di gratificazione narcisistica. A ciò va aggiunta la pressione finanziaria, intesa come volontà di mantenere lo stesso tenore di vita. Il distacco dal potere può essere così difficile da spingerli a rimanere attaccati alla posizione: questo meccanismo è chiamato da Kets de Vries (2010) “sindrome da pensionamento”.
5. Conclusione
Le evidenze scientifiche non sembrano offrire validi motivi per esclusioni radicali dei leader anziani dal ciclo attivo. Le motivazioni del ricambio generazionale si basano su considerazioni di opportunità sociopolitiche più che bio-psicologiche. Non appare peraltro evidente che si possa individuare una regola fissa per tutte le persone, soprattutto quando avulsa dal contesto specifico al quale l’operatività di quel leader è, o potrebbe essere, applicata. Come spesso accade le decisioni sulle persone trascurano l’altrui soggettività, soprattutto nelle organizzazioni rette da logiche economicistiche in cui la dialettica conflittuale delle posizioni di forza reprime la vision di lungo termine.
Non si può trattare il fenomeno della leadership come fattore estrinseco alla persona, cioè legato alla sola dinamica organizzativa. C’è una quota intrinseca alla rappresentazione del potere che i leader hanno costruito in quello che Kets de Vries (1993) ha definito il “teatro interno”. Questo significa entrare nella sfera soggettiva, o meglio profonda, secondo l’accezione psicoanalitica del termine, per capire come il leader ha elaborato la propria via al potere e quale può essere una strategia di uscita non priva di frustrazione e di sofferenza.
È proprio in questa fase che si sconta l’assoluta infondatezza sul piano empirico del motto di Tacito, ripreso da Weber, sine ira et studio (né ira, né pregiudizio), dove l’impersonalità formale nella gestione della leadership diviene merito e l’emotività demerito, quindi da reprimere a favore di un presunto razionalismo burocraticistico di matrice illuministica e luterana. La tendenza a galleggiare sulla superficie dei fatti piuttosto che affondare nella profondità della vita organizzativa (Quaglino, 2004) diviene sterile antidoto alla delusione più grande del leader, la sua fine.
Riportare a galla le ragioni della soggettività organizzativa a tutti i livelli significa interpretare non solo i processi in entrata, ma anche quelli in uscita, cioè le dismissioni delle persone, la fine della sfida e del sogno, l’idea narcisistica di onnipotenza, ormai ineluttabilmente, sul viale del tramonto.