QUADERNI EUROPEI SUL NUOVO WELFARE

Leaders diversamente giovani

Riassunto. Il valore dei leader non più giovani sembra poco riconosciuto. La ricerca empirica su questo tema non sostiene la plausibilità di questo punto di vista, anche se qualche scostamento fra giovani e meno giovani è registrabile: situazioni emotivamente impegnative possono essere affrontate meglio da leader meno giovani, i quali invece sarebbero meno prestanti per quanto riguarda gli aspetti cognitivi. Non ci sono evidenze empiriche per poter affermare che le patologie di leadership si acuiscono con l’avanzare dell’età, anche se l’osservazione delle dinamiche organizzative fa intravedere come esistano alcune criticità ricorrenti legate all’avvicinarsi del pensionamento dei leader e alla conseguente perdita annunciata del potere.

1. Premessa

In tempi remoti le persone che venivano ritenute anziane ricoprivano ruoli diversi in funzione della qualità e delle competenze derivanti dall’esperienza e dalla saggezza della quale erano ritenuti portatori. Si trattava di attribuzione di funzioni riconosciute utili per il governo della società e per l’esercizio dei poteri che regolavano la vita della comunità.

Con diverse accentuazioni derivate dall’appartenenza religiosa ed etnica, queste attribuzioni sono andate perdendo in centralità e importanza, soprattutto nelle culture occidentali, cioè quelle percorse da processi di rapida industrializzazione e di ispirazione tendenzialmente democratica. Le realtà sociali legate alla terra e alla sua coltivazione come attività primaria hanno espresso maggior conservatorismo culturale: le figure degli anziani, anche quando hanno perso funzioni di esercizio para-istituzionale, hanno mantenuto significative quote di autorità socialmente riconosciuta. La giustizia, la sanità, l’educazione istituzionalizzate in sistemi socio-amministrativi non necessitavano più della presunta o reale saggezza dei senior.

Nell’arco del XX secolo, il ruolo dell’anziano ha subito la sua più rapida metamorfosi. Alla perdita di centralità sociale è corrisposto, soprattutto nella seconda metà del novecento, un significativo aumento dell’età media, senza precedenti nella storia dell’umanità (United Nations, 2001) con prospettive di vita che ormai si avvicinano alle otto-nove decadi, mettendo a dura prova i sistemi pensionistici, programmati per un’organizzazione della società ormai obsoleta e ottimisticamente pensata (Cracknell, 2010). La longevità non può essere una colpa, ma le contraddizioni nelle quali gli appartenenti a questa fascia della popolazione vengono a trovarsi la rendono tale: da un lato, infatti, si ritiene che il sistema previdenziale e pensionistico sia stressato da fattori economico finanziari come l’invecchiamento della popolazione, dall’altro la permanenza degli stessi in attività sottrarrebbe opportunità di impiego alle generazioni più giovani. I linguaggi violenti emersi da un atteggiamento anti-generazionale sono sintomo di un conflitto inopportunamente innescato per motivi politici, con scarsa considerazione per le oggettive evidenze empiriche di efficacia ed efficienza gestionale che non giustificano un tale accanimento sociale.

La sfida contingente, sia politica che economica, sembra essere proprio questa: evitare che i sistemi di welfare collassino, mantenendo rigidità ormai insostenibili. Di conseguenza, il tema del prolungamento della vita lavorativa e della produttività generazionale assumono un particolare interesse. McEvoy e Cascio (1989) ritengono che la relazione fra prestazione lavorativa ed età sia debole, certamente non tale da giustificare l’opportunità di un ricambio per motivi anagrafici. Tuttavia, se non si vuol liquidare la questione come un mero pregiudizio, bisogna porsi l’interrogativo in termini di competenze che l’anziano conserva, e come queste possono essere meglio impiegate per lo sviluppo economico e sociale.

A tal proposito può essere utile condurre un’attenta analisi dell’efficacia organizzativa del leader-manager anziano, sulla base delle competenze agite nel contesto in cui opera. La diagnosi organizzativa non può infatti prescindere da un’attenta valutazione delle prestazioni e dei comportamenti derivati da competenze soggettive (Spencer e Spencer, 1993). Non necessariamente all’anziano vanno attribuite competenze retroattive, cioè basate solo sull’esperienza pregressa: secondo una concezione “evolutiva” della terza età anche per l’anziano si può parlare di potenziale.

L’emergente paradigma del ciclo evolutivo delle competenze (Lieberum, Heppe e Schuler, 2005), individua tre distinte fasi della vita professionale del lavoratore: la fase 15-30 anni, la fase 30-45 anni e la fase 45-65 anni. Le persone che si trovano nella terza fase perdono progressivamente alcuni aspetti della precedente capacità lavorativa, con la diminuzione della performance fisica e della capacità di apprendimento, ma in compenso vengono a disporre di competenze non emerse in modo significativo nelle fasi precedenti. Il progredire dell’anzianità comporterebbe dunque non solo i vantaggi comunemente associati all’esperienza, cioè la familiarità con i diversi problemi, la conoscenza del contesto operativo e l’affidabilità, ma anche un sostanziale miglioramento delle competenze sociali e di relazione.

Questo quadro di vantaggi e svantaggi dei lavoratori senior sembra trovare conferma anche in altre ricerche: secondo l’opinione rilevata nell’ambito di un campione di lavoratori, l’esperienza acquisita nel tempo è il principale motivo per cui gli stessi vengono trattenuti all’interno delle aziende, mentre il più alto costo del lavoro è ritenuto il principale motivo per cui le imprese tendono a espellerli (Basso et al., 2005).

Risultati solo in parte diversi emergono dagli studi sulla produttività economica. Una recente ricognizione mette in evidenza che la relazione tra età e produttività è complessa e multidimensionale perché l’età influenza in modo differenziato le diverse abilità (Ilmakunnas et al., 2007), soprattutto quelle di elevate professionalità come quelle richieste per le posizioni manageriali.

 

2. Stili di leadership e invecchiamento

Spencer e Spencer (1993) individuano tra le competenze manageriali quella di leadership del gruppo. Burns (1978) sostiene che la leadership è uno dei fenomeni più osservati e meno capiti della terra: a giudicare dai riferimenti bibliografici sembrerebbe aver suscitato l’interesse in varie epoche a partire da Platone, Giulio Cesare, Plutarco e fino a Macchiavelli. È difficile trovare una definizione convergente di leadership, più spesso si ritrovano in letteratura quadri sinottici come quello fornito da Bass e Stogdill (1990) secondo cui, in relazione al focus di ricerca, la leadership è intesa come: prodotto della dinamica di gruppo, tratto di personalità, arte di indurre consenso, esercizio di influenza, relazione di potere, strumento per raggiungere un obiettivo, effetto di interazione, ruolo di differenziazione.

Un’evidenza empirica fondamentale riguarda la distinzione, divenuta classica, fra comportamenti di leadership orientata al compito e leadership orientata alle relazioni. Già negli anni cinquanta due programmi di ricerca, uno del Survey Research Center dell’Università del Michigan e uno del Bureau of Research dell’Ohio State University, giunsero a risultati sostanzialmente comuni: partendo da ipotesi diverse individuano due fondamentali orientamenti della leadership: task-oriented (orientata alla produzione) e relation-oriented (orientata alle relazioni). Successivamente, Blake e Mouton (1964) definirono un modello in cui individuare le possibili tipologie operative di leadership, quali combinazioni della variabile task-oriented e della variabile relation-oriented, posizionate sui due assi cartesiani delle ascisse e delle ordinate. Anche se di facile evidenza, il dato scientifico conferma che i migliori risultati derivano dalla leadership che concilia entrambi gli orientamenti.

Le teorie dei tratti (Stogdill, 1948; Mann, 1959) non sono state capaci di predire il successo del leader. Lo stesso Stogdill (1974), a distanza di anni, ammetteva che, pur non potendo negare una relazione fra leadership e tratti di personalità, questi non si sono rivelati buoni predittori. Tuttavia, il declino di questo approccio a favore di teorie basate sugli stili di leadership e poi sulle teorie di contingenza hanno favorito l’individuazione delle così dette “new leadership theories” come la transazionale e la trasformazionale, ritenute più efficaci.

La questione degli stili di leadership si pose quando il focus della ricerca andò spostandosi da chi è leader a cosa fa il leader, cioè sui suoi comportamenti rispetto al gruppo. Lewin, Lippit e White (1939) individuano tre tipologie di leader: autoritario, orientato alle prestazioni, democratico, prevalentemente orientato alle relazioni, lassista o passivo. Questa tipologia viene arricchita dal Likert (1961) con una distinzione ulteriore all’interno della modalità autoritaria: autocratico-paternalistico e autoritario-duro. Inoltre, viene definita una modalità di esercizio della leadership, detta consultiva, che riduce i gradi di partecipazione ai processi di gruppo, rispetto a quella democratica, caratterizzata da ampi gradi di partecipazione e coinvolgimento.

Schaie e Willis (2011) hanno ampiamente documentato gli effetti dell’età e dell’invecchiamento sulle modalità di esercizio della leadership. In particolare, essi condensano le principali variabili analizzate negli studi sulle modalità di espressione (azione) del leader (DeRue et al., 2011): task oriented (orientato al compito), relational oriented (orientato dalle relazioni), passive leadership behavior (passivo, permissivo o lassez-faire), change oriented (orientato al cambiamento).

La leadership orientata al compito si caratterizza per una forte propensione alla realizzazione e al raggiungimento degli obiettivi prefissati, il che implica una chiara ingerenza nella vita organizzativa, sia per quanto riguarda il coordinamento dei collaboratori che la definizione dei ruoli. È un leader che possiamo definire direttivo, che gestisce l’organizzazione transazionalmente, cioè attraverso gli altri, erogando opportune gratificazioni anche affettive (Bass e Stogdill, 1990) senza essere necessariamente autoritario. Gilbert, Collins e Brenner (1990) non hanno trovato significative differenze tra leader giovani e meno giovani per quanto riguarda la realizzazione della mission aziendale. Comportamenti transazionali di leadership sembra siano adottati da leader più giovani e meno giovani anche secondo Barbuto et al. (2007), nonostante l’osservazione di senso comune suggerisca un’ipotesi secondo la quale le persone più anziane sarebbero più inclini all’autoritarismo, o quanto meno a un conservatorismo che può assumere tratti autoritari.

L’orientamento alle relazioni è la prospettiva in cui il leader persegue l’operatività attraverso le relazioni con i collaboratori, promuovendo i processi di identificazione gruppale e organizzativa con modalità sovra individuali. Il punto di forza consiste nel far emergere le risorse migliori del gruppo finalizzate all’innovazione dei metodi e dei sistemi di lavoro (Yukl, 2013). Non sembra ci siano evidenze empiriche atte a stabilire con sufficiente grado di approssimazione, se gli anziani adottino questa modalità di leadership più dei giovani (Oshagbemi, 2004); Pinder e Pinto (1974) ritengono che i leader anziani siano più consultivi e relazionali dei meno anziani; Vecchio (1993) ritiene che non ci sia alcun legame fra l’età del leader e la sua capacità di delegare. La leadership orientata alle relazioni comporta l’investimento in relazioni che tornano utili nell’età del pensionamento perché permettono di mantenere ricordi positivi con le persone anche dopo il distacco dal lavoro (Kets de Vries, 2010).

La leadership passiva è espressione di un distacco emotivo e a volte cognitivo dal gruppo e dall’organizzazione e si esprime in comportamenti poco attivi sia nella gestione che nell’assunzione di decisioni. Zacher, Rosing e Frese (2011) affermano che le persone meno giovani sarebbero caratterizzate da atteggiamenti di leadership lassez-faire, cioè permissiva e passiva. Non sembra tuttavia esistere ampio consenso su questa correlazione positiva fra età e leadership passiva (Barbuto et al., 2007).

La leadership orientata al cambiamento o trasformazionale riassume in sé la prerogativa principale di un leader: la produzione di cultura organizzativa (Van Leeuwen e Van Knippenberg, 2003). È evidenza di senso comune che, con il progredire dell’età aumentano, le resistenze al cambiamento. Sembra che la ricerca empirica lo confermi: i manager più giovani sarebbero più inclini ad adottare nuove strategie (Yang, Zimmerman e Jiang, 2011), così come la leadership trasformazionale, cioè quella più idonea a realizzare cambiamento organizzativo, sarebbe più praticata dai giovani che dai meno giovani (Oshagbemi, 2004). Una caratteristica importante della leadership trasformazionale e del management che ne deriva è il risk-taking, cioè la propensione ad assumere rischi. Karami, Analoui e Kakabadse (2006) hanno rilevato una tendenza ad assumere rischi finanziari e derivanti da nuove procedure più bassa nelle persone meno giovani.

Proprio perché ampie, queste categorie di analisi si prestano a una raccomandazione di prudenza nella generalizzazione: ogni applicazione a uno specifico contesto presenta un margine di variabilità. Inoltre, l’estensione interpretativa di dati ricavati attraverso un metodo etnostorico può trovare un limite nelle mutate variabili situazionali riguardanti le generazioni recenti, così come quello statistico quantitativo spesso esprime tendenze correlazionali più che evidenziare dei nessi causali.


Pier Giorgio Gabassi: Professore Ordinario di Psicologia del lavoro e delle organizzazioni, Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali, Università degli Studi di Trieste.


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