QUADERNI EUROPEI SUL NUOVO WELFARE

Le differenze di genere alla morte in italia: evoluzione recente e tendenze in atto

Introduzione
Una recente sentenza della Corte di Giustizia Europea – marzo 2011 – ha stabilito che non è più possibile discriminare tra uomo e donna “per quanto riguarda l’accesso a beni e servizi e loro fornitura”. Per quanto concerne l’Italia, questa direttiva comporta, tra l’altro, per il settore assicurativo/previdenziale la costruzione di una base tecnica unica in sostituzione delle precedenti che erano distinte per uomo e donna, in contrasto quindi col principio di parità dei sessi che è un principio fondamentale dell’Unione europea. Sempre per quanto concerne il settore previdenziale, va anche segnalato che già nel 2008 la stessa Corte era intervenuta per imporre la parificazione dell’età pensionabile delle donne a quella dei colleghi uomini.

La costruzione di basi tecniche distinte di cui si diceva prima derivava dal fatto che in Italia, come in tutti gli altri paesi del mondo occidentale, esiste un netto divario tra i rischi di morte dei due sessi a tutto vantaggio di quello femminile, vantaggio che è generalmente presente ad ogni età, e ad alcune età in particolare è anche molto consistente; proprio questi divari erano all’origine di differenze di tariffazione ora sanzionate dalla Corte.

L’analisi della mortalità differenziale è sempre stata un campo d’indagine di particolare interesse per i demografi, e su quella per sesso in particolare si è andato accumulando un ricco materiale per lo studio della problematica e della sua evoluzione. Le differenze genetiche e biologiche tra i due sessi non potevano non stimolare già nel passato un importante filone di studio (Federici, 1950; Madigan, 1957; Vallin, 1993; Waldron, 1995) e i continui progressi della ricerca in campo bio-medico, hanno via via ampliato la conoscenza dei possibili fattori di rischio all’origine dell’attuale gap di mortalità. Tra i risultati più recenti (Rogers et al., 2010) si può richiamare qui la scoperta che il minor rischio di malattie cardiovascolari fra le donne, e quindi la più bassa mortalità, sarebbe dovuta all’azione positiva degli ormoni sessuali femminili sui livelli di lipidi nel sangue, mentre nel caso degli uomini un alto livello di testosterone nel sangue ha effetti negativi sul colesterolo. Altri fattori biologici contribuiscono ad aumentare i rischi di cardiopatie per l’uomo, ma nelle analisi differenziali è tuttavia difficile, se non impossibile, separare il peso dei fattori biologici da quelli sociali e ambientali che vengono indicati anche come la principale chiave di lettura del fenomeno.

Le differenze di mortalità infatti non sono riconducibili solo al sesso, ma sono anche una questione di genere. L’introduzione del sociale ha portato ad un approccio globale del problema in quanto i fattori di rischio nelle abitudini e nei comportamenti non possono essere sganciati dall’ambiente familiare, dall’istruzione, dal lavoro svolto (Suardi, 1993; Conell 2006); a questo proposito va osservato che i lavori più pesanti e/o pericolosi sono generalmente di competenza degli uomini. Alcuni fattori comportamentali poi, quali la scarsa attenzione alla sicurezza stradale, l’uso di droghe e l’abitudine al fumo, che hanno un pesante riflesso sulla supermortalità maschile, sono connotati importanti delle scelte di stile di vita e della differente attenzione che hanno i due sessi riguardo al proprio stato di salute.

Più recentemente nei paesi sviluppati altre ipotesi esplicative della maggior longevità femminile hanno preso spunto dalle profonde trasformazioni nella struttura per età prodotte dal processo di invecchiamento della popolazione, trasformazioni che evidenziano una preponderante presenza femminile rispetto a quella maschile nella fasce d’età anziana e senile. In Italia, ad esempio, nel 2011 le donne costituivano il 57,7% della popolazione con più di 65 anni e arrivavano al 69,7% di quella con oltre 85. Lo studio dei percorsi di vita delle donne giunte a queste età avrebbe individuato un ulteriore fattore esplicativo nella psicologia femminile, nella loro maggior capacità di adattamento ai cambiamenti della vita e delle fasi della vita, al loro differente modo di relazionarsi al mondo esterno che ha la peculiarità di costruire reti sociali e di solidarietà molto più efficienti rispetto agli uomini, col vantaggio di invecchiare meglio e, conseguentemente, vivere più a lungo (Friedan, 1994).

In ogni paese tutti questi fattori sono venuti ad assumere nel tempo pesi diversi e ad interagire fra loro differentemente, per cui, comparativamente, si riscontra un’ampia gamma di profili della mortalità differenziale per sesso (Gjonça et al. 1999; Nobile, 2003). Se si fa riferimento all’Europa occidentale, e se per valutare questi differenziali si utilizza il gap (Fe– Me0) fra la speranza di vita alla nascita dell’ uomo (Me0) con quella della donna (Fe0) – che è l’indicatore spesso usato per mettere a fuoco il fenomeno – è subito evidente la grande variabilità. Dalla tab. 1 si nota infatti che nel 2009 questa differenza presentava un range compreso tra i 3,3 anni dell’Islanda e gli 11,1 della Lituania; l’Italia si collocava quasi in posizione mediana (5,2 anni). Ancora una volta questi dati evidenziano una forte correlazione negativa ( – 0,908) tra speranza di vita dell’uomo (Me0) ed il divario (Fe– Me0), mentre decisamente più bassa ( – 0,688) è la correlazione tra speranza di vita della donna (Fe0) ed il suo vantaggio rispetto all’uomo (Fe– Me0). Questa concordanza inversa tra Me0ed (Fe– Me0) è il risultato delle profonde differenze nell’evoluzione passata della mortalità nei tre sottoinsiemi in esame: il grafico di dispersione (fig. 1) costruito su queste due variabili evidenzia infatti tre cluster: il primo, in alto a sinistra, costituito dai tre Paesi baltici dell’ex-Unione Sovietica, il secondo dai Paesi a suo tempo confinanti con l’ex-Unione Sovietica, ovvero dalla Polonia fino alla Romania, ed infine il terzo cluster costituito dal resto dei Paesi europei. Com’è noto, i Paesi dei primi due cluster sono stati coinvolti, sia pur con intensità differente, nella crisi di mortalità conseguente al crollo dei regimi comunisti all’inizio degli anni ’90 (Vallin, Meslé, Valkonen, 2001); questo ha generato un netto divario col resto d’Europa che la tab. 1 presenta in termini di speranze di vita, divario che richiederà ancora molto tempo per essere colmato.

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Il confronto che riguarda l’Italia va fatto quindi all’interno dell’ultimo cluster dove essa è ancora quasi in posizione mediana. Va osservato però che, nonostante la maggior omogeneità socio-economica e culturale dell’area in questione, i differenziali di mortalità misurati da (Fe0– Me0) presentano ancora una variabilità non trascurabile in quanto in Francia ed in Finlandia il gap di speranza di vita fra i sessi è alto (tab. 1), pur in presenza di livelli di mortalità generale tra i più bassi al mondo.

Questa rapida rassegna dei risultati più recenti riflette quindi con quanta variabilità si concretizzi l’integrazione dei fattori biologici e genetici con le determinanti psicosociali della salute per effetto anche di differenti situazioni ambientali e delle differenze dei sistemi sanitari nei vari paesi.

Rinviamo alla bibliografia citata per gli approfondimenti di queste tematiche anche nei confronti internazionali, essendo il nostro obiettivo quello di mettere a fuoco gli aspetti più strettamente demografici della mortalità differenziale di genere del caso italiano e della sua evoluzione più recente prendendo in esame la serie storica 1974-2009 delle tavole di mortalità costruite dall’Istat (http//demo.istat.it).

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Fonte: World Health Statistics 2012

In Italia come in molti altri paesi si assiste negli anni più recenti ad un’attenuazione delle differenze (Fe– Me0), ma non è così a tutte le altre età; infatti una volta superata la soglia delle età anziane la sovramortalità maschile è andata aumentando, tendenza questa che introduce margini d’incertezza circa l’evoluzione del fenomeno. Infatti la sopravvivenza fino alle età adulte è oggi un evento quasi certo sia per maschi che per femmine, per cui l’ulteriore crescita della speranza di vita, e dinamiche dei relativi differenziali per sesso, è sempre più legata all’evoluzione della mortalità alle età avanzate.

Per cogliere queste problematiche si è cercato quindi di condurre un’analisi comparata sulla base di due approcci differenti: da un lato esplicitando l’evoluzione della mortalità considerando maschi e femmine come due componenti indipendenti della popolazione, che è la prassi generalmente seguita nelle previsioni demografiche (Girosi e King, 2008); dall’altro, considerando l’interazione fra regimi di mortalità di maschi e femmine all’interno della popolazione di cui fanno parte. Per quanto concerne il primo aspetto, si è ricorso alle previsioni ricavate dal modello di Lee e Carter (1992) nella sua formulazione originaria; per quanto concerne il secondo, si è fatto riferimento alle previsioni ottenute con l’estensione del modello precedente proposta da Li e Lee (2005) allo scopo di fornire per le “popolazioni” – in questo caso quella maschile e quella femminile che compongono lo stesso aggregato demografico –previsioni coerenti con quella della popolazione complessiva.

Le tendenze recenti nelle diseguaglianze di genere di fronte alla morte: i risultati del rapporto M/F di mortalità
I differenziali di mortalità alle varie età vengono misurati secondo due approcci:

  1. sulla base delle differenze di speranza di vita ed in particolare di quella alla nascita, come si è già accennato prima,

  2. mettendo a rapporto tra loro i corrispondenti tassi specifici di mortalità mx o le probabilità di morte qx dei maschi con quelle delle femmine; questo tipo di indicatore viene costruito per tute le età x (x = 0, 1, … ) ed è noto come rapporto M/F di mortalità.

Cominciamo quindi col prendere in esame i questi rapporti che sono stati costruiti sulle probabilità di morte.

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In Italia il profilo del rapporto M/F di mortalità al variare dell’età presenta, come in altri paesi del mondo occidentale (Nobile, 2003), due minimi e due massimi (fig. 2) manifestatisi via via ad età che si sono spostate in avanti nel tempo. L’ascissa del primo minimo, che è anche quello assoluto, si è andata collocando prevalentemente tra il primo ed il quarto anno di vita (N. I. E., fig. 3). Una caratteristica del caso italiano è che per diversi anni, ed in particolare ininterrottamente dal 1997 al 2000, il rapporto M/F di mortalità a un anno d’età è stato inferiore all’unità (N. I. L., fig. 3), scendendo fino a 80,49 nel 1999.

Questi risultati mettono quindi in crisi la convinzione secondo cui, essendo il rischio di morte del’uomo sempre superiore a quello della donna, a quest’età si possa cogliere il “peso” dei fattori biologici nel determinare la maggior mortalità maschile, in quanto alla nascita o nel primo anno di vita i fattori cosiddetti “esterni” avrebbero un ruolo del tutto trascurabile su questo tipo di mortalità differenziale (Pressat, 1973).

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