I progetti dell’INRCA per l’invecchiamento
Il contributo che mi è stato chiesto di proporvi oggi – e ringrazio sentitamente Tiziana Tesauro e gli altri organizzatori per il cortese invito – sintetizza i risultati delle principali esperienze di ricerca condotte recentemente dall’INRCA in materia di invecchiamento. Per farlo, dopo una breve spiegazione di cosa sia l’INRCA, mi soffermerò sui principali risultati degli studi condotti in materia dal mio istituto da un punto di vista economico-sociale, toccando aree come quella dell’invecchiamento attivo, della cura alla non autosufficienza, della prevenzione degli abusi in età anziana, dello stimolo alla solidarietà intergenerazionale, per chiudere con alcuni spunti per il futuro.
Non tutti sanno che il Ministero della Salute, per promuovere la ricerca nel proprio ambito di intervento, si avvale del contributo di quasi 50 enti ospedalieri, cui riconosce il titolo di IRCCS, acronimo per “Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico”, enti ritenuti di eccellenza e per tal motivo destinatari di risorse mirate a finanziare attività di ricerca, in aggiunta alle normali prestazioni di assistenza clinica. A Napoli, ad esempio, sono tali l’Istituto Nazionale Tumori Giovanni Pascale, e la Fondazione SDN per la ricerca e l’alta formazione in diagnostica nucleare. L’INRCA – un acronimo che deriva da “Istituto Nazionale per il Riposo e la Cura degli Anziani”, termine ormai abbandonato dopo quello, ancor più storico, di “Ospizio dei poveri vecchi” – è l’unico, tra tutti gli IRCCS, che da quasi 45 anni si occupa di geriatria. Lo fa attraverso i suoi oltre mille dipendenti in 4 presidi ospedalieri in 3 diverse Regioni (Lombardia, Calabria e Marche), una RSA, un Centro Diurno Alzheimer ed un polo scientifico tecnologico ad Ancona, a cui appartengo, dove lavorano oltre 20 ricercatori di ruolo (ed altrettanti contrattisti), per studiare l’invecchiamento da diversi punti di vista, in particolare da quello biomedico e socio-economico (questo è l’ambito in cui io opero), oltre ad una recente espansione anche nel settore della domotica.
Detto questo, di cosa ci siamo recentemente occupati nel nostro ambito? Partendo dalla questione dell’invecchiamento attivo citerei anzitutto il progetto europeo ESAW, partito circa un decennio fa, al fine di capire quali fattori incidano maggiormente sulla qualità della vita in età anziana in 6 Paesi europei, intervistando quasi 2000 ultracinquantenni per Paese. Tra i risultati più eclatanti è emerso che gli anziani italiani, nonostante un’apparente maggiore presenza della famiglia, appaiono essere i più a rischio di solitudine, un aspetto cui i servizi dovrebbero dedicare particolarmente attenzione. Come mai accade questo? In estrema sintesi, possiamo dire che, tenendo conto che la qualità della vita può essere considerata il risultato congiunto di molteplici fattori, tra i quali la salute, la rete di supporti sociali, le attività svolte e le risorse economiche di cui si dispone da questo studio emerge con chiarezza che gli italiani, soprattutto alle età più elevate, soffrono di solitudine più spesso di quanto non accada ai loro coetanei di altri Paesi. Ciò sembra legato al fatto che in Italia la rete sociale è, più che altrove, basata sulla sola famiglia, e meno su amici ed altri rapporti comunitari (come vicini, impegno in attività di volontariato etc.), che invece sono significativi in altri Paesi.
Ora, la famiglia italiana è sì più presente in caso di malattia e disabilità, come vediamo qui, con oltre l’80% di italiani anziani che avrebbero qualcuno su cui contare in caso di malattia, la % più alta e ciò si verifica anche nelle fasce di età più elevate, come ben evidenziato da questo grafico, dove quasi il 90% degli ultraottantenni italiani dichiara di avere qualcuno che potrebbe accudirli, in caso di problemi di salute, contro il 60% della media degli altri Paesi. Tuttavia, ed è questo il punto, ciò è vero solo se l’anziano è in grado di camminare senza aiuto, perché non appena subentra l’immobilità, la rete famigliare non è più altrettanto capace, da sola, di reggere il carico assistenziale derivante da questa situazione, per l’evidente insufficienza dei supporti esterni. Ma di questo parleremo più diffusamente tra poco. Prima vorrei presentarvi alcune riflessioni su come l’invecchiamento attivo si possa coniugare nel mondo del lavoro ricordando che, grazie a diversi studi condotti dall’INRCA nel corso dell’ultimo quindicennio, che qui non stiamo ad esaminare singolarmente sappiamo che, in linea di principio, per assicurare una gestione consapevole dei lavoratori in età matura (cioè con oltre 50 anni), occorre partire da un reclutamento non discriminatorio, e proseguire con l’adozione di soluzioni ergonomiche in grado di compensare il naturale declino fisico-cognitivo, orari flessibili, senza trascurare le attività formative, anche grazie ad una revisione complessiva della mentalità e del clima aziendale, fino alle politiche di uscita. La crisi economica odierna potrebbe far sembrare alcuni di questi princìpi quasi un lusso, ma posso garantirvi che le aziende che meglio applicano tale filosofia sono anche le più preparate ad affrontare le difficoltà del momento, perché capaci di coniugare la logica del profitto con l’etica del rispetto dei diritti fondamentali dei lavoratori.
Ma c’è un altro ampio settore nel quale l’invecchiamento attivo può esercitarsi: quello del volontariato. Questa modalità di contribuire alla collettività appare in Italia molto meno diffusa che in altri Paesi europei, a tutte le età anche se osserviamo negli ultimi anni una decisa tendenza ad una crescita del fenomeno. In realtà, è ipotizzabile che ci sia una certa sottostima dello stesso, sia perché i dati ISTAT si basano solo sulle organizzazioni di volontariato formalmente riconosciute, sia perché molti volontari nel settore ricreativo culturale non si ritengono tali e rispetto a quest’ultimo punto possiamo in effetti notare che, mentre nel Nord Europa il volontariato assume una valenza prevalentemente auto-espressiva (volta cioè a raggiungere un proprio beneficio, soprattutto in ambito sportivo-culturale), in Italia ed in genere nel Sud-Est europeo il volontariato è soprattutto di carattere altruistico (opera cioè per finalità socio-assistenziali verso altri). Pensando al futuro, per stimolare il volontariato in età anziana – cosa dagli indubbi benefici sia a livello individuale che collettivo – è necessario che vengano tenute in debito conto le motivazioni degli stessi anziani, favorendo un incontro tra domanda ed offerta che passa anche attraverso un mix più multigenerazionale. A tal fine, è cruciale far leva sia sull’assistenza informale, così diffusa nel nostro Paese, onde trasformarla in una risorsa collettiva (e non solo individuale), sia sulle aziende, che in alcuni Paesi sono un fulcro cruciale per iniziare molti dipendenti al volontariato già in età da lavoro (perché è più facile continuare ad essere volontari, che diventarlo solo in tarda età).
Passiamo ora ad esaminare il settore delle cure per la non autosufficienza, da sempre oggetto centrale di interesse per l’INRCA, data la sua mission, e che l’area socio-economica cui appartengo ha affrontato privilegiando la prospettiva dell’utente. Questo è testimoniato dai vari progetti da noi svolti nel settore dell’assistenza famigliare all’anziano, di cui il più rilevante è stato certamente EUROFAMCARE, uno studio pioniere a livello europeo nel fotografare la situazione dei servizi di supporto alle famiglie impegnate nel sostegno ad anziani non autosufficienti, con risultati e messaggi molto chiari, che ora vediamo in dettaglio.
Il primo è che l’Italia appartiene a quei Paesi in cui tali sostegni alle famiglie sono meno diffusi, solo il 3-4% delle famiglie italiane dichiara di beneficiarne e questo accede non solo per la loro ridotta diffusione, ma anche per difficoltà legate alle procedure di accesso complicate, alla carenza di informazioni adeguate e all’esistenza di lunghe liste di attesa.
Per cui non stupisce che le famiglie indichino, come caratteristiche dei servizi che desidererebbero al di sopra di ogni altra cosa, che questi siano in primo luogo tempestivi, e in grado di assicurare un trattamento dignitoso e rispettoso dell’anziano cui sono rivolti.
Meno grave appare la situazione dei caregiver italiani rispetto alle controparti di altri Paesi riguardo alle restrizioni riportate nel cercare di conciliare attività assistenziale informale e lavoro retribuito (ad esempio dovendo ridurre l’orario di lavoro, rinunciare alla carriera o altro). Grazie anche ad una normativa abbastanza avanzata in tal senso, il numero di coloro che lamenta questo tipo di problemi appare nel nostro Paese inferiore a quello riscontrato altrove anche se permane, non va dimenticato, una forte disuguaglianza di genere, in quanto sono soprattutto le donne a soffrire di questo tipo di restrizioni.
Questa nostra tradizionale attenzione alle cure informali permane anche quando ci spostiamo nel settore delle nuove tecnologie dove, oltre a svariate iniziative nel campo della robotica e degli ambienti intelligenti a sostegno della vita indipendente in età anziana, da tempo stiamo approfondendo il ruolo che possono svolgere le tecnologie della comunicazione ed informazione a favore dell’assistenza informale in famiglia.
Con il progetto INNOVAGE, in particolare, stiamo al momento sviluppando una piattaforma web multilingue, in collaborazione con Eurocarers (la federazione europea delle associazioni di carers informali), per fornire servizi di supporto in tutti i Paesi dell’Un. Europea, che sarà pronta per fine 2014.
Proprio questi giorni è partito un altro progetto, di durata triennale, nel quale queste nostre competenze saranno applicate nel settore della cura delle persone – prevalentemente anziane – colpite da malattie croniche multiple, al fine di promuovere le pratiche più efficaci.
La tecnologia da sola chiaramente non è sufficiente: ed è noto che uno degli approcci vincenti alle cure per la non autosufficienza è quello basato sulle cure domiciliari. Da qualche giorno è disponibile gratuitamente on-line uno studio, EURHOMAP, cui abbiamo contribuito, che illustra come in molti Paesi europei, compresa l’Italia, molto rimanga da fare in questo settore, soprattutto ora che la crisi economica ha ridotto le risorse disponibili, favorendo il ruolo del settore privato e accentuando l’esigenza di monitorare un livello accettabile di qualità delle cure erogate.
In un Paese come il nostro, non possiamo lasciare l’argomento senza aver fatto prima almeno un accenno alla questione delle assistenti famigliari, le cosiddette “badanti”. Per farlo, partiamo da una considerazione: che chi assiste un anziano non autosufficiente in Italia nel 70% dei casi esclude di voler ricorrere al ricovero in istituto, un dato questo che ci accomuna ad altri Paesi del sud e dell’est europeo (rispetto al 10% in Svezia!). E siamo simili a questi Paesi anche nella convinzione – tipica di un approccio familista – che i figli adulti dovrebbero contribuire a pagare l’assistenza dei propri genitori, quando questi non sono in grado di coprirne i costi da soli. Questo fatto, assieme alla circostanza che il nostro Paese è uno di quelli in cui maggiore è la quota di anziani che ricevono indennità ed assegni di cura, piuttosto che servizi – i beneficiari della sola indennità di accompagnamento arrivano ormai a superare il 13% degli ultrasessantacinquenni contribuisce a spiegare bene perché oggi da noi il fenomeno delle cure private degli anziani, cioè pagate direttamente dalle famiglie (utilizzando anche queste risorse), sia così diffuso rispetto ad altri Paesi.
Ora, com’è noto, la stragrande maggioranza di queste assistenti famigliari, quasi sempre anch’esse donne, è di origini straniere, le stime variano tra il 75 e il 90% di tutti i lavoratori del settore delle cure domestiche con un contributo che va a risolvere soprattutto le esigenze di conciliare compiti di cura ed impegni lavorativi di figli e nuore occupati, come accennavano prima assicurando, per lo meno è questa l’opinione prevalente, quel rispetto dell’anziano che sappiamo essere così importante agli occhi delle famiglie italiane.
In sintesi, possiamo pertanto dire che certamente il ricorso alle assistenti famigliari straniere rappresenta una grossa risorsa ed opportunità, per diversi motivi, ma non possiamo sottacere le sfide che esso comporta, in termini di qualità delle cure da parte di personale non sempre qualificato, di irregolarità rispetto al mercato del lavoro, di potenziali abusi da entrambe le parti, e di impatto nei paesi di origine delle stesse assistenti, che spesso lasciano genitori anziani e figli, che finiscono con il diventare loro stessi un peso per i sistemi di welfare di tali Paesi (il cosiddetto rischio di care drain).
L’accenno agli abusi ci collega ad un altro filone di studi che abbiamo da qualche anno avviato nel settore partendo dal progetto ABUEL, che ha accertato per la prima volta la diffusione del fenomeno delle violenze ed abusi a danno di persone anziane in 7 Paesi europei. Dai risultati emerge che apparentemente in Italia tale rischio risulta meno diffuso che altrove (sebbene l’ipotesi che abbiamo è che il fenomeno sia da noi più invisibile perché per molti è considerato un tabù anche il solo parlarne); emerge che si tratta spesso di aggressioni di tipo psicologico (un caso su 5), e molto più raramente di abusi finanziari, fisici o sessuali; che ne sono principalmente colpiti anziani disabili e poco istruiti; e che i perpetratori appartengono il più delle volte proprio alla cerchia famigliare.
Possiamo osservare anche visivamente quanto appena detto, qui vediamo la prevalenza tra le vittime di chi riceve una pensione di invalidità o un’indennità di accompagnamento qui l’elevata numerosità, sempre tra le vittime, di persone anziane con scarsa istruzione e qui, nel grafico in alto, la forte prevalenza di famigliari, amici e vicini tra gli autori di abuso psicologico, mentre notiamo (in basso) che l’abuso finanziario è più opera di esterni. Dalle conclusioni di questo studio – in particolare dall’osservare che in Italia la denuncia di tali episodi appare particolarmente rara, soprattutto se sono coinvolti dei famigliari (della serie: i panni sporchi si lavano in famiglia) – è partita una riflessione sulla necessità di attivare interventi per sostenere e tutelare chi denuncia tali eventi, cosa che ha portato all’istituzione del servizio TAM TAM.
Di cosa si tratta? Di un numero verde, attivo ormai dal 2010, specificamente rivolto a raccogliere segnalazioni di episodi di maltrattamento e abuso a danno di persone anziane. E’ basato sulla collaborazione tra l’INRCA e alcune organizzazioni di volontariato, ed agisce in raccordo con i servizi territoriali, a cui i casi segnalati devono poi fare necessariamente riferimento per trovare soluzioni concrete.
E questo ci porta al più recente sviluppo in questo settore, quello del sostegno alla solidarietà intergenerazionale legato al progetto Ri-Generiamoci, partito dalla constatazione che solo l’ascolto passivo delle chiamate pervenute al nostro telefono anti-abusi TAM TAM non ci avrebbe portato lontano nella prevenzione del fenomeno. Si è invece pensato che fosse più efficace attivare una ricerca-azione, un intervento mirato appunto a modificare i comportamenti delle persone. Sono stati coinvolti ragazzi delle scuole medie, associazioni di volontariato e servizi per anziani non autosufficienti, che hanno condiviso diverse esperienze comuni nel corso di quest’anno, dando ai ragazzi un esempio sia di invecchiamento attivo, tramite i volontari anziani, sia dell’importanza di stili di vita salutari a partire dalla giovane età, sia dell’importanza della solidarietà tra generazioni.
I risultati raggiunti ci confortano dell’impegno profuso in questo progetto sperimentale, che si concluderà tra due settimane: i ragazzi dimostrano oggi, dopo solo qualche mese di attività assieme, di avere una visione meno stereotipata e più realistica di quello che significhi essere anziano, sia come risorsa per la società, sia come opportunità di sviluppo individuale ed entrambi, ragazzi e anziani, hanno modificato molte delle proprie opinioni reciproche, passando da atteggiamenti iniziali caratterizzati da conflittualità e scetticismo a sentimenti di simpatia ed amicizia, riconoscendo, soprattutto, che molto possono fare gli uni per gli altri.
Chiudo questa mia lunga panoramica con alcune riflessioni che puntano a sottolineare alcuni elementi di base che i futuri studi sull’invecchiamento dovrebbero tener presente scomodando a tal fine i risultati del progetto Futurage, un’ambiziosa iniziativa nata con l’obiettivo di identificare una road map multidisciplinare per la ricerca europea sull’invecchiamento per il prossimo decennio, integrando i risultati di precedenti proposte con una consultazione a 360 gradi che ha coinvolto oltre 300 ricercatori e rappresentanti di organizzazioni non accademiche del settore, provenienti da discipline assai diverse, dall’architettura alla geografia, passando per la genetica e la sociologia, tanto per citarne alcune, i quali, attraverso quattro gruppi di lavoro diversi hanno individuato alcuni principi fondanti che devono caratterizzare la ricerca futura sull’invecchiamento. La quale, attraverso investimenti adeguati, a livello europeo ma anche nazionale, in infrastrutture dedicate e nella formazione, dovrà assicurare un coinvolgimento necessario degli utenti, specie se anziani, in ogni studio che li riguardi, sin dal loro disegno iniziale; l’adozione di un approccio basato sull’intero ciclo della vita (e non solo sulla fase terminale dell’esistenza); la considerazione dell’ambiente circostante, ma anche delle diversità socio-culturali, in un’ottica di miglioramento delle relazioni intergenerazionali, e di trasferimento puntuale delle conoscenze acquisite, specie sul fronte tecnologico, con un sistematico orientamento multidisciplinare integrato.
Oltre a questi aspetti metodologico-infrastrutturali, sono state individuate anche alcune priorità contenutistiche, accomunate dall’obiettivo di promuovere l’invecchiamento attivo e raggruppate in 7 tematiche, di cui due, in particolare, interessano il nostro ambito, quella della inclusione e partecipazione socio-economica, e quella della protezione sociale. Per quanto riguarda la prima abbraccia aspetti come la lotta alle discriminazioni basate sull’età, l’educazione permanente, i fenomeni migratori, il superamento delle barriere digitali, la promozione della mobilità e accessibilità degli ambienti, ma anche aspetti come la spiritualità, il volontariato, il consumo di beni e servizi nonchè una serie di criticità del mercato del lavoro. Per ognuno di questi ambiti sono stati individuati alcuni interrogativi urgenti su cui la futura ricerca è chiamata a fornire risposte e lo stesso è avvenuto per il settore della protezione sociale nell’ambito del quale aree chiave appaiono quella della sostenibilità dei sistemi di protezione ed assistenza socio-sanitaria, del miglioramento dell’accessibilità ai servizi, dell’efficienza ed efficacia degli interventi, del supporto all’assistenza informale, anche attraverso iniziate basate sulle nuove tecnologie, fino alla promozione della solidarietà e cooperazione tra le generazioni.
Un progetto che già oggi sta cercando di mettere in pratica in modo integrato questa mole di suggerimenti a valenza multidisciplinare è MOPACT, partito lo scorso mese, che mira a fornire dati empirici a sostegno della longevità attiva in modo da costruire un bagaglio di conoscenze comuni da cui dipartire per sviluppare politiche, beni e servizi nei vari Paesi europei e la varietà delle aree di intervento su cui il progetto si incentra testimoniano chiaramente lo sforzo olistico che lo caratterizza. Sperando di poter fruire quanto prima dei risultati che emergeranno concludo con la speranza di non avervi strapazzato troppo, e vi ringrazio per l’attenzione!