Invecchiamento e svecchiamento in Italia ed Argentina
Il processo di invecchiamento che interessa la popolazione italiana è relativamente recente; con origine già nel XX secolo – a seguito della conclusione del processo di transizione demografica che ha interessato tutte le popolazioni a sviluppo avanzato – l’invecchiamento della popolazione è diventato nel tempo sempre più marcato in concomitanza con il miglioramento delle condizioni sociali ed igienico-sanitarie.
L’invecchiamento è generalmente considerato il meccanismo statistico prodotto da un allungamento medio della vita e dal calo delle nascite. Pertanto, oltre alla conquista in termini di maggior e miglior numero di anni che un individuo può aspettarsi di vivere, l’altro fenomeno che ha contribuito a squilibrare i rapporti tra generazioni è stato il forte calo della fecondità. L’agire di queste due forze, che hanno determinato in un secolo da un lato il quasi triplicarsi della speranza di vita alla nascita, e dall’altro il ridursi di un terzo il numero medio di figli per donna, hanno reso l’Italia uno dei paesi più vecchi al mondo.
Il processo di invecchiamento in Italia e in Europa ha portato ad un’inevitabile trasformazione della struttura demografica della popolazione. Si nasce sempre meno, salvo una recente modesta congiuntura positiva; e l’orizzonte temporale su cui un individuo può contare di vivere è sempre più lungo. Dunque la popolazione invecchia. Nel 2011 in Italia si contano 145 anziani (con 65 anni ed oltre) ogni 100 giovani (fino a 14 anni).
Secondo le stime più recenti (2011) un uomo italiano può aspettarsi di vivere quasi 80 anni ed una donna più di 84 anni. Se consideriamo l’orizzonte temporale di vita di un individuo di 65 anni, soglia che determina l’ingresso nella cosiddetta vecchiaia, notiamo come questo sia di 19 anni per gli uomini e 22 anni per le donne; rispetto a 60 anni fa, un 65enne può aspettarsi di vivere mediamente 7 anni in più se uomo, 9 anni in più se donna.
Gli scenari demografici previsti confermano che nel medio-lungo termine il contingente della popolazione anziana è destinato ad aumentare ancora (205 anziani ogni 100 giovani nel 2030 e 265 anziani ogni 100 giovani nel 2050), con pesanti ripercussioni in termini economici ed assistenziali.
Dunque, da un punto di vista economico, mentre è ipotizzabile nel medio termine una sorta di stabilità dei costi per l’istruzione, comunemente associati ad un’elevata “green pressure” (impatto dei giovani), sarà necessario far fronte ai sempre più alti costi legati a salute e pensioni, usualmente correlati ad una consistente e crescente “grey pressure” (impatto degli anziani).
La popolazione sta senza dubbio invecchiando, ma è pur vero che la classe degli ultra-sessantacinquenni è divenuta estremamente eterogenea rispetto al passato, comprendendo individui con caratteristiche, esigenze e stili di vita sempre più diversificati. Se fino a metà del secolo scorso la popolazione “giovane” – intesa come in buone condizioni di salute – non supera i 55-60 anni, oggi la stessa collettività supera i 75-80 anni, con un guadagno in termini di potenziale “popolazione attiva” di 10-15 anni.
Mettendo a confronto la piramide per età relativa al Censimento del 1951 e quella relativa al 1 gennaio 2009, utilizzando lo strumento dell’età mediana, quel parametro statistico che divide una popolazione in due parti uguali, emergono delle sorprese.
Figura 1: Italia 1951 e 2008
Mentre, infatti, nel 1951 metà della popolazione aveva meno di 29 anni, nell’anno di più recente osservazione metà della popolazione italiana ha meno di 42 anni. Dunque fino a 41 anni compiuti si è giovani. Dai 42 anni in poi si è meno giovani, sia demograficamente sia per gli adattamenti istituzionali, più vecchi.
Se si accetta la soglia dei 42 anni, si osserva come tra i 29enni di allora e i 42enni di oggi ci siano 13 generazioni che si sono paradossalmente “ringiovanite”, passando dalla parte “vecchia” alla parte “giovane” della piramide.
In Argentina si può osservare una dinamica simile con diverse cadenze, durate e tempi. Nel 1951 l’età mediana della popolazione era di quasi 26 anni: di poco più giovane rispetto a quella italiana e con la caratteristica per entrambe le popolazioni di una struttura prevalentemente giovane. Dopo 60 anni di osservazioni l’età mediana è passata in Argentina a 30,4 anni mentre in Italia a 41. È l’osservazione di una transizione demografica che ha lo stesso segno in intensità e tempi diversi.
Figura 2: Argentina 1950 e 2010
Il fenomeno di fondo che guida questa transizione è il cambiamento nella dimensione media della famiglia, che in ultima istanza si traduce in un forte contenimento della fecondità totale. In Italia in tempi assai rapidi questa scende molto al di sotto del livello di sostituzione della popolazione e delle generazioni; mentre in Argentina questo contenimento, che pure c’è stato e c’è tuttora, è molto meno intenso ed efficace sugli effetti di struttura demografica.
Qui si passa, infatti, da 3,5 a 2,2 figli in media per donna nello stesso periodo allorché in Italia la fecondità totale scende fino ad 1,3 per assestarsi poi intorno ad 1,6: livello che, secondo le previsioni del CELADE, sarà raggiunto in Argentina solo dopo il 2060. L’effetto di questa dinamica si associa naturalmente ai progressi nella resistenza alla mortalità misurata, per esempio, con la speranza di vita alla nascita: da analoga origine intorno ai 60 anni si arriva in Argentina oggi alla soglia dei 75 e dei quasi 80 in Italia.
L’effetto complessivo di questa transizione parallela è di un invecchiamento progressivo della popolazione: debole, finora, in Argentina e molto forte in Italia e in Europa. Fenomeno questo che è accompagnato da un rapido invecchiamento relativo della popolazione giovane e da un simile fenomeno per ora poco visibile nella struttura per età della popolazione argentina.
Questa conclusione lascia oggi alla popolazione latino-americana circa un mezzo secolo di tolleranza nella grande ed urgente impellenza di rivedere alla radice i sistemi di previdenza sociale che sono invece giunti in Europa e in Italia alla soglia critica del periodo di non ritorno.
Si osserva dunque uno svecchiamento demografico reale; una popolazione si è svecchiata non solo per l’ingresso di popolazioni immigrate, con una struttura per età più giovane e un comportamento riproduttivo più fecondo, ma perché la struttura della popolazione ha ringiovanito di 13 generazioni le categorie demografiche, ma anche sociali, economiche, commerciali ed altre. “Si può anche dimostrare – conferma Massimo Livi Bacci (2011) – che l’aumento della sopravvivenza ha inciso proporzionalmente di più alle età infantili e giovanili che non a quelle anziane, provocando – ceteris paribus – un aumento più che proporzionale di giovani che non di anziani e provocando pertanto un effetto di ringiovanimento della struttura per età”.
Di fronte a questo fenomeno, risulta poco soddisfacente considerare la soglia di anzianità a 65 anni. In questo scenario, in cui si è giovani fino a 42 anni, diventare per convenzione vecchi a 65 anni conduce al prosciugamento di un aggregato di popolazione fondamentale per gli equilibri del paese: gli adulti.
La tesi viene avvalorata quando consideriamo le migliori condizioni di vita e di salute in cui versa la popolazione di oggi rispetto a quella di ieri per cui sempre meno ad un sessantacinquenne si possono attribuire caratteristiche tradizionalmente associate alla vecchiaia.
Questo spostamento delle età nel corso del tempo, con conseguente svecchiamento della popolazione, ha dato luogo alla nascita di un nuovo aggregato, i cosiddetti “oldest old”, ovvero i “vecchissimi”.
Questi movimenti delle età anagrafiche meritano una riflessione non solo in riferimento alla popolazione anziana, ma anche a quella giovane e adulta. Infatti, i cicli di vita notoriamente scanditi dall’età giovane, dall’età adulta e dall’età anziana corrispondono più alle attuali tendenze del livello di istruzione, della maggiore precarietà del mercato del lavoro e delle condizioni abitative, della posticipazione della fecondità e riduzione del numero di figli messi al mondo, delle difficoltà di conciliazione tra famiglia e lavoro.
Queste mutate caratteristiche hanno portato negli anni al sorgere di un altro fenomeno, al cosiddetto “invecchiamento dei giovani”; questi ultimi diventano, infatti, adulti sempre più avanti negli anni.
Dunque sono “più vecchi” rispetto al passato. Se manteniamo la soglia di anzianità fissa a 65 anni come vuole la convenzione, per gli adulti di oggi si comprime drasticamente l’arco temporale in cui possono studiare, cercare un lavoro, formare una famiglia, garantire il ricambio generazionale, mantenere l’economia, assicurare lo sviluppo del Paese, mettere da parte i soldi per una pensione. Mentre cinquant’anni fa gli adulti avevano più di 40 anni per fare tutto ciò, oggi ne hanno meno della metà.
Di fronte a questi scenari in continuo movimento che caratterizzano la società attuale, risulta poco soddisfacente ancorarsi a soglie fisse che determinano la popolazione adulta e la popolazione anziana. L’adozione di un limite fisso come soglie di ingresso e di uscita dall’età adulta appare infatti anacronistico in una società caratterizzata da una continua e veloce evoluzione.
Appare dunque interessante riflettere sulle definizioni di età giovane, adulta, anziana ed infine, vecchia, ipotizzando uno spostamento delle soglie “anagrafiche” di ingresso ed in uscita dall’età “adulta”. In questo modo si possono ipotizzare nuovi possibili ruoli svolti dalla popolazione anziana “ringiovanita” e da quella giovane “invecchiata” (adulta) con l’obiettivo di recuperare la popolazione adulta.
Raimondo Cagiano de Azevedo: Università degli Studi di Roma “La Sapienza”.