Quali aspetti socio-sanitari e culturali per un buon invecchiamento
Il vivere non è vivere se non si alimentano i giorni di passioni e curiosità
(Tramma, 2000)
Quando ho cominciato a pensare a questo tema mi sono subito chiesta: cosa si intende per buon invecchiamento?
A mio parere una persona invecchia bene quando realizza la propria umanità, ovvero quando è in grado di esplicare al meglio le proprie potenzialità psico-fisiche affettive, relazionali, sociali, accettando i propri limiti e valorizzando le proprie risorse. In questo modo, si trova in equilibrio, mantenendo una buona immagine di sé e scongiurando pericolose cadute di carattere depressivo-regressivo. In una parola si può essere sereni anche in questa fase della vita che è caratterizzata spesso da aspetti dolorosi, sia sul piano fisico sia su quello psichico.
A questo punto viene spontaneo farsi un’altra domanda: attualmente per le persone anziane è facile attuare tutto ciò? O meglio, gli anziani sono facilitati ad estrinsecare le loro reali potenzialità nella nostra società?
Se siamo onesti in Italia ed in molti altri Paesi in Europa, si parla molto di anziani, di politiche sociali per questa fascia d’età, ma in concreto, a mio parere, la mentalità con la quale ci si accosta a questo mondo è ancora abbastanza lontana dal concepire politiche che possano sostenere una senescenza attiva. Esse sono per la grande maggioranza di natura assistenzialistica. È vero che esiste pur sempre una fascia di popolazione anziana molto bisognosa di cure e sostegno psico-fisico ed economico, e questa realtà impegna molto i servizi sociali, le famiglie, il volontariato, i governi, ma ritengo che se non ci si attiva in modo significativo sulla messa a punto di politiche sociali e del lavoro che vanno verso la valorizzazione dell’anziano attivo è perché ancora tutti noi facciamo molta fatica ad immaginare la vecchiaia come un’età che abbia ancora qualcosa da offrirci in termini di energie, interessi, capacità.
L’anziano è ancora vissuto come una persona che ha caratteristiche fortemente stereotipate ed in genere i governi sono spesso molto preoccupati dai timori sugli effetti “negativi” in termini di spesa pubblica e di consenso politico se si azzardano ad investire in misure a favore dell’anziano attivo, distogliendo invece lo sguardo sull’ importanza di legare la sostenibilità finanziaria a maggiori opportunità di attività lavorative e di partecipazione sociale per gli anziani.
Nell’immaginario culturale, infatti, la condizione anziana è associata all’idea di un decadimento generalizzato legato a perdita sia di funzionalità psico-fisiche sia sociali sia produttive. I tratti che comunemente si attribuiscono agli anziani sono di debolezza e disimpegno a partire dal fatto che il passaggio dall’età adulta a quella anziana viene segnato dal momento della fuoriuscita del soggetto dal sistema produttivo. È questa un’immagine fortemente stereotipata e tipicamente “moderna” sorta con lo sviluppo della società industriale ed i suoi valori guida, ora non più adeguati ad una economia che si basa prevalentemente su attività di servizio.
Quel che è più grave, è che gli stessi anziani, seppur in buona salute, tendono ad identificarsi con l’immagine di un soggetto che ormai ha poco da offrire al contesto sociale in cui è inserito, credendo di essere più oggetti bisognosi d’assistenza, piuttosto che soggetti che possano partecipare attivamente alla vita sociale del proprio paese.
Dobbiamo riconoscere che nella nostra cultura ci sono dei processi che vengono correlati con lo stadio di età delle persone: si può essere “troppo giovani” o “troppo vecchi” per guidare, sposarsi, imparare, per assumere determinati ruoli ed usufruire di alcune opportunità. Gli anziani nella nostra società hanno la collocazione più bassa di qualsiasi altro gruppo adulto. Cioè, in quanto anziani, sono in quasi tutti i casi troppo vecchi per fare moltissime cose.
Tuttavia, negli ultimi anni l’identità “monolitica” della condizione anziana è stata messa in discussione a favore di modelli esplicativi che mi sembrano più adeguati al contesto reale in cui ora viviamo.
Il problema è che questa identità stereotipata e monolitica dell’anziano ancora pesa e quindi la popolazione anziana tende ad essere identificata come un gruppo di soggetti incapaci d’apprendere ed adattarsi ad un nuovo mondo in evoluzione. In realtà la persona anziana va incontro più a problematiche di deficit mnesico piuttosto che incapacità di apprendimento. Infatti ciò che spesso rende inefficienti le nostre performance, arrivati ad una certa età, è proprio l’incapacità di fissare le informazioni raccolte a livello di memoria, sia a breve che lungo termine; e cosa ancor più marcata, risulta inadeguata la capacità di mettere in atto strategie adatte per estrarre dai nostri “cassetti” della mente i ricordi che vi abbiamo depositato. Si tratta quindi piuttosto di trovare il modo di tenere il più possibile efficiente il nostro sistema mnemonico per continuare ad essere il più possibile produttivi. Questi sistemi esistono e stanno dando risultati di tutto rispetto. Esiste la possibilità della riabilitazione cognitiva che si avvale delle conoscenze sempre più approfondite delle neuroscienze, in particolare la neuropsicologia.
Comunque, se guardiamo la realtà che ci circonda con franchezza e maggior capacità di uscire dai pregiudizi, scopriamo che esistono anziani che assomigliano allo stereotipo che abbiamo descritto prima, i cosiddetti anziani fragili, ma ce ne sono degli altri che, sebbene l’età li renda meno forti sul piano fisico, sono intellettualmente capaci e disponibili.
Se riflettiamo attentamente, fino ad una decina di anni fa gli anziani erano reduci dell’esperienza della prima guerra mondiale, quelli che oggi costituiscono questo gruppo di popolazione sono di più e portano un vissuto differente: una formazione culturale più forte, la conoscenza di prodotti tecnologici come ad esempio la televisione, una vita vissuta nel benessere (Risi, 2009).
Tenendo conto della capacità di essere più attivi ed in più buona salute da parte di queste persone rispetto alle stesse classi del passato, diverse discipline parlano di “nuovi anziani” (Bosio, 1992; Oliviero, 2000; Allario, 2003; Demetrio, 2000-2003) proprio per segnalare la differenza di individui che conducono gli ultimi anni di vita in modo diverso dallo stereotipo ancora diffuso sull’anziano.
È un fenomeno in evoluzione. È stato rilevato come esista una crescente domanda di conoscenza da parte di questi soggetti, anche in contesti poco ricchi di articolate offerte culturali. In particolare i cosiddetti “giovani anziani” (over 60-65) sono molto interessati verso nuove conoscenze ed un consistente inserimento sociale.
Sempre più una parte di popolazione considerata anziana vive in modo curioso e attento, manifestando la volontà di voler apprendere nuove cose. In effetti, più abilità e conoscenze gli anziani sentono di avere, più possono contribuire allo sviluppo della loro comunità di appartenenza. “L’allungamento della vita attiva può quindi costituire un’opportunità per la società attuale se il cambiamento in materia di welfare si indirizza verso un modello adeguato alle sfide del futuro, in grado di offrire programmi e possibilità di formazione e di opportunità per valorizzare il capitale umano e sociale della terza età” (Risi, 2009).
La vera sfida è proprio quella di riuscire a costruire una società, da un lato in grado di prendersi cura del soggetto e dall’altro di incentivarne la realizzazione per l’intero arco della vita. C’è bisogno quindi di un lavoro di messa in rete fra discipline, di paziente tessitura di pensiero, organizzazioni scientifiche, istituzioni, cittadini. Diventa così molto importante la partnership fra servizi pubblici e privato sociale. Sarebbe importante, infatti, arrivare ad un apprendimento che dura tutta la vita e che ha luogo non solo nelle istituzioni formali, ma anche in contesti non formali ed informali (life wide learning). Questo apprendimento che dura tutta la vita è un concetto conosciuto da lungo tempo come apprendimento o formazione permanente.
La formazione permanente interessa più ambiti delle persone: si impara continuamente nell’arco dell’esistenza sia assorbendo informazioni che riguardano le cose semplici, della vita quotidiana, sia studiando ed aggiornandosi su materie classiche, come quelle studiate a scuola, ad esempio la storia, la geografia, l’archeologia, ecc. sia imparando ad usare nuove tecnologie che possono aiutarci e sollevarci nell’esecuzione di molti compiti a livello personale, ma anche professionale.
I nuovi anziani sembrano molto interessati ad essere formati sia sul piano dell’approfondimento di conoscenze a livello di utilità e svago personali, sia sul piano dell’apprendimento di competenze da spendere sul piano professionale.
A mio parere per una persona che sta invecchiando è cruciale mantenersi informato ed essere in grado di usare le nuove tecnologie per poter continuare a svolgere un ruolo attivo nella società in continua evoluzione. Le persone interessate a conoscere e disposte a mettersi in gioco evitano pericolose, quanto frequenti cadute nella depressione e, soprattutto sono in grado di continuare a dare un loro contributo alla comunità in cui vivono, anche in termini economici.
C’è bisogno, quindi, di politiche sociali orientate all’invecchiamento attivo e non solo di tipo assistenziale offerte a soggetti, che spesso, se opportunamente stimolati e resi consapevoli di avere ancora potenzialità da esprimere, sarebbero in grado di uscire da quella fascia di cosiddetta “fragilità” che li conduce ad una vita spenta, grigia, che spesso si conclude, sul piano psichico, o psicologico che dir si voglia, molto prima della morte fisica.
Patrizia Rizzatto: Psicoterapeuta, esperta in neuropsicologia e psicologia della senescenza – patrizia.rizzatto@gmail.com