L’invecchiamento in strutture residenziali: la narrazione come pratica di attivazione
1. Introduzione
Memory è una ricerca/intervento realizzata dall’Irpps-Cnr1 e dal Comune di Napoli2 in occasione dell’Anno Europeo dell’Invecchiamento Attivo deciso dall’Unione Europea (Decisione 2011, 940). Nel solco di una riflessione sul tema dell’Ageing Society e dell’Active Aging l’obiettivo del progetto è favorire il mantenimento del maggior livello possibile di autonomia funzionale di anziani residenti in strutture residenziali attraverso la narrazione come pratica di attivazione. L’idea di fondo del progetto è che il raccontare e il raccontarsi, consentendo il recupero della memoria autobiografica, si configuri quale buona pratica di attivazione capace di rallentare il decadimento cognitivo in età anziana.
Nell’ambito di una riflessione basata sull’attivazione degli anziani appare rilevante approfondire la ricerca sui processi che favoriscono il rallentamento del declino cognitivo e, in generale, l’invecchiamento in buona salute. Se infatti gli anziani restano autonomi il più a lungo possibile ciò ha anche effetti sul contenimento della domanda di cura e di assistenza, e quindi sul controllo dei costi del sistema di welfare. In merito la Commissione Europea ha da tempo ribadito che se i futuri incrementi in materia di speranza di vita fossero acquisiti essenzialmente in buona salute e senza invalidità, l’aumento previsto della spesa pubblica per la salute e per l’assistenza agli anziani non autosufficienti si ridurrebbe della metà (COM 2006, 574). Approfondire la ricerca su politiche capaci di influire sui processi psicologici e sociali in grado di procrastinare la non autosufficienza, significa aiutare gli anziani del terzo millennio a invecchiare sempre più in buona salute e anche a contenere l’incremento della spesa sociale.
2. Il progetto Memory
In occasione di una serie di convegni organizzati dall’Università Cattolica di Milano sul tema dell’invecchiamento attivo, con alcuni colleghi abbiamo avviato una riflessione sulla necessità di ridefinire il concetto di invecchiamento attivo3. Il concetto risulta infatti inadeguato a dar conto della complessità dell’universo anziani. Chi è l’anziano attivo?
Nella nomenclatura dei discorsi ufficiali e nella ricerca sul tema gli anziani attivi sono prevalentemente gli anziani che continuano a lavorare oltre l’età pensionabile. Come sottolineano per esempio Calza Bini e Lucciarini (2011) nel dibattito politico e scientifico il concetto-ombrello di invecchiamento attivo ha avuto una notevole evoluzione nel corso degli anni, a seconda delle istituzioni internazionali che ne hanno promosso l’implementazione. Alcuni attori politici internazionali infatti hanno inteso la vita attiva come inserimento degli over 65 in attività e partecipazione all’interno del mercato (OEDC, Unione Europea), così che l’invecchiamento attivo tende per lo più a coincidere col prolungamento dell’attività lavorativa.
Ma l’enfasi posta sulla dimensione lavorativa solleva, a parere di chi scrive, almeno due questioni rilevanti. Per un verso rende il concetto inapplicabile a chi non è ancora, o non è stato mai, inserito nel mercato del lavoro, per l’altro ne riduce la fecondità euristica. Anche se non ancora sufficientemente esplicitate in letteratura infatti, nell’idea di invecchiamento attivo coesistono in un intreccio indistinto visioni divergenti e alternative dell’invecchiamento e dell’idea di attivo. Chi è allora l’anziano attivo? Solo chi è produttivo per il mercato nonostante l’anzianità?
E come definire chi invece ha optato per “la pensione il prima possibile” e si dedica ad attività non retribuite ma soggettivamente significative? In quale categoria inserire le tante donne mai entrate nel mercato del lavoro eppure mamme e nonne attivissime nello svolgimento delle occupazioni della vita quotidiana? Nel lavoro di cura per i più piccoli e i più anziani? E ancora, come inquadrare l’esercito di giovani che, oggi, sono lavoratori precari, senza diritti, senza carriera e senza pensione? Per loro, domani, cosa potrà mai significare invecchiare in modo attivo?
A partire da questi interrogativi ho provato a ridefinire il concetto sganciandolo da un approccio economicista per rileggerlo alla luce della riflessione sociologica che gira intorno ai concetti di capacità e pratiche. Capacità nel senso seniano del termine ovvero come libertà di scegliere e abilità di conseguire condizioni di vita soggettivamente dotate di senso (Sen 1993), pratiche secondo la definizione dei teorici delle Pratiche di Comunità ovvero corsi di azione ripetuti e situati che performano soggettività e creano comunità, ovvero insiemi di soggetti, relazioni e oggetti (Gherardi 2008).
Ho quindi proposto di interpretare l’invecchiamento attivo come capacità e pratiche da sperimentare e imparare (Tesauro 2012) nell’idea che non solo sperimentare e imparare siano due processi ancora possibili in età anziana, ma che altresì fare, provare, imparare siano pratiche preziose durante il processo di invecchiamento.
La psicologia dell’invecchiamento ha infatti da tempo dimostrato che il rimanere in attività svolge una funzione protettiva nei confronti del normale decadimento cognitivo che si realizza in età anziana. Vi è un generale accordo in letteratura nel sostenere che, negli anziani, si realizza un certo declino in alcuni ambiti cognitivi; ma si è anche dimostrato che il cervello dell’anziano ha una sua plasticità, ovvero una capacità di riorganizzazione funzionale che permette all’anziano di mantenere adeguati livelli di prestazione nonostante il declino biologico (De Beni 2009). Dati in letteratura sostengono che la plasticità neurologica è favorita dall’attività, e che il livello di attività sia un fattore protettivo del decadimento in età avanzata (Schooler e Mulatu 2001; Stine-Morrow 2007). Bygren, Konlaan e Johansson (1996), per esempio, hanno riportato dati che suggeriscono che partecipare ad attività che impegnano dal punto di vista cognitivo è un buon predittore del livello di sopravvivenza a otto anni. Rallentare dunque il decadimento cognitivo aiuta a invecchiare in salute procrastinando l’insorgenza della vera e propria non autosufficienza.
In questo orizzonte teorico ha preso forma il progetto Memory con l’obiettivo di provare che l’invecchiamento attivo è una pratica possibile per qualsiasi anziano, in qualunque situazione di vita si trovi e qualsiasi sia il suo stato di salute.
Di qui l’ideazione di un progetto in strutture residenziali e con soggetti con limitate capacità motorie. La scelta non è stata casuale. Sperimentare una pratica di attivazione in uno spazio fisico, quale appunto la struttura residenziale, che per definizione limita la libertà di scelta e la possibilità di azione (Goffman 1961) e con soggetti limitati nelle possibilità di movimento e quindi presumibilmente inattivi, significa provare la possibilità di attivazione per chiunque, in qualsiasi contesto.
La ricerca ha utilizzato il metodo autobiografico. Nell’ambito della linea di ricerca inaugurata nel nostro paese dalla Libera Università dell’Autobiografia di Duccio Demetrio, il progetto ha inteso dar voce agli anziani attraverso la narrazione. Essa è il supporto che consente di rielaborare i ricordi e i pensieri, di recuperare i momenti importanti del proprio passato, di riflettere su alcuni eventi, sui sentimenti, le emozioni provate, sulle scelte operate, di seguire il filo lungo cui si è dipanato il proprio percorso di vita. Il narrarsi può essere dunque un’esperienza inusuale che cura, che procura benessere al soggetto narrante (Duccio Demetrio 1995). E può diventare scrittura di sé.
Il progetto Memory quindi muove dalle seguenti ipotesi:
1. La narrazione, come normale attività della vita quotidiana, può costituirsi quale pratica di attivazione.
2. Le normali attività della vita quotidiana favoriscono la plasticità neuronale e quindi rallentano l’invecchiamento cognitivo (De Beni 2009).
3. La narrazione è un’attività che può avere funzione terapeutica (Demetrio 1995).
4. Le attività collettive rafforzano le reti relazionali e aumentano il benessere percepito e la capacità di autonomia degli anziani. Numerosi studi hanno ormai sottolineato l’esistenza di una correlazione positiva tra ricchezza delle reti relazionali e benessere percepito e una correlazione tra reti relazionali e capacità di autonomia degli anziani (Micheli 2002). Le reti relazionali influiscono infatti sulla qualità della vita e hanno una capacità protettiva nei confronti del decadimento psico-fisico e del benessere percepito.
Tiziana Tesauro: Ricercatrice presso l’I.R.P.P.S. Istituto di Ricerche sulla Popolazione e sulle Politiche Sociali.
1 Si ringraziano Andrea Barbieri, Paolo Landri e Anna Milione per il prezioso contributo.
2 Il progetto è stato promosso e finanziato dall’Assessorato alla Politiche Sociali del Comune di Napoli. Si ringraziano l’Assessore alla Politiche Sociali Dott. Sergio D’Angelo, il Dirigente del Servizio di Programmazione Sociale Dott. Giulio Di Cicco, la Dott.ssa Giulietta Chieffo e la Dott.ssa Barbara Trupiano.
3 Active Ageing, Active Participation and Active Welfare The Contribution of Lifelong Learning, Milano, Università Cattolica del Sacro Cuore, 12 novembre 2010; Working Together in an Ageing Society, organizzato dall’Università Cattolica del Sacro Cuore e Milton Keynes Age UK, e svoltosi presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano dal 21 al 23 giugno 2011; Ageing Workforce and Social Sustainability into the perspective of the Demo-graphic Change, convegno organizzato dal Centro di Ricerca WWELL Work Welfare Enterprise Lifelong Learning e dall’ Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano 10 novembre 2011. Si ringraziano Laura Zanfrini e Francesco Marcaletti per queste preziose occasioni di riflessione e confronto sul tema.