QUADERNI EUROPEI SUL NUOVO WELFARE

Cellule staminali e la ricerca della fonte dell’eterna giovinezza

Una leggenda vuole che Ponce de Leon, uno dei luogotenenti che accompagnarono Cristoforo Colombo nel suo secondo viaggio verso il Nuovo Mondo nel 1493 e fu poi il primo Governatore di Porto Rico, successivamente intraprese un viaggio di esplorazione tra continente e isole dei Caraibi per cercare quella che veniva indicata come la Fonte dell’Eterna Giovinezza. Si trattava di un mito molto diffuso nel medioevo in Europa, secondo il quale esisteva una sorgente d’acqua prodigiosa in grado di restituire la giovinezza e la salute perdute. Nel suo girovagare tra il continente e le Bimini, una serie di isole delle Bahamas molto vicine a Miami, Ponce de Leon non trovò la Fonte, ma di fatto fu il primo Europeo, nel 1513, a sbarcare in Florida, che fu quindi assoggettata al potere della Spagna.
Quello dell’eterna giovinezza e delle sorgenti d’acqua in grado di donarla rappresenta di fatto uno dei miti più classici dell’umanità, menzionato già da Erodoto, che parla di una sorgente sotterranea situata in Etiopia, accennato dal Vangelo secondo Giovanni quando descrive la Piscina di Betzaeta, luogo dove si raccoglievano “infermi, ciechi, zoppi e paralitici” per sperare nelle virtù miracolose delle acque ed in cui Gesù donò la guarigione ad un uomo paralizzato, e ripreso poi dalla leggenda dell’elisir di lunga vita, al centro dell’alchimia medioevale in Europa, ma anche in Cina ed in India. Si ispira al mito anche la cinematografia più recente con il film di Rob Marshall “l Pirati dei Caraibi – Oltre i confini del mare” (2011), dove proprio la ricerca della Fonte dell’Eterna Giovinezza è al centro della trama e i calici appartenuti a Ponce de Leon la chiave per potervi accedere.
Se l’invecchiamento e la morte hanno quindi da sempre rappresentato le paure più arcane ed al contempo ineludibili della specie umana, ecco che oggi i meccanismi biologici che stanno alla base di questi processi diventano affrontabili in termini genetici e molecolari. Dal punto di vista biologico, una prima, apparentemente banale ma di fatto fondamentale constatazione è che l’invecchiamento non è una prerogativa della specie umana: tutti i mammiferi hanno una lunghezza della vita finita e prederminata fin dalla nascita. Il topo, ad esempio, vive circa 2 anni, la pecora 12, il cane, a seconda delle razze, da circa 12 a 16 anni. Ma invecchiano e muoiono entro un periodo finito anche il moscerino della frutta, il verme da laboratorio, le api. Per quanto riguarda l’uomo, nell’antica Roma, un bambino aveva un’aspettativa di vita di circa 22 anni; all’inizio del 1900 questa era di 49 anni; nel 1970 di 70 anni, quale indicatore inequivocabile del miglioramento delle condizioni igieniche, alimentari e sanitarie nei paesi del mondo occidentale.
Attualmente, nei paesi industrializzati che fanno parte del G8 l’aspettativa di vita media va dagli 83 anni degli Stati Uniti ai 90 anni del Giappone; la morte avviene quale conseguenza delle malattie cardiovascolari in un terzo dei casi (in particolare, per infarto cardiaco o ictus cerebrale), dei tumori e delle malattie neurodegenerative (morbo di Alzheimer ed altre demenze). Anche immaginando una situazione ideale in cui la medicina moderna riesca a prevenire o curare queste patologie, la lunghezza della vita umana sarebbe comunque finita, e non supererebbe i 120-125 anni.
Perché invecchiamo dunque? Con ogni probabilità, l’invecchiamento è il risultato finale del programma di sviluppo e differenziamento: l’unione di uno spermatozoo con un ovocita genera la prima cellula di un nuovo organismo (lo zigote), che successivamente si divide molti miliardi di volte generando prima un embrione, poi un feto, poi un bambino ed infine un adulto. Questo programma di sviluppo culminerebbe poi proprio nell’invecchiamento, un evento quindi fisiologico che, dal punto di vista evolutivo, avrebbe lo scopo di “eliminare” dalla popolazione individui che hanno già assolto al loro ruolo riproduttivo. L’invecchiamento, quindi, è definito dai nostri geni: esiste un vero e proprio programma biologico, del tutto incompreso fino ad oggi, che ci porta ad invecchiare. Dal punto di vista dei singoli organi, questo programma biologico può essere visto come il risultato dell’incapacità delle cellule di proliferare e di riparare i danni che normalmente si accumulano in tutti tessuti. Negli individui giovani, esistono molte cellule con capacità indifferenziata, o “staminale”, che sono in grado di moltiplicarsi e rigenerare i singoli organi; con il passare del tempo, il numero di queste cellule staminali diminuisce, e gli organi progressivamente invecchiano: questo è il motivo per cui le malattie di cui si occupa la moderna medicina sono prevalentemente dovute a patologie di tipo degenerativo. Tra queste, quelle delle arterie che portano all’arteriosclerosi e quindi alle malattie cardiovascolari, e quelle del cervello, responsabili di malattie neurodegenerative quali il morbo di Parkinson o il morbo di Alzheimer. Alla luce di queste osservazioni, non è quindi sorprendente che, negli ultimi cinque anni, la comunità scientifica abbia dimostrato un crescente interesse nei confronti delle potenzialità delle cellule staminali e della loro possibile applicazione in ambito clinico per la cura di queste malattie.
Classicamente il concetto di staminalità è stato associato all’embrione, una struttura formata da un numero esiguo di cellule che non hanno ancora intrapreso una precisa via di differenziamento, ma che nel corso dello sviluppo danno origine a tutte le cellule dell’organismo. Lo studio delle caratteristiche biologiche delle cellule embrionali staminali (cellule ES), condotto principalmente su embrioni di topo, rappresenta un eccitante campo di ricerca scientifica da alcuni decenni; un loro possibile utilizzo con finalità terapeutica è stato però prospettato solo alla fine degli anni ’90, quando per la prima volta si è dimostrato che anche le cellule che costituiscono l’embrione umano possono essere isolate e propagate in coltura per tempi indefiniti senza che esse perdano le proprie proprietà fondamentali, vale a dire lo stato indifferenziato e la totipotenza.
Alla fine degli anni ’90, lo sviluppo della tecnologia della clonazione somatica ha poi chiaramente indicato che cellule con le medesime proprietà di quelle embrionali staminali possono essere anche generate a partire dalle cellule somatiche, “invecchiate” di un organismo. Nell’esperimento originariamente eseguito nel 1996 che ha portato alla nascita della pecora Dolly, il nucleo di una cellula della ghiandola mammaria di una pecora adulta è stato trasferito all’interno di una cellula uovo di un’altra pecora, preventivamente svuotata della propria informazione genetica. L’oocita contenente il nuovo nucleo è stato quindi stimolato ed impiantato nell’utero di una terza pecora, la quale, dopo un normale periodo di gestazione, ha partorito un agnello apparentemente sano, la pecora Dolly appunto. Le implicazioni concettuali di questo risultato sono state enormi: per la prima volta si è dimostrato in maniera inequivocabile che il nucleo di una cellula adulta contiene esattamente tutta l’informazione genetica per generare un nuovo individuo. Ed inoltre, che esiste un programma genetico che in qualche maniera viene azzerato dal processo di trasferimento nucleare e che può ripartire per generare un nuovo individuo.
La clonazione di Dolly è stata accolta con vivissimo interesse da tutta la comunità scientifica: la clonazione sembra infatti la tecnica ideale per generare, da un organismo adulto, una grande quantità di cellule “giovani” che potrebbero essere utilizzate per la rigenerazione dei tessuti invecchiati. Di fatto, in seguito alla nascita di Dolly, simili esperimenti sono stati condotti, con percentuali variabili di successo, su molte specie animali, per cui fino ad oggi abbiamo assistito alla clonazione di topi, conigli, capre, mucche, maiali, gatti e persino scimmie: alla luce di questi risultati, non esiste alcun motivo di pensare che anche la clonazione dell’uomo sia qualcosa di tecnicamente non realizzabile. Ciò ha portato allo sviluppo del concetto di “clonazione terapeutica”, un termine con cui si vuole guardare alla clonazione come ad una tecnologia in grado di fornire una sorgente pressochè illimitata di cellule staminali da utilizzare per la terapia umana individualizzata. In quest’ottica un paziente affetto da una malattia degenerativa, ad esempio il diabete mellito, potrebbe decidere di donare una propria cellula (una cellula del sangue, un fibroblasto cutaneo, etc.) da utilizzare per la produzione di un embrione, il cui unico scopo di esistere sarebbe quello di fornire delle cellule staminali, che potrebbero essere mantenute ed espanse in coltura, per poi essere fatte differenziare nel tipo cellulare necessario al paziente stesso (in questo caso le cellule del pancreas che producono l’insulina, che sarebbero alla fine reimpiantate nel paziente), curando così la sua malattia. Lo stesso concetto potrebbe essere trasposto a diverse altre malattie degenerative, tra cui, ad esempio, il morbo di Parkinson, lo scompenso cardiaco, la cirrosi epatica.
Infine, in un crescendo scientifico molto esaltante, nel 2006 un gruppo di ricercatori giapponesi ha dimostrato per la prima volta che il nucleo di una cellula, per essere riprogrammato e diventare quello di una cellula embrionale staminale, non necessita di essere trasferito all’interno di un oocita, ma che lo stesso effetto può essere ottenuto trasferendo al suo interno i geni che codificano per 4 fattori di trascrizione (i fattori Oct3/4, Sox2, c-Myc e Klf4), ovvero proteine cellulari in grado di cambiare il profilo di espressione dei geni della cellula, rendendola appunto identica ad una cellula staminale embrionale. Le cellule ottenute in questa maniera, chiamate cellule iPS (induced pluripotent stem), sono virtualmente identiche a quelle che si producono nell’embrione nelle prime fasi di sviluppo dopo la fecondazione.
Cellule embrionali staminali derivate direttamente dagli embrioni, oppure generate mediante clonazione tramite trasferimento nucleare, oppure ottenute grazie alla tecnologie delle cellule iPS possono essere analogamente essere espanse in coltura, indirizzate a differenziarsi verso un particolare tipo di cellule, e reinfuse quindi in un organo degenerato di un paziente anziano al fine di consentirne la rigenerazione. Ad esempio, un paziente con infarto del miocardio potrebbe ovviare all’intrinseca incapacità dei cardiomiociti (le cellule contrattili del cuore) di replicarsi e rigenerare la porzione di cuore danneggiata mediante il prelievo di una biopsia cutanea, seguita dal trasferimento, all’interno dei fibroblasti della pelle, dei quattro fattori di trascrizione in grado di generare cellule iPS. Queste cellule sarebbero poi espanse in laboratorio e stimolate a diventare cardiomiociti. Questi, infine, sarebbero iniettati nel cuore del paziente a sostituire le porzioni danneggiate dall’infarto. Analoghe strategie possono essere disegnate per la rigenerazione di una serie di altri organi e tessuti.
In questo contesto, è immediatamente importante osservare che siffatte tecnologie sono oggi soltanto abbozzate, e che non esistono ancora applicazioni che garantiscono il successo terapeutico di quanto si comincia a sperimentare nel topo o in altri modelli animali. Tuttavia, la barriera che ne previene ancora l’applicazione all’uomo sembra essere di ordine soltanto tecnologico e non concettuale, ed esistono pochi dubbi che essa possa essere rapidamente superata in un arco di tempo di pochi anni. Lo scenario che ne consegue è quello di uno sviluppo importante di una medicina di tipo realmente rigenerativo, in grado di mantenere funzionanti organi essenziali per la sopravvivenza degli individui, tra cui appunto il cuore ed il fegato, “ringiovanendoli” progressivamente mediante l’infusione di cellule derivate da quelle staminali.
In questo scenario incoraggiante e, per molti versi, entusiasmante, si inserisce tuttavia l’importante problema dell’invecchiamento cerebrale. I neuroni del sistema nervoso centrale sono tipicamente cellule altamente differenziate, la cui capacità di proliferazione cessa completamente dopo la nascita. Inoltre, un vasto numero di neuroni muore progressivamente durante il corso della vita. Alcuni studi indicano che ogni individuo possiede, alla nascita, circa 19-22 miliardi di neuroni nella corteccia cerebrale, di cui ne vengono perduti, in condizioni fisiologiche, più di 80.000 al giorno, quindi con una perdita complessiva che, all’età di 80 anni, riduce di più del 10% il contenuto neuronale neocorticale. D’altra parte, negli individui adulti, al di fuori di poche aree dove apparentemente esistono cellule potenzialmente in grado di proliferare e differenziarsi in nuovi neuroni (cellule staminali neuronali), la vasta maggioranza delle regioni del cervello non possiede alcuna capacità di rigenerazione.
Oltre a questo depauperamento neuronale fisiologico, una serie di malattie specifiche causa un’accelerazione patologica della perdita dei neuroni, determinando quindi l’insorgenza di vere e proprie malattie neurodegenerative. Queste sono caratterizzate da una perdita neuronale più o meno diffusa, che può interessare determinati tipi neuronali (ad esempio, i neuroni colinergici nel morbo di Alzheimer o i neuroni motori nel caso della sclerosi laterale amiotrofica) o determinate aree cerebrali (ad esempio i neuroni dopaminergici della substantia nigra nel morbo di Parkinson).
Mentre è certamente possibile sviluppare protocolli per la produzione di neuroni “giovani” a partire da cellule staminali embrionali (ottenute dall’embrione, tramite la clonazione, o mediante la tecnologia delle cellule iPS), appare tuttavia difficile in questo momento immaginare che il loro impianto nel cervello di individui con un progressivo depauperamento delle funzioni cerebrali possa essere di beneficio significativo, in quanto le funzioni cerebrali dipendono in maniera stretta dalle connessioni funzionali che ciascun neurone ha instaurato con moltissimi altri, connessioni di cui poco si conosce e che sembra comunque molto difficile poter ricreare nella vita adulta. In altri termini, indurre la rigenerazione funzionale di organi quali il cuore ed il fegato pare un approccio realisticamente perseguibile, in quanto la funzione meccanica nel primo caso e biochimica nel secondo viene mantenuta anche da ciascuna delle individuali cellule di questi organi (il cardiomiocita e l’epatocita rispettivamente). Al contrario, rigenerare il cervello va ben al di là di produrre singoli neuroni in coltura, e richiede la generazione di una rete combinatoriale tra queste cellule che non sembra al momento riproducibile.
Alla luce di queste osservazioni, quindi, qual è l’impatto di queste terapie rigenerative e “ringiovanenti” sulla società? Uno scenario plausibile cui saremo esposti in un futuro ormai prossimo sembra essere quello di una società in cui molti individui avranno funzioni biologiche conservate grazie all’introduzione delle cellule staminali, ma che ineluttabilmente andranno incontro ad un progressivo depauperamento della funzione cognitiva. Questo scenario sembra davvero preoccupante, considerando che già ora, nei Paesi Occidentali, il progressivo invecchiamento generale della popolazione sta aumentando in maniera estremamente significativa la prevalenza delle malattie neurodegenerative, che insieme alle malattie neurologiche di origine vascolare (ictus) ormai sono da annoverarsi tra le prime quattro cause di morte e di invalidità. Ad esempio, si stima che tra 6 e 7 milioni di individui siano già attualmente affetti dal morbo di Alzheimer (la principale causa di demenza) nell’Europa Occidentale, mentre la prevalenza di questa malattia raddoppia ogni 5 anni in persone oltre i 65 anni, fino a raggiungere 1 persona su 3 negli ottantenni.

Mauro Giacca:  Direttore della componente di Trieste dell’ICGEB (International Centre for Genetic Engineering and Biotechnology), Padriciano 99, 34012 Trieste, e-mail: giacca@icgeb.org