Atteggiamento verso la vita lavorativa tra i pensionati
«E’ importante sottolineare che ciò che sta realmente invecchiando è il concetto stesso di invecchiamento» (Orio Giarini, 2001).
1. Introduzione
Per preparare i programmi di svecchiamento dell’età pensionabile si rende necessario sapere come è vista nella società l’età del pensionamento. La discussione sui temi riguardanti l’età pensionabile è determinata dalla convergenza di più fattori primo tra i quali il prolungamento della speranza di vita, la denatalità e l’instabilità economica.La vecchiaia sta diventando un’opinione anche se nella vita contemporanea si assiste a una moltiplicazione delle fasi del ciclo di vita che diventano più ristrette nel tempo rispetto a quelle tradizionali che vedevano l’infanzia, l’età adulta e la vecchiaia come le tre tappe che scandiscono il ciclo della vita.
La frammentazione più forte si è avuta, in Occidente, nella prima parte dell’esistenza umana che è stata suddivisa in una pluralità di fasce che hanno intaccato il periodo adulto ricavando da esso la preadolescenza e l’adolescenza, ma non solo, sono stati scoperti anche i giovani e i cosiddetti giovani-adulti in un percorso totale che va dagli 11 ai 34 anni. Tale avanzamento è dovuto, in gran parte, proprio all’ampliamento delle fasce della gioventù che hanno eroso l’età adulta. Lo stato dell’adolescente si basa su un duplice aspetto: di transito e di raggiungimento dello stato di adulto. La fase del giovane-adulto non è un’estensione di due fasi della vita, ma è uno stadio della vita che ha la specificità di essere un passaggio tra due condizioni presenti contemporaneamente. Si deve, tuttavia, considerare che nella società contemporanea il diventare adulti ha subito “una decelerazione temporale”. Questo evidenzia come la transizione verso uno stato adulto si stia progressivamente frammentando in una sequenza interconnessa di singole tappe che seguono differenti modelli sociali e temporali che portano con sé crescenti incertezze (Scabini, Donati, 1988). Lo stesso si può dire della categoria unica di “vecchiaia”. Se l’età adulta è stata spinta più in là, in quanto ci si sposa più tardi e si è indipendenti più tardi, anche il pensionamento tende a spostarsi più tardi e i 60 anni circa stabiliti in passato per limitare il periodo lavorativo, tende a spostarsi oltre, favorito dall’allungamento della vita biologica. Si può sottolineare il fatto che nel mondo d’oggi anche il periodo che, fino a pochi decenni fa, corrispondeva a una “vecchiaia” indistinta, oggi si è frammentato in diverse fasce, proprio come il primo periodo della vita. La differenza sta nel fatto che ciò che è stato aggiunto è l’attualizzazione di una speranza di vita, un tempo, non pensabile.
L’età adulta è caratterizzata dall’attività della pienezza della vita che, come detto, si prolunga come speranza di vita verso e oltre gli ottant’anni. Tale situazione può portare a due posizioni tra loro opposte rappresentate dal desiderio di pensionamento per poter vivere per alcuni decenni, non più per alcuni anni, esentati da obblighi lavorativi; oppure prolungare l’attività quando il lavoro che si è svolto per 30-40 anni è stato gratificante e non pesante manualmente.
Il fatto che “anziani si diventa” è la conseguenza del processo inevitabile della vita e non uno stato. L’interesse per ciò che riguarda l’invecchiamento è dovuto all’innalzamento dell’età media: più persone giungono e sorpassano la soglia della vecchiaia. Si entra nella vecchiaia a 65 anni per l’Istat, ma è difficile rispondere alla domanda se un sessantacinquenne è vecchio. Il gruppo sociale degli anziani, a causa del maggiore benessere dovuto sia a condizioni economiche che di salute, si è ampliato notevolmente.
La consapevolezza che nella vita c’è un’ultima età porta ad avere paura, porta a quello che viene definito il “terrore primordiale”, più presente nella vecchiaia che in altri stadi della vita umana. Si supera tale timore “tirandosi fuori”: gli altri sono vecchi, la propria vecchiaia viene negata. La terror management theory postula non solo reazioni individuali alla minaccia indotta dal pensiero della mortalità, ma soprattutto visioni del mondo, costruzioni culturali collettive che hanno lo scopo di limitare l’impatto di questa minaccia sul funzionamento “normale” della società” (Deponte, 2008, p. 71). Il fattore cultura, ovviamente condiziona il vissuto che accompagna l’invecchiamento, a tal proposito Baltes (1997) parla della necessità di far crescere la cultura della terza età proprio perché è l’accumulo di cultura ad aumentare l’aspettativa di vita e lo sviluppo della sua qualità. Un secondo motivo è che la cultura può allargare la mente, rendere flessibile il pensiero e, in definitiva, far vivere di più e meglio.
La categoria degli anziani è molto differenziata al suo interno a causa di caratteristiche sociali e bisogni individuali, tanto che non è appropriato parlare genericamente di “anziano”. Baltes e Smith (2003) consigliano di parlare di anziano-giovane e di anziano-anziano (è interessante a tal proposito la necessità di parole nuove per non ripetere i concetti e trasformali in metafore in attesa della maturazione del termine appropriato). Il passaggio dalla vita adulta alla vecchiaia è questione di eventi, anche se la vecchiaia è causata dal passare degli anni. Un anziano giovane deve fronteggiare l’adattamento al ritiro dal lavoro e alla modificazione del nucleo familiare; l’anziano-anziano si trova davanti il bilancio esistenziale, con risorse limitate. Concordiamo sul fatto che si può parlare non tanto di “anziano-tipo”, ma di “tipi di anziani”, tanti quanti sono gli anziani. L’individualizzazione caratteristica dell’attuale società porta anche a questo.
Sembra ormai superato lo stereotipo del vecchio saggio da una parte e del vecchio pazzo e decrepito dall’altra. Schmidt e Boland (1986) osservano che sulla base del ruolo sociale rivestito dalla persona anziana vengono creati stereotipi diversi per cui possono essere identificati il “cittadino anziano”, il “nonno”, l’“anziano uomo di stato”, ciascuno con caratteristiche proprie (Deponte, 2008, p. 73). In una ricerca del 1982 è stato rilevato che gli operatori per gli anziani hanno una visione molto negativa e stereotipata dell’anziano. Tuttavia a seconda della denominazione linguistica, l’etichetta applicata alla persona assumeva caratteri positivi o negativi in gradi diversi. Utilizzando i termini “anziano/a”, “pensionato/a”, “nonno/a”, “persona oltre i 65 anni”, “persona oltre i 75 anni” è emerso che solo “nonno/a” aveva un valore completamente positivo e solo le “persone oltre i 75 anni” ce l’avevano completamente negativo (Cuberli et al., 1982).
Nel 1951 gli anziani, cioè le persone con 65 anni e oltre erano l’8,2% della popolazione; nel 2006 sono gli individui con più di 76 anni ad essere l’8,2% della popolazione. Negli ultimi 55 anni la quota di popolazione anziana si presenta più che raddoppiata essendo pari al 19,7% della popolazione (con una maggiore longevità femminile).
Se si considera l’indice di dipendenza come indicatore sintetico dei problemi di sostenibilità legati alla variabile età si può notare come tale indice sia scomposto a sua volta in due sotto indici uno relativo alla quota di popolazione giovane e dipendente (green pressure), rispetto alla popolazione attiva; l’altro relativo alla popolazione anziana (grey pressure). La somma degli indici dà l’indice di dipendenza cioè del peso che grava sulla popolazione attiva in termini demografici. La prima è correlata ad alti costi per l’istruzione, la seconda è associata ai costi per salute e pensioni (Castagnaro, Cangiano, 2008, p. 78).
2. L’atteggiamento verso la vita lavorativa nel tempo
Lo scopo di un lavoro pubblicato nel 1989 era di dare una risposta alla domanda “Perché lavoriamo?”. Il lavoro è un comportamento umano complesso che “producendo un risultato esterno barattabile, consente al suo autore di procurarsi in modo indiretto la soddisfazione dei bisogni fondamentali” (Gabassi et al., 1989, p. 19; Garelli, 1984). Le fasce lavorative più basse non sono, generalmente, in grado di ricavare dal lavoro che svolgono gratificazione a tutti i bisogni percepiti in quanto tali come possono essere, ad esempio, i bisogni di realizzazione. L’individuo ricorre a espedienti esterni e lontani dal lavoro per compensare la dimensione socio affettiva della quale egli è privato nella condizione lavorativa.
La contemporaneità porta la maggior parte dei lavoratori ad afferire al lavoro secondo leggi di mercato più che in base a una naturale e spontanea manifestazione vocazionale. Solo pochi fortunati pervengono alla maturità lavorativa o non lavorativa per libera scelta: la grande maggioranza procede, più o meno consapevolmente, valutando le opportunità differenziali fornite dalla conoscenza di sé e dalla realtà esterna.
Il fattore generazionale si rileva importante da un punto di vista strutturale (emarginazione dal lavoro) ma anche da quello culturale in quanto la socializzazione delle giovani generazioni è diversa rispetto al passato. La crisi o il rifiuto del lavoro sarebbe il risultato di una progressiva perdita di soggettività con il conseguente spostamento del focus esistenziale su altri valori. Questo succede nei giovani per i quali il lavoro occupa una posizione non centrale, anche se preminente nella scala dei valori.
La gamma dei vissuti individuali della propria esclusione dal mondo lavorativo e l’esperienza soggettiva dell’inoperosità generano inevitabilmente un’altrettanto varia gamma di percezioni del lavoro e di aspettative.
Rapportarsi al lavoro in termini di impossibilità ad agire nel mondo produttivo implica una riconsiderazione della propria identità, autostima e riconoscibilità di sé in un mondo in cui il lavoro è socialmente importante. La conseguenza è una sofferenza implicita di chi non è ancora o non è più occupato (Gabassi et al., 1989, p. 36).
L’ethos dominante è di valutare positivamente chi lavora, mentre chi non lavora viene ritenuto incapace di adattarsi al lavoro stesso e, se per la categoria dei giovani la dicotomia lavoro-non lavoro è valutata molto negativamente, per la categoria degli anziani è quasi una calamità necessaria. Lo stesso termine “flessibilità” collegato alle caratteristiche post-moderne del lavoro viene inteso con un’accezione di negatività-instabilità e non con l’aspetto positivo di creatività. Considerare il lavoro non più centrale significa supporre che “un tempo” lo sia stato. Tuttavia ciò non è verificabile, ma solo ipotizzabile utilizzando le categorie attuali. Il passaggio dalla centralità alla non centralità viene realizzato quando il lavoro da dovere diventa diritto, in tal modo ne viene messa in luce la necessità sociale che implica tutti indipendentemente dall’età (Romagnoli, 1984).
Per questo è stato utile nel 1989 analizzare l’atteggiamento dei lavoratori giovani e anziani nei confronti del lavoro. Non è possibile infatti omologare l’atteggiamento verso il lavoro delle diverse età della vita. Il lavoro connota socialmente l’età adulta attribuendo al lavoratore nuovi status e nuovi ruoli, assegnandogli un’immagine di sé rafforzata dal fatto di essere socialmente “a posto”.
Nell’ambito di una vasta gamma che percorre il continuum lavoro-non lavoro, esistono solo due status accettati socialmente, per coloro che non hanno lavoro, corrispondenti il primo alla ricerca di un posto di lavoro, che può essere il primo, ma anche un altro lavoro nel caso si sia perduto il primo; il secondo nell’inabilità al lavoro.
Chiedere “Che lavoro fai?” equivale a chiedere “Chi sei?”, tanto l’esperienza lavorativa influenza profondamente il soggetto, le sue aspettative, quelle della società e il suo stile di vita.
Si deve considerazione il fatto che coloro che raggiungono oggi i 65 anni sono nati nel secondo dopoguerra e sono stati giovani durante il boom economico degli anni 60, periodo in cui tali soggetti hanno vissuto un’esperienza lavorativa assai diversa dai loro padri. Già in una ricerca del 1984 (Cortellazzi, 1984) rileva che le persone soddisfatte del loro lavoro sono in numero superiore alle persone insoddisfatte e sembra anche sussistere una correlazione positiva tra soddisfazione del lavoro con caratteristiche di creatività che consentono relazioni interpersonali. Nelle ricerche precedenti al 1984 non si trova mai l’indicazione della soddisfazione del lavoro, quasi non fosse importante come aspetto integrante del lavoro umano.
Mariselda Tessarolo: Professore ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi e di Sociologia della comunicazione, Università di Padova.
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