Capitolo 8: Il quarto pilastro alla conquista di 15 anni di vita
Da una ventina d’anni, il concetto di capitale umano è diventato sempre più popolare fra gli economisti. Era ora!
Per capitale umano, si intende il fatto che ogni essere umano è depositario di un capitale personale fatto di esperienza, di conoscenze, d’intelligenza e di spirito. È la prima delle risorse. È il punto di partenza di tutto ciò che viene chiamato processo di civilizzazione, malgrado questo sia ancora lungi dall’aver raggiunto un livello accettabile. È il fattore principale di produzione economica, ed anche artistica, tecnologica, scientifica e sociale.
In questo senso molto lato, siamo quindi tutti capitalisti, più o meno dotati. E si può estrapolare l’idea che questo capitale umano sia quello che ha spinto l’uomo primitivo ad intagliare una pietra per farne un coltello, poi ad accendere il fuoco e ad inventare successivamente la ruota, per arrivare al violino, all’aereo, alle telecomunicazioni, attraverso una lunga serie di civiltà e di forme d’arte. Senza dimenticare i momenti di crisi, le guerre, i disastri naturali e quelli provocati dalla nostra specie. Ma, finora, ci siamo ripresi.
Durante la Rivoluzione Industriale, una particolare forma di capitale è venuta alla luce, quella rappresentata dall’accumulazione del denaro. L’origine di questo fenomeno è facile da capire: l’uomo della Rivoluzione Industriale aveva bisogno di dedicarsi sempre più alla fabbricazione di strumenti per rendere più efficaci tutte le attività economiche. Ci vuol poco per fare archi primitivi e frecce, mentre la costruzione di una locomotiva richiede più tempo. Si affaccia così un problema “logistico”: non si possono consumare gli strumenti ma coloro che li producono devono comunque sopravvivere. È dunque necessario prelevare – o risparmiare – una parte del consumo corrente affinché tutto il sistema possa funzionare. Il denaro è stato indispensabile per poter operare questi trasferimenti. Il risparmio in forma monetaria diventa “capitale” per l’investimento, per poter produrre delle apparecchiature.
Il concetto di capitale umano ci propone d’altronde di nuovo e implicitamente l’idea del valore umano dell’attività economica, così come l’ha definito Adam Smith, fondatore della prima teoria coerente dell’economia, più di due secoli fa.
Oggi, il capitale monetario subisce l’evoluzione dell’economia. Durante l’epoca d’oro della Rivoluzione Industriale, l’essenziale era poter organizzare l’investimento produttivo. Oggi, in un’economia dominata dalle attività di servizio, il risparmio viene sempre più utilizzato per affrontare dei costi di “riparazione e manutenzione”, per pagare le spese sanitarie, le pensioni, gli incidenti, i rischi naturali ed umani. Si tratta soprattutto di riserve accumulate da una grande varietà di istituzioni assicurative o previdenziali, pubbliche e private. Il punto di riferimento per l’utilizzazione del capitale monetario non è più soltanto l’investimento in beni di produzione ma sempre di più in attività di “manutenzione”, basate su spese future per degli accadimenti più o meno probabili.
Ma torniamo agli esseri umani, al capitale che rappresentiamo sia come individui che come collettività. Fondamentalmente, siamo dunque tutti capitalisti in partenza. Il grande interrogativo è quello di sapere se questo capitale ha delle opportunità di sviluppo, di arricchimento. Il capitale umano può schiudersi in forme e condizioni diverse. Può anche essere usato male, sia a causa di obblighi sociali soffocanti che della nostra mancanza di volontà.
Esiste un tipo di spreco del capitale umano che questo libro ha l’ambizione di denunciare, ed è quello di tutta la popolazione che tra i 60-65 e gli 80 anni è ancor oggi troppo spesso relegata nella categoria dei “vecchi”. È uno spreco palese che, tenuto conto dei cambiamenti nel ciclo di vita delle persone, non si dovrebbe più tollerare.
Queste le ragioni per la perorazione proposta nel capitolo seguente finale sotto forma di lettera aperta, affinché i comportamenti possano cambiare. Si tratta di una duplice battaglia. Da un lato e nella grande maggioranza dei casi, la società nella quale viviamo è organizzata nella pratica quotidiana e nelle sue reazioni psicologiche, secondo le vecchie abitudini che collocano gli ultra-sessantacinquenni tra i “vecchi”, cioè le persone che sono più o meno “fuori giro”. Ci hanno talmente detto e ripetuto per decenni che a 65 anni eravamo “vecchi” che siamo spesso tentati di crederlo.
Sottoposti a una tale pressione, rischiamo talvolta di accettare questo ruolo di “vecchi” che corrisponde in effetti a dei pregiudizi sociali ma che coincide sempre meno con le nostre possibilità, con il valore reale del nostro capitale personale. Certo, non è sempre facile e le cose non funzionano automaticamente. Bisogna accettare una certa diminuzione della forza e del vigore fisico, ma è forse “vecchio” un tennista di 30 anni solo perché non riesce più a vincere dei tornei contro un giovane avversario diciottenne? È d’altronde la ragione per cui, approfittando delle possibilità della società e dell’economia moderna fondate sulle attività di servizio, è essenziale considerare il lavoro a tempo parziale o part-time come la vera base dell’occupazione.
Se i giovanissimi commettono spesso degli sbagli di inesperienza – come si suol dire – le persone più anziane devono essere assolutamente capaci di sbarazzarsi di ogni tentazione verso gli errori di “eccesso di esperienza”. Si tratta di tutti quei casi in cui la cosiddetta esperienza serve da scusa per non ascoltare o prendere in considerazione altre prospettive. Bisogna sempre saper scegliere: la carrozza a cavalli va benissimo, così come la gondola a Venezia, e bisogna preservare entrambi ma non fino al punto di disapprovare qualsiasi altro mezzo di trasporto. Bisogna cogliere l’opportunità offerta dai nuovi computer per farsene spiegare dai giovani il funzionamento: un’ottima occasione per instaurare un dialogo di fiducia tra le generazioni e per sentirci tutti più “produttivi”!
Un giorno, venticinque anni fa, aspettavo il bus a una fermata dietro la quale si trovava una scuola di vela. In vetrina, c’era un cartellone che diceva “Imparate ad andare a vela – subito!” Il bus non arrivava ed io entrai. In fin dei conti, perché no, e mi sono iscritto. Francamente, non avevo previsto che, alla prima lezione, tutti gli altri allievi avrebbero avuto meno di 16 anni. Erano un po’ meravigliati ma fieri di eseguire tutte le manovre più velocemente di me. Un po’ lento, il “vecchio”. Ma, perché no, ero fiero di aver sfidato un’abitudine e un atteggiamento, senza pensarci. Un sorrisetto divertito compensava la mia mancanza di elasticità.
Superai brillantemente l’esame finale, malgrado un tempo orrendo sul lago non avesse nemmeno permesso al poliziotto di salire sulla barca. Correttamente, facevo tutte le manovre con molta calma.
Impariamo quindi, in età matura, ad eliminare certe esperienze o certi atteggiamenti acquisiti che bloccano come una zavorra tutti i nostri possibili slanci. Anche i giovani devono imparare. Allora, approfittiamo insieme dell’opportunità. Sta a noi accettare, nell’ambito dei nostri limiti riconosciuti, tutte le occasioni che si aprono. E cominciamo con l’adattare i mezzi di apprendimento alle nostre necessità. Per esempio, esplorando le possibilità della “Doppia Elica”.