Intermezzo: Dialogo sulla fondazione di una segreteria dell’incertezza
“Ha detto Ulrich, Ulrich Tuzzi?”
Dopo aver lasciato l’ufficio, ho impiegato circa un quarto d’ora per recarmi alla clinica delle Grangettes, a Chêne-Bougeries, un quartiere di Ginevra. Vicino al parcheggio della clinica, a ovest dell’edificio, ho trovato una vecchia casa a due piani, circondata da alberi tra i quali erano forse sopravvissuti quattro pini, già vecchi all’epoca, e due betulle descritte da Robert Musil nelle note relative agli ultimi anni della sua vita. A meno che, ovviamente, non fossero stati sacrificati per il parcheggio. Mi preparavo a verificare se la vasca a mezza luna esistesse ancora, quando notai la presenza di un amico, collega ricercatore del CERN (Centro Europeo per la Ricerca Nucleare). Era un fisico ed era accompagnato da una persona sulla quarantina, dall’aria decisa, con la fronte alta e capelli neri portati all’indietro. Entrambi sembravano cercare qualcosa nei dintorni della vecchia casa.
Una stretta di mano e poi il mio amico ha fatto le presentazioni: “Uno dei miei colleghi del CERN, Ulrich Tuzzi”.
Ha poi spiegato che erano venuti a vedere se fosse possibile affittare il pianterreno della casa, con veranda, per collocarvi la segreteria di un Centro di riflessione sull’incertezza.
“Vede, mi spiega Ulrich Tuzzi, qualche anno prima dello scoppio della Prima Guerra Mondiale alla quale avrebbe fatto seguito la fine dell’Impero austro-ungarico (sono viennese d’origine), mio nonno sognava di creare una Segreteria generale della certezza e dell’anima.
− Mi sembra di averlo letto da qualche parte…
− … ma non c’è riuscito. Voleva riconciliare la cultura e la tradizione scientifica europea che, da Cartesio a Newton e fino ai nostri giorni, non ha smesso di aumentare il divario tra l’anima e il corpo, tra la conoscenza, risultato delle scienze naturali, e – cosa molto più difficile da definire – quella generata dalla percezione artistica, tra la certezza e l’incertezza. Diceva spesso che nel suo universo, fino ad allora, ogni verità gli appariva come divisa in due mezze verità.
− No! non sarà proprio Lei, che lavora per un prestigioso centro di ricerca basilare, a dirmi che le scoperte della fisica moderna sono solo delle mezze verità!
− In un certo qual modo, sì. Alcune cose non erano così chiare all’epoca di mio nonno – epoca dominata dal positivismo e da un cumulo di unità cognitive assolute e universali. La scienza progredisce grazie a un processo di falsificazione, come diceva Popper. Essa studia le leggi di Newton, finché realizza che, in determinate condizioni, queste leggi sono parzialmente false. Fino al momento in cui Einstein arriva sulla scena e rivela che non sono completamente pertinenti. E poi, dopo Einstein arriva Heisenberg e poi Prigogine. La ricerca è un processo dinamico che non si ferma con l’acquisizione di dettagli eternamente validi. Ad ogni nuova sintesi, ad ogni nuovo dettaglio, il significato degli elementi della totalità e la teoria di riferimento saranno modificati.
− Ma una sedia sarà sempre una sedia, un albero un albero, un atomo un atomo.
− In un certo senso ed in certe condizioni, sì. Il principio dell’incertezza di Heisenberg ci porta a riconoscere che a livello dell’infinitamente piccolo, l’equivalente di una sedia può, in un determinato punto del tempo, apparire come qualcosa di assolutamente diverso.
− Ma è pur vero che la tecnologia diventa sempre più efficace e che io posso distinguere – per così dire – l’infinitamente piccolo sempre più chiaramente.
− Arriva un momento in cui il semplice fatto di osservare l’infinitamente piccolo lo modifica perché l’energia liberata dall’osservazione interagisce con l’oggetto osservato. Si procede ancora un po’ grazie ad alcuni modelli e formule matematiche, ma per ora la situazione è sempre più complessa e le numerose ipotesi sono spesso contraddittorie.
− Caro Signor Tuzzi, in questo caso, Lei mi sta forse dicendo che non esiste più nessuna differenza tra le scienze umane e sociali (nelle quali noi stessi siamo immersi) e le scienze naturali, soggette per definizione all’osservazione oggettiva e certa?
− Questa designazione ha i suoi limiti. Le scienze esatte e le scienze sociali si ritrovano sempre più frequentemente nella stessa situazione: hanno entrambe a che fare con dei gradi diversi di incertezza. Ma grazie a quest’ultima, abbiamo la possibilità di colmare il fossato che ottenebrava mio nonno. Ne risulta che è ormai possibile che la creazione di un Centro di riflessione sull’incertezza porti a qualcosa di cui la Segreteria generale della certezza e dell’anima sarebbe stata incapace all’epoca in cui si pensava che questi due poli fossero irrimediabilmente separati. È la ragione per la quale la Segreteria non ha mai visto la luce e mio nonno ha vissuto questo romanzo infinito, scisso dalle contraddizioni tra la natura dell’uomo e quella di una certa scienza positivista, all’inseguimento di una sintesi impossibile. Oggi tuttavia, si può mettere la parola “Fine” al romanzo, grazie a un’era nuova che si apre alla ricerca e alla conoscenza.
− Quello che Lei ora mi sta dicendo è che la vita di Suo nonno, o meglio il suo romanzo, arriva al termine proprio perché può continuare…
− Non si tratta di un paradosso. A questo proposito, Musil ha scritto che “gli uomini di questa natura esistono certamente oggi ma sono ancora poco numerosi e per questo motivo diventa difficile riunire ciò che è disperso”. Attualmente, una nuova cultura si sta sviluppando e diffondendo nel mondo, una cultura in cui diventa sempre meno comune incontrare degli elementi isolati. Una cultura nella quale si elabora una Nuova Alleanza e, come afferma il Nobel Prigogine, è la cultura di un processo d’integrazione e di costruzione.
− In effetti, mi sembra un po’ problematico che tutto ciò si realizzi a partire dall’incertezza, se la poca certezza che rimane nel mondo – alcune certezze scientifiche – si nasconde sotto i piedi. Immagino che Lei aggraverà semplicemente il caos e il sentimento di vuoto per le generazioni future.
− È proprio il contrario. Tutti i dogmi e le pseudo-religioni che si sono spesso trasformati in ideologie politiche, hanno completamente sfruttato il concetto di una scienza esatta, certa e ineluttabile. Ne hanno dedotto una massa di legittimazioni senza fondamento. Nel Medio Evo, le guerre e i massacri si giustificavano in nome di Dio. Altri massacri ancora più orribili sono stati perpetrati nel secolo scorso, particolarmente barbaro, in nome delle leggi scientifiche della società. Prima, il caos non era mai stato orchestrato con altrettanta efficacia.
− Ma come è possibile vivere e dare la vita proclamando che l’incertezza ha un valore positivo?
− Non si tratta di diffondere l’incertezza. Il problema è quello di riconoscere che la vita è incerta. Prima o poi, l’umanità deve decidere di creare un mondo realmente civile, costituito da gente che dia prova di maturità. Significa riconoscere la realtà. È un atto di coscienza culturale profonda, essenziale se vogliamo evitare le manipolazioni di coloro che ci propongono delle certezze definitive. Si tratta di imparare a vivere meglio, di assumersi le proprie responsabilità, di confrontarsi con l’incertezza e di accettarla. Sarà la migliore delle psicoterapie…
− Vedo… non per niente Lei è viennese…
− Sì, ma un viennese che accetta la realtà e che domanda anche che si faccia una rapida inchiesta su quanto vi è di falso in Freud.
− Devo ammettere, caro Signor Tuzzi, che sono un po’, anzi molto perplesso. Capisco che Lei provi molto affetto per Suo nonno. Ma non si potrebbe forse dire che il Suo atteggiamento è dovuto, in larga parte, a un mondo in crisi, a un mondo in decomposizione? Se ben ricordo, Suo nonno è vissuto a Vienna soprattutto durante gli anni che hanno immediatamente preceduto la caduta dell’Impero austro-ungarico. Il suo desiderio di fondare la Segreteria generale della certezza e dell’anima – spero che non me ne vorrà se parlo francamente – non veniva forse da un desiderio di sfuggire alla realtà, di prendere parte alla disgregazione politica del suo paese e anche, forse, di esserne in qualche misura responsabile?
− Evidentemente, l’Impero austro-ungarico era caduto in una grave crisi ed era incapace di far fronte agli sviluppi storici dell’epoca e in particolare all’ascesa dei nazionalismi.
− Un periodo che è durato svariate decine d’anni e che sembra essere coinciso con il grande sviluppo della Rivoluzione industriale.
− Esattamente. La logica di Cartesio e di Newton corrispondeva a quella della specializzazione industriale, della produttività della fabbricazione materiale, della specializzazione della popolazione e di conseguenza del nazionalismo e delle classi. Il dramma si è verificato quando la linea di demarcazione tra il conflitto e la dialettica si è infranta e la breccia è divenuta irreparabile. L’incompatibilità tra questi due poli è ancora una volta quella che esiste tra la certezza e l’anima. È il metodo cartesiano di suddividere il mondo e la vita che rivela un approccio intrinsecamente incapace di stimolare le differenze in senso positivo. Qui, in Svizzera, si accetta che lo Stato federale garantisca e protegga la sovranità e l’individualità dei cantoni. Questo sistema federalista combina, rinforzandole, l’autonomia e la sovrannazionalità. È la via sulla quale si sta forse incamminando l’Europa, per valorizzare i suoi popoli e le sue diversità.
− Ma uno Stato indipendente può almeno difendere la propria libertà.
− Dipende dalla sua forza. L’indipendenza dei paesi ineguali mette il debole alla mercé del più forte. Solo lo Stato più forte può forse credere di essere veramente indipendente. Ma è anch’esso vulnerabile in un mondo sempre più interdipendente. Esistono attualmente più di 150 Stati “indipendenti” nel mondo. Tutti rappresentano soltanto delle mezze verità mentre gli squilibri internazionali incarnano l’altra metà.
− Allora, per Lei, la caduta dell’Impero asburgico è stata un disastro storico. Non pensa che ciò manifesti un po’ di nostalgia da parte Sua? Lei non starebbe per caso creando il Suo Centro per commemorare l’anniversario della nascita di Francesco Giuseppe?
− Devo ammettere che Lei ha ragione su un punto. Da una parte, le numerose ragioni per le quali l’antico Impero degli Asburgo doveva sparire sono presto dette: la sua incapacità a presentare un piano valido di federalismo moderno, la sua gestione incerta degli effetti distruttori della Rivoluzione industriale, il maldestro rinnovamento delle strutture sociali… Tuttavia, dall’altra parte, è necessario sottolineare gli aspetti positivi della coesistenza dei vari popoli, senza dimenticare che la disintegrazione dell’Impero ha anche aperto la via al nazismo. Il punto essenziale consiste nel trovare in questa nuova cultura che si diffonde nel mondo, una nuova possibilità di superare la situazione attuale, di progredire, di ricreare un’immagine del futuro e delle opportunità che le vecchie culture e ideologie (che non sono più quelle dell’Impero austro-ungarico ma quelle che lo hanno distrutto) hanno sempre più difficoltà a promuovere.
− Al Suo Centro dell’incertezza non mancano certo delle ambizioni globali. Temo però che Lei stia cercando un tipo di umanità che semplicemente non esiste.
− Certo, vi è in questo una grande sfida da rilevare. Se nessuno lo fa, il nostro pianeta avrà difficoltà anche a sopravvivere decentemente, in preda a vulnerabilità di ogni sorta e provenienza. Ma è vero, è una questione di qualità umana, di buon senso e d’intelligenza.
− Tutto dipende da quello che Lei intende per qualità. Mio nonno era solito dire che non ne aveva nessuna. Rifiutava di vedersi confinato in una visione mozza della vita. Una vita a una sola dimensione, con una sola verità che assomiglia rapidamente a una forma di cecità. Possedere tante verità e sottoporle a verifica è molto meglio che avere una verità sola. L’essenziale è volerla o volerle migliorare.
− Forse è vero. Anch’io tenderei a definire me stesso come un uomo senza qualità.
− Se vuole aiutarmi per il Centro dell’incertezza, è il benvenuto.
Era scesa la notte e qualcuno aveva acceso le luci della veranda nella casa del chemin des Grangettes (n° 29, per l’esattezza).