Capitolo 1: Da Trieste al Texas
*** Le bombe hanno forse un senso?
“Mamma, perché dobbiamo morire?”. Era la tarda mattinata del 10 giugno 1944. Le bombe cadevano tutt’intorno alla casa dove abitavo, al quarto piano, in via Limitanea a Trieste. Dall’altra parte della strada c’era una fabbrichetta di carbone la cui ciminiera era stata bersagliata dagli aerei.
Le incursioni aeree venivano annunciate spesso, anche di notte. Le prime volte, scendevamo nella cantina del palazzo che era stata rinforzata con grosse travi a sostegno del soffitto per resistere meglio ai bombardamenti. Di solito, gli aeroplani si limitavano a sorvolare la città per andare poi a sganciare il loro carico in Germania o in Austria. Ci eravamo abituati a rimanere in casa nonostante le sirene d’allarme ma questa volta l’obiettivo era proprio Trieste.
Quel giorno, quasi una decina di bombe caddero in un raggio di duecento metri, alcune colpirono anche la fabbrica, due o tre centrarono in pieno alcune case situate lungo il viale nel quale si immetteva la via Limitanea. Una bomba cadde a un metro dall’ingresso principale di casa nostra: creò un piccolo cratere largo due metri e un po’ meno profondo.
Erano bombe piccole. Se non cadevano direttamente sulla testa o sul tetto di casa, facevano soprattutto un gran fracasso provocando un’onda d’urto che mandava in frantumi tutti i vetri delle finestre comprese le intelaiature. Le case però rimanevano in piedi. La bomba che era finita davanti al nostro portone permise a tutti i ragazzi del quartiere di fare una fantastica scoperta: aveva svelato un suolo fatto di terra argillosa, quasi una pasta per modellare come quella che i bimbi usano oggi per plasmare omini e animali. Era un vero dono del cielo per divertirsi in un’epoca in cui non era possibile nemmeno immaginare il consumismo.
Purtroppo però, quel bombardamento aveva provocato la morte di due persone. Mio padre era al lavoro nel suo ufficio al centro città, distante poco più di venti minuti a piedi.
“Mamma, perché dobbiamo morire?”. Ero con mia madre davanti alla porta d’ingresso dell’appartamento e, tra il sibilo delle bombe, le esplosioni, le scosse dei muri e del pavimento e soprattutto il rumore delle finestre che si fracassavano al suolo ricoprendolo di uno strato di frammenti di vetro, la mia domanda – che non ho mai dimenticato – non ha avuto risposta.
Non ricordo di essermi particolarmente spaventato o angosciato. Mi è stato detto più tardi che un bambino di 8 anni, in una situazione come quella, non si rende veramente conto né del pericolo né delle possibili conseguenze. È probabile. Eppure io conservo il ricordo – o si tratta forse di un miraggio? – di un sentimento di profondo stupore, perché avveniva un fatto simile, quali ne erano la ragione e la logica? perché, perché, perché? In realtà, la domanda non era dettata dalla paura ma da una forte curiosità. A meno che, come dicono gli psicanalisti, la mia reazione, o il mio ricordo, non fosse che uno stratagemma del mio subcosciente per resistere a una situazione insopportabile.
Scendemmo le scale fino al seminterrato, sollevando le finestre con tutti i telai ad ogni piano, in mezzo a un fracasso del diavolo ma senza procurarci neanche un graffio. Nella nostra casa di cinque piani non ci fu alcun ferito. Il bombardamento cessò quasi mezz’ora più tardi e mio padre rientrò illeso dal suo ufficio un’altra mezz’ora dopo. Ricordo che nel forno in cucina – dove c’era ancora come nei tempi antichi uno “spargher”, cioè una cucina in pietra e mattoni che funzionava a carbone – era rimasto un dolce e che fui dispiaciuto perché era ormai ricoperto da un alto strato di frammenti di vetro e di polvere.
Avevamo capito che, ogni volta che le sirene d’allarme segnalavano un’incursione aerea, dovevamo scendere rapidamente al riparo.
Talvolta, mi torna in mente un secondo vivido ricordo, di qualche settimana dopo. Ero sul tram numero 5 che scendeva verso il centro, quando un passeggero mi coprì improvvisamente gli occhi con le mani. Stavamo passando davanti ad un’autorimessa in cui i tedeschi avevano impiccato dei prigionieri come rappresaglia contro un attentato compiuto il giorno prima dai membri della resistenza. Oggi non sono del tutto sicuro se avrei voluto vederli. Comunque, non ebbi occasione di assistere personalmente ad altri eventi drammatici, in un periodo e in una zona in cui le violenze hanno battuto ogni record, anche il più funesto.
Questi due episodi mi hanno definitivamente convinto della capacità che hanno gli esseri umani di nuocere a loro stessi, cosa che ho sempre ritenuto non soltanto perfida ma anche – ed è quasi peggio – stupida.
“Perché, perché?”
Alla fine della seconda guerra mondiale, Trieste fu assoggettata ad un governo militare alleato (americano e inglese), fino al 1954. La città, a maggioranza italiana, e il territorio circostante, a maggioranza slovena e in parte croata, costituivano un oggetto di contesa fra l’Italia e la Jugoslavia. Il quadro d’insieme era quello della guerra fredda che aveva tagliato in due l’Europa, la cui frontiera finì per essere fissata a pochi chilometri dal centro di Trieste. Al termine di questo periodo, la città e soltanto una piccola parte del suo entroterra ritornarono all’Italia, mentre il resto andò alla Jugoslavia.