L’uscita del lavoratore anziano dall’azienda
1. Introduzione
L’invecchiamento della popolazione è una delle caratteristiche rilevanti delle società occidentali, sia per gli aspetti qualitativi che per quelli quantitativi. Ciò ha un impatto diretto nell’organizzazione del lavoro e nelle dinamiche che la regolano, dove l’età anagrafica è considerata uno dei principali riferimenti sia per entrare nel mercato, che per uscirne. La fissazione di limiti risponde alle esigenze di proteggere le fasce di popolazioni deboli dagli effetti negativi derivanti dall’attività lavorativa. Il limite in ingresso infatti protegge la fase di crescita e di sviluppo dei ragazzi e delle ragazze o più i generale degli adolescenti, permettendo loro di acquisire nel frattempo la preparazione sufficiente per svolgere proficuamente l’attività desiderata. Quello in uscita riguarda il lavoratore anziano, una categoria non facile da definire1, che assume comunque come riferimento il termine stabilito per il pensionamento; e in questo caso il limite ha lo scopo di esonerare le persone di una certa età dalla fatica e dalle responsabilità lavorative, restituendo loro, di fatto, la libertà di usare il proprio tempo.
Il parametro utilizzato in ambedue i casi e assunto dalle corrispondenti normative, è l’età anagrafica, un parametro che prescinde dalle effettive condizioni soggettive degli individui interessati e che uniforma i diversi trattamenti, evitando, in tal modo, le possibili discriminazioni prodotte dalle differenti circostanze in cui le persone vivono. In questo breve contributo si parlerà specificatamente del lavoratore anziano in rapporto al mercato del lavoro, visto sia nell’ultima fase della sua carriera lavorativa (definita anzianità lavorativa), che nel momento in cui vive il passaggio dal lavoro alla pensione.
2. Le ragioni e i significati della pensione
Le norme stabiliscono che le persone, al raggiungimento di una certa età, hanno il diritto di lasciare il lavoro, per godere dei vantaggi maturati proprio durante il tempo dedicato al lavoro stesso. La pensione quindi si traduce in un’opportunità di poter disporre di risorse economiche sufficienti per vivere, senza la necessità di impegnarsi per procurarsele; per certi aspetti si tratta di una specie di premio e di risarcimento riconosciuti alle persone, per aver contribuito, proprio attraverso la loro attività lavorativa, allo sviluppo economico e sociale di una comunità. Nel medesimo tempo, con la pensione si prende atto implicitamente, che l’avanzare dell’età produce una riduzione fisiologica delle energie e delle motivazione per lavorare. Non a caso nel linguaggio comune, almeno secondo la tradizione, l’età del pensionamento è detta anche l’età del riposo. Queste ragioni sono state alla base della nascita dell’istituto della pensione e della sua obbligatorietà e quindi della legislazione in materia di previdenza; aspetti che certamente hanno rappresentato una conquista sociale di grande rilievo nella storia economica e sociale dell’Occidente2. Tra l’altro, anche grazie a tali conquiste, che hanno modificato significativamente le condizioni della vita lavorativa, si sono creati contesti favorevoli a quel processo di allungamento della vita, a cui stiamo ancora assistendo. Eppure queste ragioni non hanno più quel valore pregnante di un tempo.
Esse non rispondono più in modo adeguato alle esigenze della realtà contemporanea, tant’è vero che non sono più in grado di interpretare efficacemente né i cambiamenti intervenuti nei processi produttivi, né lo sviluppo delle tecnologie e le nuove organizzazioni del lavoro, né il miglioramento obiettivo della qualità della vita anche dei lavoratori e quindi i mutati stili di vita, né i processi attraverso i quali le persone invecchiano e così via. Non è possibile, in questa sede, analizzare adeguatamente ognuno di questi aspetti, peraltro facilmente osservabili e percepibili nella realtà. Merita piuttosto sottolineare alcune criticità, che in qualche modo li riassumono e dalle quali i medesimi aspetti prendono origine:
● il lavoro, specialmente in alcune sue forme, non viene considerato soltanto “una maledizione biblica”, ma costituisce un “solido supporto identitario”3 per le medesime persone che lo praticano; detto in altre parole, il lavoro rimane certamente il principale strumento di acquisizione dei mezzi per soddisfare ai propri bisogni, ma nel medesimo tempo è un’espressione forte della propria personalità, delle proprie capacità ecc. Non quindi una semplice fatica, ma anche una modalità per autorealizzarsi;
● le condizioni in cui si svolge il lavoro sono decisamente migliorate a causa dei progressi tecnologici e quindi la rilevanza del fattore logorante, attribuibile al lavoro stesso, è notevolmente diminuita (almeno nella stragrande maggioranza dei casi); di conseguenza le condizioni generali di salute di una persona, al momento della pensione, sono complessivamente ancora buone e comunque tali da permettere una continuazione dell’attività lavorativa, senza che ciò comprometta o danneggi lo stato della salute.
Com’è facile capire, si tratta di aspetti che non trovano riconoscimento nelle premesse tradizionali appena citate e che male si conciliano, sia sul piano dei principi che su quello delle prassi, con la pensione, vista come interruzione obbligatoria dell’attività lavorativa. Emerge quindi un nuovo quadro di riferimento, per cui la fine del lavoro e la condizione di pensionamento non corrispondono più così linearmente ad una incapacità di lavorare o ad una convenienza comunque di uscire dal mercato del lavoro. In genere questo problema viene affrontato dal punto di vista della sostenibilità della spesa pensionistica e quindi delle caratteristiche che dovrebbe avere un sistema previdenziale per poter rispondere adeguatamente alle istanze per cui viene istituito. L’allungamento della speranza di vita infatti e il ritardato ingresso dei giovani nel mercato del lavoro hanno prodotto la crisi del sistema pensionistico fondato sulla retribuzione, per lasciare il posto, anche in Italia, al sistema contributivo, che meglio si addice alle esigenze della sostenibilità economica4. In tale prospettiva trova fondamento e ragioni anche l’ipotesi di posticipare l’uscita dal mercato delle persone anziane, per dare da un lato una maggiore consistenza all’entità dei contributi versati, aumentando di conseguenza il valore della rendita godibile in occasione della pensione e dall’altro una riduzione del periodo di godimento della pensione stessa, a causa della probabile diminuzione dell’aspettativa di vita nel momento dell’uscita dal lavoro5. Questa ipotesi incontra ancora molte opposizioni, in quanto viene percepita come un peggioramento della vita del lavoratore e la perdita definitiva del significato originario e simbolico della pensione, come premio-risarcimento al lavoratore.
In realtà il tema e i problemi che ne derivano sono molto più complessi e non si limitano al mero calcolo economico, perché incrociano direttamente le questioni connesse con l’invecchiamento e in particolare con l’invecchiamento attivo. Con questa espressione (Active Ageing), nel 1999 l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha inteso indicare l’invecchiamento come “processo di ottimizzazione delle opportunità di salute, partecipazione e sicurezza per migliorare la qualità della vita nel mentre una persona invecchia”. Poche parole per mettere in evidenza tre aspetti fondamentali:
● la processualità e la progressività dell’invecchiare, che impedisce di considerare la vecchiaia una semplice categoria o una condizione biologica o sociale;
● la multidimensionalità del processo, in quanto riguarda l’apparato fisico e biologico, ma anche le facoltà mentale e le relazioni sociali;
● la socialità del processo, che coniuga l’approccio individuale con quello sociale, collocando entrambi in una prospettiva sistemica e di responsabilità allargata.
Questo significa che lo svolgimento di un’attività in età anziana e l’assunzione di impegni e di responsabilità precisi influenzano positivamente la qualità dell’invecchiamento stesso, concorrendo a dare senso a detta età. Non è più consigliabile quindi associare all’età anziana la primitiva vocazione verso il riposo, come avrebbe potuto trasparire osservando il passato. Va chiarito fin da subito il possibile equivoco che l’affermazione precedente potrebbe creare, se si considerasse il concetto di attività (nell’età anziana) come attività lavorativa o peggio ancora come lavoro. Sarebbe una semplificazione che tradirebbe il significato che gli studi sull’invecchiamento danno al termine “attivo” (active ageing). Ma sarebbe altrettanto una semplificazione, se si separasse radicalmente l’attività svolta in contesti lavorativi, quindi dentro un’organizzazione, dall’attività svolta nei contesti propri della condizione anziana e del pensionamento.
La questione non è facile da spiegare, specialmente perché è impossibile o inopportuno fornire un’unica spiegazione, applicabile in tutti i casi. Invecchiare in modo “attivo” significa conservare interessi e progetti che richiedano azioni, materiali e immateriali, per perseguirli; significa riconoscere e valorizzare l’esperienza acquisita e comunicarla ad altri; significa coltivare il desiderio di apprendere e partecipare a programmi formativi; significa dare ascolto alla curiosità e cercare la modalità di soddisfarla; ecc. Il panorama che si profila è quindi ben diverso da quello che descrive l’attività che si svolge all’interno del mercato del lavoro. Inoltre è d’obbligo introdurre alcuni “distinguo”, che riguardano da una parte le specificità di genere, per cui uomini e donne non invecchiano in modo uguale; dall’altra le caratteristiche personali e professionali degli stessi lavoratori, che impediscono di considerare gli stessi tutti alla stessa stregua, semplicemente perché essi hanno la medesima età anagrafica. Infatti il lavoratore dipendente invecchia in modo diverso rispetto al lavoratore autonomo e non può esserci un unico modello che garantisca all’uno e all’altro di invecchiare in modo “attivo”; ciò vale anche per coloro che nell’attività lavorativa hanno impegnato maggiormente le facoltà intellettuali e mentali, rispetto a coloro che hanno esercitato lavori manuali; vale per coloro che hanno lavorato nel settore dei servizi, rispetto a quelli che sono stati occupati nell’industria ecc.
Pur nelle diversità è possibile però trarre una prima conclusione, comune a tutte le situazioni e cioè che l’attenzione verso l’invecchiamento attivo, come prospettiva e come obiettivo da perseguire, deve essere presente già durante la vita lavorativa e non nascere soltanto nel momento in cui il lavoro si interrompe. E questo perché l’invecchiamento si colloca nella continuità del ciclo di vita e perché i momenti di passaggio, che pure esistono tra una fase e l’altra, non possono essere, o essere vissuti, come altrettante rotture, ma come adattamenti richiesti dai nuovi contesti e dalle nuove condizioni che si presentano.
Allora si può affermare che l’invecchiare, oltre ad essere comunque un fatto e un’esperienza soggettivi che coinvolgono il singolo individuo, è anche una questione sociale che riguarda le scelte e le politiche delle istituzioni e delle organizzazioni del lavoro. Il tema non è così scontato come potrebbe sembrare a prima vista e spesso si rileva un’ambiguità di fondo proprio tra il permanere delle ragioni debitrici verso il passato e quelle che nascono sulla base delle riflessioni riguardanti il presente e, più ancora, il futuro6. Ambiguità che spesso rimangono ad un livello di latenza anche per l’obiettiva difficoltà di esplicitarne il contenuto. Questi argomenti saranno quindi ripresi anche nelle pagine successive, nell’intento di sostenere la loro importanza con qualche ulteriore riflessione teorica e con il contributo di alcuni risultati di ricerca.
Renzo Scortegagna: Università di Padova & Centro Studi “Alvise Cornaro”
1M. Colasanto e F. Marcaletti (a cura), Lavoro e invecchiamento attivo, FrancoAngeli, Milano, 2007, pag. 48.
2 Le prime norme istitutive la pensione di vecchiaia risalgono alla fine dell’800. I primi a beneficiarne sono stati i dipendenti pubblici e soltanto dopo qualche anno anche i lavoratori delle aziende private.
3 M. C. Bombelli e E. Finzi (a cura) Over 45. Quanto conta l’età nel mondo del lavoro, Guerini e Associati, Milano, 2006, pag. 36.
4 Il regime contributivo è in vigore per le persone assunte a partire dal 1996, per cui le effettive conseguenze si manifesteranno soltanto tra 15-20 anni.
5 L’aspettativa di vita a 65 anni in Italia, secondo i dati Istat del 2005 era per i maschi di 17, 4 anni e per le femmine di 21, 2 anni. Prolungando il tempo di permanenza al lavoro, alle condizioni attuali quindi, la speranza di vita si ridurrebbe, alleggerendo l’onere da sopportare per il pagamento della pensione.
6 Le posizioni sono molto diverse e le ricerche le evidenziano. Cfr. Partner Progetto Equal (a cura), Age management. Il valore dell’esperienza nelle organizzazione del lavoro, Angeli, Milano 2006, pagg. 102 e segg.
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