L’apprendimento contro l’invecchiamento. Le opportunità di formazione per gli anziani all’uso delle nuove tecnologie
1. Introduzione
L’allungamento della durata della vita ridisegnerà struttura e profilo demografico della nostra società e del sistema generazionale, con conseguenze sul sistema economico e sociale, rappresentando una delle grandi sfide per le società contemporanee. In questo contributo ci si soffermerà sulla riflessione che gli anziani debbano oggi essere considerati come un’area di popolazione eterogenea e sulla constatazione che molti di questi soggetti manifestano la capacità e la volontà di continuare a imparare per rimanere attivi. Gli anziani avrebbero, in particolare, il desiderio di apprendere conoscenze ed abilità che possano aiutarli a migliorare la qualità della loro vita, impegnare costruttivamente il loro tempo libero e considerarsi capaci di contribuire alle loro comunità di appartenenza. Tra queste attività, in alcune ricerche (Risi, 2007) abbiamo segnalato l’aumento di “domanda” di corsi per apprendere l’utilizzo di computer e Internet, a fronte dell’importanza assunta da queste tecnologie nella società attuale.
Da un punto di vista progettuale, ciò comporta la necessità di un ripensamento delle politiche sociali per quanto riguarda le attività di formazione.
Gli interventi per la creazione di attività che sostengano il passaggio da un impegno di lavoro ad una condizione di quiescenza e favoriscano l’invecchiamento come risorsa attiva sembra ancora tiepido. Le Università della terza età, come luoghi di relazioni, sostitutivi all’azienda (Rossi, 2002), stanno occupando un posto rilevante nel cosiddetto lifelong learning, affiancando e integrando le iniziative pubbliche presenti sul territorio. Oltre alla riflessione teorica, in questo paper verrà descritta una mappatura quantitativa e qualitativa (frutto di una ricerca esplorativa) delle iniziative di formazione promosse dagli enti pubblici locali e dei corsi offerti dalle Università della Terza età, in particolare volti a favorire l’avvicinamento da parte degli anziani alle nuove tecnologie ed il loro utilizzo.
2. Dallo stereotipo all’eterogeneità: una sfida economica, culturale e sociale
Il modo in cui i governi e i soggetti economici osserveranno e gestiranno gli effetti del processo di allungamento della durata della vita, attraverso l’attuazione di strumenti ad hoc, diviene sempre più rilevante. Le preoccupazioni sulle politiche sociali dei governi dei Paesi industrializzati sono spesso caratterizzate dai timori sugli effetti “negativi” in termini di spesa pubblica, distogliendo invece lo sguardo dell’importanza di legare la sostenibilità finanziaria a maggiori opportunità di attività lavorative e partecipazione sociale per le persone più anziane.
Nell’immaginario culturale, infatti, la condizione anziana è associata all’idea di un generale processo di decadimento, derivante da una progressiva perdita sia di funzionalità psico-fisiche, che sociali e produttive. I tratti che più frequentemente si attribuiscono alle persone anziane sono quelli di debolezza e disimpegno, a partire dal fatto che la nascita della separazione dell’anzianità dall’età adulta, è ancorata alla fuoriuscita del soggetto dal sistema produttivo. Si tratta di un immagine stereotipizzata e tipicamente “moderna”, ascrivibile allo sviluppo della società industriale e ai suoi valori guida (Cesa-Bianchi, 2003), e divenuta inadeguata nell’attuale economia basata prevalentemente su attività di servizio.
E’ importante riconoscere che nella nostra cultura ci sono dei processi che vengono correlati con lo stadio di età delle persone: si può essere “troppo giovani” o “troppo vecchi” (per guidare, per sposarsi, per imparare…) per assumere determinati ruoli e per usufruire di alcune opportunità. Gli anglosassoni usano spesso il termine ageism per riferirsi alla discriminazione esercitata da uno o più gruppi di età, nei confronti di altri gruppi. In occidente è in genere riferita agli anziani, che nella nostra società hanno la collocazione più bassa di qualsiasi altro gruppo adulto. Anche se si evidenzia ancora una difficoltà a superare l’arbitraria divisione della popolazione in segmenti d’età d’origine produttivistico-industriale, l’identità “monolitica” della condizione anziana è stata messa, negli ultimi decenni, in discussione a favore di modelli esplicativi, che appaiono quindi più adeguati.
Le trasformazioni complessive che hanno caratterizzato le diverse sfere della società, secondo una logica di crescente complessificazione della vita sociale, concorrono a determinare una pluralità di percorsi di invecchiamento. La frammentazione e la dinamicità di un insieme di fattori d’ordine culturale, istituzionale ed economico hanno favorito la compresenza di aspetti della vita che consentono anche alle persone anziane d’età avanzata di occupare contemporaneamente ruoli sociali differenti, rendendo assai labili e difficilmente identificabili i confini stessi della “generazione anziana”. La condizione anziana diventa quindi un composito in cui convivono, più che diverse coorti, diversi profili generazionali in senso proprio (Facchini e Rampazi, 2006).
La parola “anziano” non può più avere un potere esplicativo unico: per questo motivo si sono cercate altre espressioni come la terza o la quarta età, l’età dell’oro o l’età dei senior. L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) ha proposto la suddivisione in: anziani (young-old) con età tra i 65 e 74 anni; vecchi (old-old), riferendosi alle persone dai 75 ai 90 anni; grandi vecchi, per gli over 90. La considerazione della popolazione anziana come una realtà indistinta e stereotipata ha portato ad identificare questi soggetti come incapaci di apprendere e di adattarsi ad un mondo in evoluzione. Ma se una parte di questo gruppo sociale assomiglia a tale rappresentazione, ce n’è anche un’altra costituita da persone che, sebbene l’età rende meno forti sul piano fisico, sono intellettualmente capaci e disponibili.
Se fino a una decina di anni fa gli anziani erano coloro che erano reduci dall’esperienza della prima e della seconda guerra mondiale, quelli che da oggi costituiranno questo gruppo della popolazione, non solo sono di numero superiore1, ma portano un vissuto completamente differente: una formazione culturale in genere più forte che va di pari passo con l’attitudine ad analizzare la realtà circostante, la capacità di interagire con il territorio e con la conoscenza essenziale dei prodotti tecnologici, conseguenze di anni di utilizzo televisivo, di benessere e di consumi stabilizzati. Tali constatazioni hanno condotto all’utilizzo del termine counter-ageing, che in italiano viene tradotto con svecchiamento, e che studiosi (Giarini, 2000) utilizzano per indicare le aumentate capacità potenziali (fisiche ed intellettuali) in termini di capitale umano.
Tenuto conto dell’aumento, rispetto alle stesse classi di età del passato, della capacità di essere attivi ed in miglior stato di salute, in Italia in diverse discipline si è iniziato a parlare di “nuovi anziani” (cfr., fra gli altri, Bosio, 1992; Olivero 2000; Allario, 2003; Tramma, 2000, 2003) per enfatizzare la differenza di individui che conducono gli ultimi anni di vita in un modo che si allontana dallo stereotipo ancora diffuso dell’anziano.
La nuova anzianità è un’età le cui caratteristiche non sono ancora del tutto chiare e indicabili con precisione. E’ un fenomeno in evoluzione che è apparso nel secolo scorso e che oggi si sta affermando. I nuovi anziani caratterizzano un’area di popolazione profondamente differenziata al proprio interno, con un’esperienza influenzata dall’intrecciarsi degli itinerari e dalle carriere, dalle svolte, dalle domande e dai bisogni del percorso di vita precedente (Tramma S., 2003). E’ stato rilevato come esista una crescente domanda di conoscenza da parte di questi soggetti, anche in contesti privi di articolate offerte culturali. Questo tipo di domande, espresse o latenti, sono inoltre diverse sia per ciò che concerne i temi, sia per quanto riguarda le motivazioni sottostanti alla partecipazione a momenti di formazione. Se i più anziani sono caratterizzati da consumi culturali più modesti e da un limitato inserimento nelle reti della socialità, i giovani anziani si caratterizzano, al contrario, per un interesse maggiore verso nuove conoscenze e un consistente inserimento sociale (Facchini, a cura di, 2003).
L’attuale “generazione” dei cinquanta-sessantenni, ad esempio, è una delle ultime che, almeno in Italia, ha avuto un percorso formativo inferiore rispetto a quello che avrebbe desiderato a causa di limitazioni economiche e famigliari. Questi soggetti avrebbero quindi da un lato le competenze e nozioni di base fornite dalla scolarità dell’obbligo che li rende in grado di rapportarsi positivamente con processi formativi anche complessi, dall’altro posseggono anche quegli interessi che non sono stati completamente appagati quando erano più giovani (ibidem).
Una parte della popolazione considerata come anziana, con caratteristiche solo in parte ascrivibili a quelle socio-demografiche, vive quindi oggi nella complessità, in modo curioso e attento, con la volontà di esperire le novità che l’attuale società comporta, manifestando la capacità e la volontà di voler apprendere nuove “cose”, sia che possano migliorare la qualità della vita, sia che aiuti a impegnare costruttivamente il loro tempo libero. Più abilità e conoscenze gli anziani sentono infatti di avere, più possono contribuire allo sviluppo delle loro comunità di appartenenza. Ciò conduce alla necessità di scoprire ciò che l’anzianità può significare nella società attuale: un “invecchiare” orientato alla riappropriazione di sé, senza scadere in un giovanilismo a tutti i costi (Scortegagna, 1999).
“Il vivere non è vivere se non si alimentano i giorni di passioni e curiosità. La comunicazione, le migrazioni e gli scambi hanno disseminato la cultura dell’educazione permanente rendendola in molti casi anche leggenda e mito. (…) Ma imparare è stato per lungo tempo sinonimo, socialmente evidente, di non restare completamente fuori moda” (Demetrio D., introduzione, in Tramma, 2000). L’allungamento della vita attiva può quindi costituire un’opportunità per la società attuale se il cambiamento in materia di welfare si indirizza verso un modello adeguato alle sfide del futuro, in grado di offrire programmi e possibilità di formazione e di opportunità per valorizzare il capitale umano e sociale della terza età.
3. Life long learning e life wide learning: prospettiva europea e sistema italiano
La questione dell’invecchiamento attivo e di come costruire una società in grado da un lato di prendersi cura e dall’altro di incentivare la realizzazione del soggetto per l’intero arco della vita richiede la paziente tessitura di reti di pensiero e di azione fra discipline scientifiche, organizzazioni, istituzioni e cittadini. Nel campo delle politiche sociali divengono rilevanti filosofie di approccio e di gestione dei problemi attraverso la costruzione di partnership e coalizioni fra servizi pubblici e privato sociale. Approcci che nascano dalla necessità di ridurre il rischio di frammentazione delle iniziative sociali e culturali: la formazione, anche quella continua, dovrebbe andare oltre il concetto di aggiornamento individuale, ma essere in grado di coadiuvare e facilitare il cambiamento, nel corso della vita, con attività consone ad ogni gruppo di età.
Nel settore dell’anzianità si può osservare la presenza di interventi che procedono separatamente, spesso incuranti l’uno dell’altro e che difficilmente riescano a produrre quella “massa critica” necessaria ad influenzare gli ambienti sociali (Ripamonti, 2005). Inoltre si ravvisa la necessità del passaggio dal lifelong learning al cosiddetto life wide learning, un apprendimento, cioè, che dura tutta la vita e che ha luogo non solo nelle istituzioni formali, ma anche in contesti non formali e informali. Un rischio che caratterizza i sistemi di welfare a forte connotazione istituzionale è rintracciabile nell’inadeguatezza a interagire con le diversità. Quando i servizi si inseriscono in strutture complesse come gli Enti pubblici, a elevato livello di regolamentazione, è possibile incontrare problema di flessibilità culturale poco gestibile. La rigidità degli assetti organizzativi e delle procedure d’intervento dei servizi professionali, più che dei singoli operatori che agiscono al loro interno, rappresenta un elemento di criticità nell’affrontare le nuove questioni che emergono dalle congiunture storiche e sociali.
Le politiche sociali orientate all’invecchiamento attivo fanno oggi perno su una rinnovata significazione del concetto di “attività” non solo perché buona parte della popolazione anziana è in grado di mantenere un sufficiente livello di attività, determinata più da variabili di natura biologica e da condizioni di carattere socioeconomico e culturale, ma anche perché il mantenimento di buoni livelli di vita attiva è fondamentale per un processo di invecchiamento sereno. Inoltre, è importante sottolineare che riforme del welfare non possono essere realizzate al di fuori del contesto economico: il sociale, almeno nell’Unione Europea, dovrebbe diventare parte del sistema economico, partendo quindi dalla valorizzazione delle potenzialità di molti pensionati, relativamente anziani, ma ancora abili a svolgere attività lavorative retribuite o di volontariato (Cagiano de Azevedo, Cassani, 2005).
Vanno a costituire una “vecchiaia attiva” donne e uomini che diventano, per un crescente arco di tempo, una risorsa familiare e sociale, ma che sollecitano richieste di servizi culturali, formativi e per il tempo libero. Nel corso degli anni Novanta hanno trovato applicazione strategie politico sociali basate sul processo di espansione e di consolidamento dei “Centri per anziani”, che hanno coinvolto progressivamente sempre più aree del nostro Paese, sia nella forma dell’offerta di servizi socio-sanitari integrati, sia di iniziative d’aggregazione e promozione socioculturale. Tali strutture non rappresentano solo un fattore positivo rispetto ai problemi connessi all’invecchiamento, ma anche una preziosa opportunità per la costruzione di relazioni sociali per gli anziani, soprattutto per le persone più “isolate”. Non è un caso che i Centri sociali si siano sviluppati soprattutto nelle grandi aree metropolitane dove ad una grande presenza di persone anziane corrispondeva anche il bisogno di luoghi e occasioni di incontro per contrastare la solitudine e il rischio di emarginazione sociale (Ripamonti, 2005; Mingione, 1999). Mentre nella società pre-moderna infatti i soggetti erano inseriti in comunità molto strutturare e ricche di reti e rapporti informali duraturi, i più giovani anziani, specie coloro che hanno vissuto nei contesti urbani avanzati, vivono in reti di rapporto informali molto più fragili e meno strutturate, caratteristiche della società contemporanea (Lyotard, 1996). Ne consegue che non solo è presente un maggiore interesse verso momenti formativi, ma anche verso nuovi ambiti di aggregazione. Nell’analisi della nuova anzianità e dell’invecchiamento attivo si è fatto riferimento alla dimensione dell’apprendimento: la stessa promozione di una nuova immagine dell’invecchiamento implica l’educazione ad una visione della vita da intendersi come itinerario continuo e da percorrere senza che vi siano aree di preclusione connesse all’età.
Elisabetta Risi: Dottore di ricerca sulla Società dell’Informazione. Ricercatrice presso la Fondazione Università IULM di Milano. E-mail: elisabetta.risi@iulm.it
1 La letteratura (Micheli, 2003; Tramma, 2003; Cavalli, 2005) si riferisce a questi soggetti definendoli come Baby-Boomers
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