QUADERNI EUROPEI SUL NUOVO WELFARE

Dinamiche demografiche e mercato del lavoro in Italia

1. Introduzione

Esiste un legame imprescindibile, unanimemente riconosciuto a livello scientifico e ampiamente documentato in letteratura, tra variabili demografiche e sviluppo economico. Sin dalla famosa (anche se più volte criticata) impostazione maltusiana (1798), appare chiaro come la crescita economica e il benessere sociale di una nazione siano legati a doppio filo alle dinamiche demografiche che lo interessano.
Se, come sosteneva appunto Malthus, lo sviluppo demografico è seguito dallo sviluppo economico, il sistema economico stesso riesce a recepire i cambiamenti in atto in tempi rapidi e riesce ad adattarsi, in tempi altrettanto rapidi, ad essi, per cui i processi demografici non rappresentano un problema per le società. I problemi nascono, principalmente, dall’incapacità dei sistemi economici di adattarsi per tempo (o, ancor meglio, in anticipo) ai cambiamenti demografici in atto, minimizzandone le minacce e valorizzandone le opportunità.
L’Italia, così come gli altri paesi industrializzati, appare oggi caratterizzata da un intenso processo di invecchiamento demografico, che assume particolare rilevanza soprattutto in ragione delle sue conseguenze sociali ed economiche. Tra gli aspetti che destano maggiore preoccupazione vi sono le ricadute sul mercato del lavoro indotte, in particolare, dagli squilibri strutturali legati allo scompenso tra chi contribuisce attivamente al sistema economico (la forza lavoro) e chi ne è fuori e assorbe risorse (i pensionati). A partire da tali considerazioni, nel presente contributo sarà analizzata l’evoluzione della struttura per età della popolazione italiana (in un’ottica comparativa a livello europeo), mostrandone i caratteri attuali e soprattutto, utilizzando le più recenti previsioni rilasciate dall’Istat, i trend futuri. Saranno, a tale scopo, calcolati ed osservati i diversi indici demografici (vecchiaia, dipendenza, ricambio, ecc.) al 2005, 2015, 2030 e 20501, avvalendosi anche degli strumenti grafici propri della disciplina.
L’analisi demografica condotta avrà lo scopo di mostrare che, per compensare efficacemente gli squilibri ingenerati dall’invecchiamento, si rendono necessarie profonde riforme del mercato del lavoro: anticipare l’ingresso nel sistema produttivo dal basso (classi più giovani) ritardandone l’uscita dall’alto (classi più anziane), incoraggiare la partecipazione di quelle fasce di popolazione che ne sono state più escluse in passato (ad esempio, le donne), favorire l’integrazione lavorativa degli stranieri, la cui partecipazione regolare al mercato del lavoro può alleviare gli effetti di breve periodo del processo d’invecchiamento. La partita decisiva si giocherà sulla capacità di trattenere i lavoratori più anziani all’interno del mercato del lavoro, soprattutto in ragione del progressivo invecchiamento della forza lavoro. Su questo aspetto, in particolare, si concentrerà la nostra attenzione.

2. Alcuni dati sul processo d’invecchiamento in Italia e in Europa

Il processo di invecchiamento demografico accompagna in maniera ineluttabile la modernizzazione delle società occidentali ed ha due cause principali: la denatalità, frutto dei cambiamenti socio-culturali che hanno investito il nostro paese, con conseguenze forti a livello individuale e familiare, e la longevità, conseguenza delle migliorate condizione di vita e del progresso medico-scientifico che hanno contribuito ad allungare notevolmente la vita media degli individui. Per inquadrare preliminarmente la situazione demografica italiana ed europea può essere utile fornire qualche dato sul processo di invecchiamento, così come riassunto nella Tabella 1.
Il contributo dal basso al processo di invecchiamento è reso evidente dal valore assunto dal TFT (Tasso di Fecondità Totale) che è in tutti i paesi al di sotto del valore di ricambio generazionale di 2,1 figli per donna in età feconda2, mentre il contributo dall’alto si esprime attraverso il valore assunto dalla vita media alla nascita, che ha oramai superato gli ottanta anni per le donne e i settantacinque per gli uomini in quasi tutti i paesi. Il valore medio del TFT in Europa è 1,47 figli per donna in età feconda, con un valore massimo di 1,99 in Irlanda e minimo di 1,22 in Slovenia. Tra i 27 paesi vi è una leggera variabilità riguardo proprio alla fecondità, con un valore del coefficiente di variazione del 16,22%. Per quanto riguarda l’aspettativa di vita alla nascita, il valore più elevato è quello della Svezia per i maschi (78,4 anni), seguito proprio dal valore dell’Italia (77,7), mentre per le femmine è la Francia a superare, seppur di pochissimo (83,8 anni), il valore italiano (83,7). Tra i paesi si registra una maggiore variabilità per quanto riguarda l’aspettativa alla nascita maschile rispetto a quella femminile, come testimoniano il valore della deviazione standard (4 anni per i primi, 2,4 per le seconde) e del coefficiente di variazione percentuale, che assume valore, rispettivamente, del 5,5% e del 3%.
Maggiormente indicativa l’analisi della suddivisione della popolazione nelle tre macroclassi d’età, che corrispondono, rispettivamente, all’infanzia (0-14 anni), all’età adulta (15-64) e alla vecchiaia (65 anni e più). È possibile, infatti, rilevare come vi siano ben diciassette dei ventisette paesi nei quali la quota di ultrasessantacinquenni supera il 15%, e otto di questi nei quali tale quota di anziani è maggiore della quota di giovani. L’Italia è il paese nel quale la distanza tra questi due macrogruppi di popolazione è maggiore (5,4 punti percentuali di differenza). Tali osservazioni sono ulteriormente rafforzate dall’analisi del valore assunto dall’indice di vecchiaia, ottenuto come rapporto percentuale tra la popolazione anziana e la popolazione giovane. L’Italia è, appunto, il paese che mostra il valore più elevato di tale indice (137,7%), il che equivale a dire che, nel nostro paese, ci sono quasi 140 anziani ogni 100 bambini. Valori elevati si registrano anche in Bulgaria (123,9%), Germania (128,3%), Grecia (122,8%), Spagna (115,9%) e Lettonia (111,5%). I valori più bassi di invecchiamento si registrano, invece, in Irlanda3 (54,1%), Cipro (62%) e Slovacchia (67,8%). Riguardo a tale indicatore, rispetto a tutti gli altri indicatori di invecchiamento presentati, si nota tra i paesi europei la maggiore eterogeneità: il coefficiente di variazione assume, infatti, il valore più elevato (21,6%). In generale, in ogni caso, osservando tutti i dati e gli indici di posizione e di dispersione riportati nella tabella 1 è possibile notare che, nonostante sussistano delle lievi differenze tra i ventisette paesi che compongono l’Unione Europea, sembra che vi sia tra loro una sostanziale omogeneità riguardo agli indicatori di invecchiamento presentati, come testimoniano i valori assunti dal coefficiente di variazione calcolato, sempre al di sotto del 50%4.

Tabella 1: Indicatori del processo di invecchiamento demografico nei paesi Ue 27 al 1° gennaio 2005. Valori e relativi indici di posizione e di dispersione
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(a) stima (b) dati relativi all’anno 2003
Fonte: nostre elaborazioni su dati Eurostat, 2006a.


Figura 1. Evoluzione e previsioni della popolazione italiana per macroclassi d’età

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Fonte: per gli anni 1951-2001, nostre elaborazioni su dati Istat ai censimenti; per il 2005, nostre elaborazioni su dati Istat, 2006a; per gli anni 2015-2050, nostre elaborazioni su dati Istat, 2006b.

In Italia il superamento della quota di anziani rispetto a quella di giovani si è registrato già negli anni 90, a partire dai quali, oltre alla progressiva riduzione della quota di questi ultimi, è iniziata anche la diminuzione della classe centrale 15-64 anni (figura 1). Basandoci sulle ultime previsioni Istat5 (2006b), a base 2005, possiamo stimare6 quale sarà la consistenza futura di ciascun macrogruppo di popolazione e calcolarne, di conseguenza, l’incidenza relativa sul totale della popolazione, come mostrato in figura 1. Al 2015 la popolazione tra 15 e 64 anni, vicina ai 39 milioni nel 2005 (66% della popolazione totale), sarà costituita da 38.019.569 individui (64%), valore che scenderà a 35.501.183 nel 2030 (61%) e a poco più di trenta milioni nel 2050 (54%). Una diminuzione, anche se più leggera, si realizzerà anche per quanto riguarda la popolazione giovane (0-14 anni)7, mentre la popolazione ultrasessantacinquenne, confermando una tendenza di crescita già evidente da oltre un cinquantennio, passerà dagli attuali 11 milioni e 300mila persone (pari al 19,5% della popolazione totale) a 12.994.314 persone nel 2015 (22%), a 15.750.492 nel 2030 (27%) a 18.788.436 nel 2050 (34%). Quindi nel 2050 circa una persona su tre nel nostro paese avrà più di 65 anni.
All’interno del macrogruppo degli anziani sarà soprattutto il sottogruppo dei grandi vecchi, costituito dai segmenti più estremi della popolazione, a subire un incremento molto elevato. Tale gruppo è quello che esprime le maggiori richieste in termini assistenziali e di cura, e quindi quello che determinerà con maggiore forza le variazioni in termini di spesa sociale, pensionistica e sanitaria. Sempre utilizzando le previsioni rilasciate dall’Istat, abbiamo, infatti, stimato che la popolazione di età superiore ai 75 anni crescerà da un valore dell’8,9% nel 2005, ad un valore del 11,2% al 2015, al 13,6% nel 2030 e, addirittura, al 20,8% nel 2050. Questo vuole dire che, tra poco più di un quarantennio, nel nostro paese una persona su quattro avrà più di 75 anni. Guardando ai valori degli ultraottantacinquenni, si passerà da un’incidenza del 1,95% al 2005 al 7,8% nel 2050, mentre gli ultracentenari, che oggi rappresentano solo lo 0,02% della popolazione, vedranno decuplicare la loro incidenza sul totale della popolazione, fino ad un valore dello 0,24% al 2050.
Le elaborazioni raccolte nella tabella 2 possono aiutare a capire, in maniera intuitiva, come cambieranno gli equilibri generazionali all’interno della nostra popolazione. Le percentuali di incidenza di ciascun sottogruppo sono state trasformate in proporzioni per mostrare ancor più chiaramente il processo di invecchiamento. Al 2015, ad esempio, 1 persona su 5 avrà più di 65 anni, valore che salirà a 1:4 nel 2030 e, come già detto, a 1:3 nel 2050. Ancora più rilevante il cambiamento che avverrà, come accennato, nei gruppi più estremi: gli ultrasettantacinquenni, 1 ogni 11 oggi, saranno 1 ogni 9 nel 2015, 1 ogni 7 nel 2030 e 1 ogni 5 nel 2050. Le proporzioni degli ultraottantacinquenni passeranno, ai medesimi anni, da 1:51 a 1:30, 1:22 e 1:13. Gli ultracentenari, solo 1 ogni 5.000 nel 2005, raddoppieranno la loro presenza al 2015 (1:2.500), e subiranno altri due raddoppi nel 2030 (1:1.111) e nel 2050 (1:417).

Tabella 2. Equilibri generazionali nella popolazione italiana. Situazione attuale (2005) e previsioni (2015, 2030, 2050)
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Fonte: per il 2005, nostre elaborazioni su dati Istat, 2006a; per gli anni 2015-2050, nostre elaborazioni su dati Istat, 2006b.

Il seguente lavoro prende spunto dalla relazione dal titolo “Invecchiamento demografico e squilibri del mercato del lavoro: l’Italia verso il raggiungimento degli obiettivi europei” presentata nel corso della XLIV Riunione Scientifica della SIEDS (Società Italiana di Economia, Demografia e Statistica) tenutasi presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Teramo dal 24 al 26 maggio 2007. Una versione breve di tale relazione è in corso di pubblicazione negli atti della Riunione stessa (Stranges, 2008a).
Manuela Stranges: Assegnista di ricerca in Demografia, Dipartimento di Economia e Statistica, Università della Calabria, m.stranges@unical.it.
1 La scelta di questi anni in particolare non è casuale. Il 2015 è stato scelto in considerazione del fatto che le previsioni demografiche presentano un maggiore grado di attendibilità nel breve periodo, poiché è ragionevole supporre che entro tale arco temporale non interverranno cambiamenti o scostamenti molto incisivi rispetto a quello che è stato ipotizzato nello scenario previsivo. Si legge in Salvini et al. (2006): « […] l’orizzonte temporale scelto può essere più o meno breve. E’ ovvio che più lungo è l’arco di tempo, più incerta è la previsione. […] L’orizzonte temporale deve necessariamente ridursi al decrescere dell’area oggetto di previsione, poiché maggiore è la disaggregazione territoriale di riferimento, più i dati da trattare risultano volatili. La variabile tempo riguarda anche la lunghezza delle serie storiche su cui si basa lo studio dei trends passati per poter formulare le ipotesi su quelli futuri (naturalmente serie più lunghe influiscono positivamente sulla qualità)». Quindi un orizzonte di dieci anni ci è sembrato quello ottimale per riflettere su dati affidabili. Gli altri due riferimenti temporali sono stati scelti per fornire un’indicazione di medio periodo (25 anni fino al 2030) e un’indicazione di lungo periodo (45 anni fino al 2050).
2 Il valore di ricambio è fissato in corrispondenza di 2,1 figli per donna in età feconda perché, tenendo conto del fatto che mediamente il 48,8% delle nascite è costituito da femmine, questo significa che su 2,1 nati, 1 è certamente di sesso femminile (il 48,8% di 2,1), quindi si realizzerà la sostituzione di ogni madre con una figlia.
3 L’Irlanda, tra tutti i paesi europei, è quello che ha registrato per un periodo di tempo più lungo i livelli di fecondità più elevati. Ciò ha certamente contribuito a rallentare il processo di invecchiamento rispetto agli altri paesi, in ragione di una minore pressione dell’invecchiamento dal basso, concorrendo a mantenere una popolazione più giovane..
4 Il coefficiente di variazione, infatti, è definito come rapporto fra deviazione standard e media e fornisce un’indicazione della variabilità delle osservazioni rilevate. In particolare, se assume valore superiore a 0,50 (50% se espresso in percentuale) indica un’elevata variabilità, per cui la media non è un buon indicatore per sintetizzare le diverse osservazioni, mentre se assume valore pari o inferiore a 0,50, la variabilità è ridotta e la media appare l’indicatore più corretto per sintetizzare le informazioni disponibili.
5 Le previsioni Istat qui utilizzate sono quelle provvisorie rilasciate nel corso del 2006, in attesa di quelle definitive. Metodologicamente le previsioni Istat si basano su un modello cohort-component che descrive matematicamente lo sviluppo temporale della popolazione, sulla base di certe equazioni e conoscendo la struttura per età e sesso, le probabilità di morte e i tassi di fecondità. Nella simulazione Istat si suppone un ulteriore miglioramento dei livelli di sopravvivenza, con una crescita della vita media alla nascita da 77,4 anni nel 2005 a 83,6 nel 2050 per gli uomini e da 83,3 a 88,8 per le donne. Anche per la fecondità s’ipotizza un aumento, sia pur contenuto, da 1,3 figli per donna nel 2005 a 1,6 figli per donna nel 2050, ipotizzando un processo di convergenza della fecondità italiana a quella media dei paesi Ue. Infine, per le migrazioni internazionali si suppone un flusso migratorio netto annuale di 150 mila unità aggiuntive per tutto il periodo di previsione.
6 Nel presentare tali dati, occorre considerare che le previsioni demografiche sono sicuramente una delle attività di più difficile realizzazione per un demografo, non tanto da un punto di vista metodologico, quanto con riguardo all’affidabilità delle stime che si producono nel tempo. Tutti i metodi di previsione demografica, infatti partono dall’assunto che un certo meccanismo, sia esso “deterministico o parzialmente casuale” (Cohen, 1998, p. 163) che ha già operato in passato, continuerà ad operare anche in futuro, determinando i cambiamenti demografici. Ma non è detto che tale meccanismo continuerà ad operare con la stessa intensità, o potrebbe addirittura non operare affatto, ed essere sostituito da altri meccanismi differenti. Così si esprime Cohen: “Ecco uno dei segreti della demografia custoditi più gelosamente: quasi nessun demografo professionista crede più di poter predire il tasso di crescita, la consistenza numerica, la composizione e la distribuzione geografica delle popolazioni” (1998, p. 162). Tali considerazioni sono fatte, non per mettere in dubbio la bontà delle previsioni realizzate dall’Istat, ma per tenere conto della possibilità che, all’allungarsi dell’orizzonte temporale, intervengano fattori in grado di contraddire la previsione.
7 Il grosso della diminuzione di questa fascia di popolazione si era già registrato nel trentennio 1971 — 2001, come reso evidente dalla discesa della curva in figura 1. Le previsioni ci permettono di stimare che il valore della popolazione giovane rimarrà stabilmente compreso tra il 10 e il 15% fino al 2050.


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