QUADERNI EUROPEI SUL NUOVO WELFARE

La salute e l’allungamento dell’aspettativa di vita: prospettive nell’Unione Europea

1. Introduzione

Nonostante che tutti i dati relativi all’aspettativa di vita alla nascita nei diversi Paesi dell’Unione Europea (UE) dimostrino che essa è in continuo aumento, il tema della salute rappresenta ancora una delle maggiori fonti di preoccupazione per i cittadini europei.
    Le ragioni sono molteplici ma, ai fini di questo lavoro, ne verranno approfondite due in particolare.
La prima consiste nell’evidenza che esistono ancora differenze significative nell’andamento dell’aspettativa di vita alla nascita tra i diversi Stati membri e questo pone un serio interrogativo a tutti coloro che hanno responsabilità nel definire politiche tendenti a tutelare la salute e alla qualità dei servizi sanitari che devono operare al fine di garantire pari opportunità a tutti i cittadini dell’UE.
Il secondo motivo di preoccupazione deriva dal fatto che l’allungamento della vita e la diminuzione della natalità stanno generando un progressivo invecchiamento della popolazione che, generalmente, si associa ad un aumento della disabilità e dell’incidenza di patologie croniche: il tutto porta a costi sempre più elevati per i servizi sanitari, per le cure a lungo termine e per le pensioni.
I cambiamenti demografici in atto sembrano presentare due facce: una, molto positiva, rappresentata dall’allungamento dell’aspettativa di vita, l’altra, più preoccupante, è quella di una società che invecchia e che pone seri dubbi sulla futura sostenibilità finanziaria del sistema di Welfare europeo.

2. Lo stato di salute nel periodo precedente all’allargamento dell’UE

Dal 1970 l’aspettativa di vita alla nascita è aumentata stabilmente di circa 3 mesi ogni anno nei Paesi più sviluppati e questo andamento non sembra destinato a rallentare (Oeppen J. e Vaupel J.W., 2002; Robine J.M. et al., 2003). Tuttavia, questo fenomeno, chiaramente presente nei Paesi che facevano parte dell’UE nel periodo 1970-1995, non era condiviso dai Paesi dell’Europa Centrale e da quelli dell’Est Europeo, dove l’aspettativa di vita era decisamente inferiore. In un rapporto sullo stato di salute delle popolazioni dei diversi Stati europei redatto dall’Ufficio Regionale per l’Europa dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO, 1997) veniva messa in evidenza l’esistenza di differenze significative tra i Paesi che già facevano parte dell’UE e i restanti Paesi.
Più recentemente, un interessante lavoro ha paragonato lo stato di salute e i sistemi sanitari dei Paesi della cosiddetta “vecchia Europa” (UE 15) con quelli dei Paesi che a quel tempo erano candidati ad entrare nell’UE (Thomson S. et al., 2004). Se si considera l’aspettativa di vita alla nascita, nel periodo 1970-2002 le differenze appaiono piuttosto significative.
Per quanto riguarda la popolazione maschile, il Portogallo è sempre stato, tra i Paesi dell’UE 15, al limite inferiore con valori di aspettativa di vita alla nascita pari a 67,5 anni nel 1980 e a 72,7 anni nel 2002, mentre la Svezia è sempre stata al limite superiore registrando una aspettativa di vita di 77,7 anni nel 2001.
Per la popolazione femminile, i valori più bassi sono stati rilevati in Portogallo e in Irlanda (79,9 anni nel 2001), mentre la Francia si è sempre posizionata ai livelli più alti (83,2 anni nel 2001). Pur permanendo delle differenze in tutto il periodo considerato, si nota una progressiva tendenza ad una riduzione del divario, riduzione che diventa più accentuata dopo il 2002.
Esaminando l’andamento dell’aspettativa di vita alla nascita nello stesso periodo nei Paesi dell’Europa Centrale e in quelli dell’Est Europeo, risulta subito evidente che i valori sono decisamente più bassi rispetto a quelli dell’Europa Occidentale, la differenza di genere è più ampia e, in diversi casi, si registra un aumento del tasso di mortalità all’inizio degli anni novanta. Inoltre, mentre l’aspettativa di vita nei Paesi dell’UE 15 ha avuto un progressivo aumento a cominciare dal 1980, in Lettonia, Estonia, Lituania, Romania e Bulgaria non si è evidenziato alcun miglioramento significativo e anche nei Paesi dell’Europa Centrale, ove si può notare un certo incremento dei valori sia per la popolazione femminile che per quella maschile, l’aspettativa di vita rimane chiaramente al di sotto della media dell’UE 15. Per esemplificare, nel 2001 un uomo nato in un Paese dell’UE 15 poteva aspettarsi di vivere 7,5 anni in più rispetto a un ungherese e circa 11 anni in più rispetto ad un uomo nato in Lettonia.
Attraverso l’analisi di alcuni indicatori significativi dello stato di salute di una popolazione, si evidenzia che nel 2001 la mortalità infantile in Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania e Bulgaria era 2-3 volte più alta rispetto alla media dei Paesi dell’UE 15, mentre un rapporto simile viene documentato in Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Slovacchia, Repubblica Ceca quando si mette a confronto la mortalità da malattia ischemica del cuore in questi Paesi e la media dei Paesi della vecchia Europa (WHO, 2004). Per cercare di individuare i fattori responsabili di queste importanti differenze, alcuni autori hanno indagato l’incidenza della cosiddetta mortalità evitabile nei Paesi membri dell’UE 15 e nei Paesi candidati all’accesso (Newey C. et al., 2004). Il concetto di mortalità evitabile era stato proposto inizialmente da Rutstein e collaboratori nel 1976 come indicatore della qualità dei servizi sanitari.
Più recentemente, lo stesso concetto è stato messo in relazione con condizioni che possono essere oggetto di un appropriato trattamento medico (condizioni trattabili) e con altre che dovrebbero essere gestite in modo più efficace attraverso idonei interventi di prevenzione (condizioni prevenibili) e come tali più sensibili ad interventi derivanti da specifiche politiche intersettoriali. Nel rapporto di Newey e collaboratori, 33 patologie erano state selezionate come condizioni trattabili (per es. le infezioni intestinali, la mortalità perinatale, l’appendicite, la malattia di Hodgkin, il tumore del testicolo), 3 condizioni oggetto di prevenzione (le neoplasie dell’apparato polmonare, la cirrosi epatica e la mortalità da incidenti stradali) e la malattia ischemica del cuore trattata a parte in quanto ritenuta suscettibile non solo della qualità e dell’efficienza delle cure ma anche dell’efficacia dei programmi di prevenzione.
Non è compito di questo lavoro analizzare nel dettaglio i risultati di questa ricerca: interessa esemplificare in sintesi l’esistenza di differenze consistenti.
Prendendo in considerazione la mortalità trattabile, il tasso di incidenza all’inizio degli anni ’90 era decisamente più elevato in Romania e Bulgaria, seguite dai Paesi dell’Europa Centrale e da quelli dell’Est Europeo: tra questi, solo Slovenia, Lituania e Polonia si attestavano su valori vicini a quelli del Portogallo, il Paese dell’UE 15 con la più alta incidenza di mortalità da condizioni trattabili sia per la popolazione maschile che per quella femminile. Paragonando i Paesi che stanno nelle posizioni estreme, risulta che nella popolazione maschile c’erano 260 morti per condizioni trattabili ogni 100.000 abitanti maschi in Romania, rispetto alle 69 della Svezia.
Per la popolazione femminile, la situazione peggiore si registra ancora in Romania con 221 morti ogni 100.000 abitanti femmine, mentre la migliore si evidenzia in Francia con 66 morti per 100.000 abitanti femmine.
Se si analizzano i cambiamenti avvenuti nel periodo 1990-2002 nei Paesi dell’UE 15, si può notare che in Portogallo, Austria e Finlandia, l’indice di mortalità da condizioni trattabili si riduce di circa un terzo rispetto al valore iniziale sia per la popolazione maschile che per quella femminile, mentre in Olanda il miglioramento è stato più limitato, pari a circa un decimo del valore iniziale.
Tra i Paesi candidati, la Repubblica Ceca ha mostrato la riduzione dell’indice di mortalità trattabile più marcata; l’Estonia, la Lettonia e la Lituania un lieve progresso specialmente per la popolazione maschile; la Romania, in controtendenza, mostra un aumento della mortalità per la popolazione maschile pari al 5,48%.
Considerando la mortalità da cause che è possibile prevenire, nel 1990-91 l’incidenza più elevata si registra nella popolazione maschile ungherese con 209 morti per 100.000 abitanti maschi, relativamente alta in Romania con 123 morti, mentre il tasso più basso si riscontra in Svezia con 46 morti per 100.000 abitanti maschi. Tra la popolazione femminile, l’incidenza di mortalità da cause prevenibili era di 59 morti per 100.000 abitanti donne in Ungheria, 44 in Romania, 35 in Slovenia, 31 in Gran Bretagna, 18 in Bulgaria e 15 in Spagna.
Nel 2000-2002 una chiara riduzione della mortalità prevenibile è stata riscontrata per gli uomini ma non per le donne ed è particolarmente evidente in Italia, Austria, Portogallo, Finlandia e, tra i Paesi candidati, Repubblica Ceca e Slovenia. Miglioramenti molto contenuti sono riscontrabili in Ungheria e Bulgaria, mentre la Romania è caratterizzata dal peggior andamento.
Un quadro diverso compare quando si esamina la popolazione femminile: nel 2000-2002 si assiste ad un aumento generalizzato della mortalità prevenibile in tutti i Paesi candidati con l’eccezione di Slovenia e Bulgaria, ma, con una certa sorpresa, l’aumento è presente anche in Olanda, Svezia e Finlandia.
Da ultimo, la mortalità per malattia ischemica del cuore: nel periodo 1990-91 è decisamente più alta in tutti i Paesi candidati particolarmente in Lettonia, Estonia, Lituania e Romania. Fa eccezione la Slovenia.
Tra i Paesi della vecchia Europa, l’Irlanda e la Finlandia mostrano i più alti livelli di mortalità sia per gli uomini che per le donne, mentre i tassi più bassi sono riscontrabili nei Paesi dell’area mediterranea. Va comunque precisato che la mortalità nella popolazione femminile è tra le 2 e le 3 volte inferiore rispetto a quella della popolazione maschile.
Nel 2000-2002, una diminuzione significativa della mortalità da malattia ischemica del miocardio è stata ottenuta in tutti i Paesi considerati ad eccezione della Romania: i miglioramenti più significativi si registrano nella Repubblica Ceca, in Gran Bretagna, in Irlanda e in Finlandia.
L’analisi della mortalità evitabile nei vari Paesi che attualmente compongono l’UE dimostra che esistono ancora differenze significative nello stato di salute delle popolazioni dei diversi Paesi membri e in particolare, tra quelle degli Stati che facevano parte dell’UE 15 e quelle degli Stati che recentemente sono entrati a far parte dell’Unione. Peraltro, queste differenze confermano sostanzialmente quelle già rilevate dagli studi sull’aspettativa di vita.
Le ragioni di queste diversità sono sicuramente molteplici: la qualità e lo sviluppo dei servizi sanitari; la disponibilità di risorse economiche per garantire una adeguata farmacoterapia; l’esistenza di politiche intersettoriali efficaci nell’incrementare idonei stili di vita e nel ridurre gli incidenti stradali; l’attuazione di efficaci interventi di prevenzione; le condizioni di vita e di contesto tali da contenere gli alti livelli di stress; le condizioni di povertà e di scarsa disponibilità di interventi di supporto a carattere sociale. Ovviamente, eventi specifici della storia anche recente di alcuni Paesi hanno inciso significativamente sugli indici di salute che sono stati presi in considerazione.
In ogni caso, ciò che emerge con chiarezza è che l’UE e i Governi degli Stati membri devono rafforzare e continuare il loro impegno nel tentativo di salvaguardare la salute dei propri cittadini e di raggiungere livelli accettabili di equità riducendo significativamente le diseguaglianze esistenti.


Angelo Carenzi: Presidente, Fondazione Istituto Insubrico di Ricerca per la Vita. www.ricercaperlavita.it.


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