La gestione dell’invecchiamento attivo: dall’allungamento dell’età pensionabile ai nuovi rischi del lavoro maturo
1. Introduzione: sulla varietà delle vecchiaie e lo strabismo delle politiche
Il paper intende contribuire alla riflessione generale in corso sull’invecchiamento attivo per l’aspetto relativo alla componente occupazionale.
Si sosterrà, sulla base di alcuni output delle azioni europee e nazionali realizzate per l’allungamento della vita lavorativa e la crescita dell’occupazione delle età mature, che l’azione sviluppata sul versante delle politiche previdenziali sia in qualche modo entrata in un suo ciclo maturo e che, al contrario, le politiche del lavoro necessitino ancora di un’attenzione importante, sia per creare la voluta crescita dei tassi occupazionali, sia per evitare che nel passaggio in corso dalla protezione sociale classica (sul cui uso distorto si sono in parte basate negli anni ’80 le condizioni del fenomeno ‘over45’ in quanto tale) alle strategie di attivazione si producano effetti di una diversa, e forse più subdola, marginalizzazione della manodopera (considerata) meno dotata.
In quest’ottica un richiamo più specifico potrebbe riguardare l’esigenza di una maggiore attenzione degli osservatori al processo e al tipo di effetti che vanno determinandosi dalla combinazione fra l’omogeneità cognitiva certamente riconoscibile come risultato delle azioni di coordinamento e dei programmi europei nel ‘discorso pubblico’ dei singoli stati membri (e dei relativi livelli sub nazionali di governo) e la persistente diversità, che oggi si esprime principalmente come onda lunga confermativa della path dependency di piersoniana memoria, negli stili e nei tempi di attuazione delle riforme, dei modelli ed anche dei sistemi operativi nazionali e regionali del mercato del lavoro e del welfare (per un’analisi delle riforme nazionali del mercato del lavoro in Europa, cfr. AAVV, “La Rivista delle Politiche Sociali”, n. 2, 2007; per un’analisi localizzata degli ammortizzatori sociali in Italia, cfr. M. Marocco, ivi). Stando agli over, in questa fase di trasformazione che dovrebbe vedere l’evoluzione dell’azione dei meccanismi ‘passivi’ di tutela (siano essi di matrice lavoristica, o siano di matrice socio-assistenziale) verso quelli di tutela ‘attiva’, la capacità di sostegno della manodopera più debole dovrebbe venire assunta come elemento sensibile d’attenzione. In termini chiari: la questione richiede di essere osservata anche sotto il profilo dei rischi. Il senso sempre più comune (e di per sé corretto) di un necessario allungamento dell’età lavorativa e alla crescita dell’occupazione delle persone avanti negli anni, se non sostenuto da pratiche pubbliche, aziendali e sindacali convinte ed efficaci può dar luogo a situazioni di forte esposizione sociale di queste fasce generazionali: l’Italia si propone come un paese non esente da questo rischio. Anticipando qui qualche considerazione sul caso italiano, va infatti notato come la recente crescita occupazionale registrata fra le classi d’età più avanzate è avvenuta principalmente grazie ad un consistente impegno della componente femminile nelle occupazioni non standard, cosa che può suggerire profili di impiego-reimpiego diversi: dai nuovi ingressi volontari a quelli spinti da insorte necessità economiche individuali o del nucleo familiare, fino ai re-impieghi in “seconde carriere” tali solo per il passaggio, dopo il pensionamento, dal lavoro dipendente al lavoro non standard.
Ma preliminare a tutto ciò è l’argomento generale relativo all’ovvia constatazione della varietà di significati della nozione stessa di vecchiaia, a seconda che essa venga utilizzata in ambito demografico, biologico, sociologico o altro; della diversità di tempi e di modi con cui si verifica nei corsi individuali di vita e di come il suo modo di manifestarsi rifletta raggruppamenti sociali in base al lavoro svolto, al livello di istruzione, all’adeguatezza professionale, al possesso di ‘competenze sociali’, all’accessibilità ai vari campi del benessere, e così via. Di qui, se quanto detto è vero, la necessità che tanto l’allungamento della vita lavorativa quanto lo sviluppo dell’occupazione in età matura transitino dal terreno finora principe delle politiche previdenziali (riforme complessive e restrizioni specifiche delle uscite anticipate, con associazione — o meno — di incentivi economici per il prolungamento del lavoro) a quello delle iniziative integrate, multipolicy e multilevel, e mirate all’obiettivo della valorizzazione della manodopera matura, sia essa da mantenere in occupazione, sia da reclutare ex novo.
Sono d’altra parte numerose le evidenze empiriche derivanti dall’esperienza dei vari paesi, Italia compresa, che sostengono questo punto di vista. Due soli dati possono essere sufficienti ad esemplificare la questione. Innanzitutto le durate occupazionali. Secondo una recente elaborazione Eurostat, la quota di occupati di età compresa fra i 55 e i 64 anni varia di quasi il doppio a seconda del titolo di studio; nella media fra i due generi (ma la differenza è ancora più accentuata per le sole donne) l’occupazione complessiva delle persone della suddetta classe d’età con un’istruzione ‘tertiary level’ è pari al 61,8%, mentre è del solo il 32,4% fra le persone con un grado di istruzione inferiore alla scuola secondaria superiore (Eurostat, “Statistics in focus. Population and Social Conditions”, 17/2006). L’altro dato illuminante riguarda i tassi di reimpiego per età: secondo un recente rapporto EMCO, in Europa il tasso di reimpiego di un disoccupato over 50 è inferiore di oltre la metà di quello dei disoccupati compresi fra i 25 e i 49 anni (European Commission, Social Protection Commitee, “Active Ageing. The Policies of EU Member States”, Bunderministerium für Arbeit und Soziales, Bonn, 2007).
2. L’Europa e gli over: una riflessione ex post
I principali obiettivi che le istituzioni europee si sono poste riguardo all’incremento del lavoro maturo sono noti e fanno riferimento a quelli assunti nel più ampio contesto della Strategia di Lisbona. In particolare nei Consigli di Stoccolma (2001) e di Barcellona (2002) sono stati assunti rispettivamente gli obiettivi che entro il 2010 il tasso di occupazione degli over 55 avrebbe dovuto raggiungere il 50% del totale delle forze di lavoro di quella classe d’età e, per la stessa data, l’età media di uscita dal lavoro sarebbe dovuta aumentare di cinque anni. Ad oggi, nonostante un certo avvicinamento agli obiettivi, il tasso medio di occupazione europea degli over 55 è pari al 42,5% e l’età media di uscita dal lavoro è pari a 60,9 anni.
I processi segnalati dai dati suggeriscono considerazioni diverse. Per ciò che riguarda l’occupazione siamo di fronte ad un andamento di crescita sostanzialmente relativamente lineare (contraddetto in parte da alcune criticità di tipo qualitativo rilevabili, ad esempio, nel caso italiano su cui si tornerà più avanti). Nell’insieme la distanza dall’obiettivo fissato a Stoccolma si è spostata dai 13,1 punti percentuali del 2000 ai 7 e mezzo punti percentuali del 2005 (cfr. EMCO, op. cit.), ed è rilevante notare — come rilevabile dai dati Eurostat — il ruolo di traino giocato dalla componente femminile, il cui tasso di crescita occupazionale è stato in questi anni superiore al doppio rispetto a quello maschile.
Al contrario, l’allungamento della vita lavorativa ha avuto una andamento discontinuo, di crescita e recessione.
L’azione di riforma sviluppata dai paesi membri dell’Unione è avvenuta in momenti e con intensità diverse, ed è così riassumibile: innanzitutto, naturalmente, la presa di consapevolezza del fenomeno e la messa in discussione del ricorso imprenditoriale alle uscite anticipate in quanto strumento di gestione di fatto delle ristrutturazioni e delle eccedenze occupazionali (tutti i Paesi); l’adozione criteri restrittivi per l’autorizzazione delle uscite individuali precoci (tutti i Paesi); il varo di riforme previdenziali con, tranne eccezioni, l’innalzamento dell’età pensionabile, l’introduzione del pensionamento graduale e lo sviluppo di sistemi flessibili della relazione età-pensionamento-lavoro, basati anche su meccanismi di incentivi/penalità finalizzati al prolungamento della vita lavorativa (soprattutto i Paesi dell’Europa continentale, ma anche l’Olanda e i Paesi mediterranei come l’Italia e la Spagna); la promozione del lavoro in età avanzata attraverso le politiche di attivazione del lavoro, vale a dire di misure che tendano a rendere più occupabile la manodopera più anziana, fra cui lo sviluppo dei sistemi formativi continui con particolare riferimento ai lavoratori avanti negli anni, ed il miglioramento delle condizioni di prestazione del lavoro con interventi relativi tanto agli orari, quanto all’organizzazione e all’ambiente di lavoro (prevalentemente nei Paesi nordici).
Le logiche cosiddette di “bastone e carota” attraverso cui si tende ad influire sulle scelte individuali di pensionamento sono caratteristiche dell’Europa continentale e mediterranea con cui, a lato di misure di restrizione dei pensionamenti anticipati. Il target reale di queste misure sembra essere quello del dipendente maturo, considerato dalle aziende utile e capace di dare prestazioni professionali desiderabili, e non quello di lavoratori considerati in sovrappiù. La spinta verso la maggiore occupazione e il prolungamento della vita lavorativa degli over, ricercata nei vari Paesi agendo su una gamma diversificata di strumenti creati più o meno ad hoc, ha però usufruito di una tastiera più o meno ampia e, ad esempio, nei Paesi del Nord Europa, accanto alle restrizioni per l’accesso al pensionamento anticipato per disabilità, sono state ‘da subito’ varate misure integrate per il miglioramento dell’ambiente e delle condizioni di lavoro (che, nella scia della tradizionale cultura della salute e del benessere del lavoro portano, ad esempio, alla creazione dei cosiddetti “flex and soft jobs” per le persone mature) frutto (come nell’esemplare caso finlandese, che agisce in questa direzione pur in presenza di un certo condizionamento delle esigenze imprenditoriali dovuto alle relativamente meno rosee, rispetto all’area nordica, condizioni del mercato del lavoro ed ai maggiori tassi di disoccupazione) del coinvolgimento dei lavoratori, delle aziende e delle parti sociali nei processi di intervento per il recupero e l’attivazione della manodopera più matura. Qui la tradizione della formazione continua trova ulteriori canali e modalità di diffusione, sostenuta com’è in tutta Europa, in qualità di strada maestra per il mantenimento in attività delle persone mature. In generale comunque la formazione continua rientra fra gli strumenti ritenuti più interessanti ed utili per promuovere l’occupabilità dei lavoratori per l’intero arco della vita lavorativa, secondo l’ispirazione generale e i numerosi pronunciamenti comunitari in materia.
Nel panorama generale il Regno Unito spicca per disomogeneità. Qui non c’è stata alcuna riforma del sistema previdenziale, nella sua componente pubblica già ridimensionato negli anni precedenti e ‘alleggerito’ da scelte di ‘opting out’ verso gli altri pilastri del sistema, con la riduzione progressiva delle rendite pensionistiche pubbliche e lo sviluppo parallelo del peso della previdenza integrativa (cfr., per una disamina più estesa e per maggiori riferimenti bibliografici: Mirabile M.L, “Essere Over. Età, lavoro e nuovi scenari di welfare”, Quaderno Spinn n. 23, Roma, 2006).
Questa, forzando un po’ le cose, la ricostruzione sintetica delle risposte al fenomeno invecchiamento della popolazione — crisi dei sistemi previdenziali — paradosso del fenomeno over; e di questa overview si vorrebbe evidenziare soprattutto l’asimmetria che ha caratterizzato l’azione condotta sui versanti delle riforme previdenziali e del mercato del lavoro, con un’attenzione decisamente più sviluppata nei confronti del primo, trainato da un allarme generale e — come si cercherà di dire più avanti — dalla certa maggiore ‘facilità’ di deliberazione degli indirizzi automatici centrali.
È chiaro che lo squilibrio demografico delle società occidentali verso le componenti più anziane della popolazione e l’allungamento delle fasi di vita in condizione di pensionamento hanno rappresentato, e in qualche misura ancora rappresentano, fattori chiave di orientamento per il ridisegno dei sistemi di welfare, a partire dalle componenti previdenziali. Alla luce di ciò si vuole però sostenere che l’esigenza di correggere questi meccanismi in previsione di un futuro in cui la componente attiva del lavoro non sarebbe stata più in grado di sostenere quella ‘a riposo’ ha prodotto un’intensa azione riformatrice ed importanti confronti economici, politici e sociali, che nel loro insieme teso ad oscurare l’esigenza di un contemporaneo e approfondito sviluppo di quelli che avrebbero dovuto essere i presupposti culturali, economici e organizzativi di una ripresa valida della presenza degli over nei luoghi di lavoro. Questo almeno nei paesi più gravati da limiti di universalità e da retaggi di inefficienza delle relative azioni di riforma e di governo.
A latere dello squilibrio demografico, paradossalmente, si è avuto negli anni ’80 il crollo dell’occupazione matura, spinto principalmente dalle esigenze imprenditoriali di realizzare processi di ristrutturazione industriale e di innovazione tecnologica con limitati investimenti in capitale umano (e di avviare — attraverso il ricambio intergenerazionale della manodopera — nuove ‘regole d’ingaggio’ per l’insieme del lavoro in chiave sempre più economica e flessibile). Il crollo, che ha toccato in alcuni paesi i 20 punti percentuali di caduta dell’occupazione maschile, è stato consentito dalla possibilità di ricorrere a meccanismi di uscita anticipata su base previdenziale (prepensionamenti e vari tipi di pathway out) tali da sostenere i redditi dei lavoratori precocemente allontanati dalla produzione. Di qui lo strutturarsi di una convergenza di interessi diversi fra le parti economiche e sociali che ha dato luogo a quella che è stata efficacemente battezzata da G. Naegale ‘la grande alleanza di prepensionamenti’.
Rispetto a tutto ciò l’azione europea e degli Stati membri è stata solo in parte un’azione distintiva. In generale è proliferata una visione di senso comune, diffusa, semplificata ed omologante, del “pensionato giovane” come figura responsabile della propria ingiustificata inattività.
Maria Luisa Mirabile: Direttore “La Rivista delle politiche sociali” e responsabile area Welfare, IRES.
Tag:comportamenti nazionali, invecchiamento attivo, rischi lavoro maturo