QUADERNI EUROPEI SUL NUOVO WELFARE

Un commento: tra pensione e vecchiaia il passo è lungo!

La moderna transizione demografica ha trovato nelle società sviluppate le due più accentuate caratterizzazioni: da una parte la forte diminuzione della fecondità e dall’altro l’allungamento della vita fino ai limiti estremi oggi conosciuti. Il marcato invecchiamento della popolazione ne è il risultato, configurandosi come uno dei maggiori progressi e al tempo stesso come problema per eccellenza delle società moderne.
    Si tratta di un fenomeno che sembra ignorare le frontiere nazionali, visto che i paesi europei diventano altrettanti laboratori che procedono simultaneamente e con gli stessi risultati agli stessi esperimenti socio-demografici: l’elemento critico, comune ai paesi sviluppati, è costituito dagli obiettivi di politica economico-sociale ed in particolare dai diversi aspetti delle ormai inevitabili riforme pensionistiche. Tali aspetti possono essere coniugati in una premessa comune, cui fanno fronte due posizioni contrapposte, con proprie implicazioni e interdipendenze.
La premessa si riflette nelle attuali trasformazioni delle strutture per età in atto nelle popolazioni europee: il continuo aumento della popolazione dipendente, percettrice di trasferimenti sociali, rispetto al calo della popolazione attiva, mette in discussione il rapporto prestazioni-contributi che ha caratterizzato il sistema attuale di solidarietà tra le generazioni. Secondo le previsioni dell’United Nation Population Division (UNDP), la classe degli anziani in Europa costituirà il 36% della popolazione totale nel 2050, crescendo di ben dieci punti percentuali rispetto ai valori attuali (26,6%), mentre l’età mediana è destinata ad aumentare di 8 anni, raggiungendo i 47 anni nel 2050. Questa crescita incessante del numero degli anziani sarà la dinamica caratterizzante fino a quando le generazioni nate nel periodo del baby boom raggiungeranno età prossime alla vita media alla nascita. Italia e Spagna sono i paesi in cui tale dinamica risulterà più intensa con una crescita del numero di anziani per ogni 10 individui in età attiva rispettivamente da 2,5 a 6,6 per l’Italia e da 2,9 a 6,8 per la Spagna (Eurostat, 2005).
In tale contesto si contrappongono due implicazioni delle riforme in atto: da un lato i demografi richiamano l’attenzione sui termini e le misure del modello pensionistico, inadeguate alle necessità conoscitive e interpretative di oggi; mentre l’esigenza politica di contenere la conflittualità tra welfare state e crescita economica mantiene il dibattito attuale ancora in termini di misure di vecchiaia e di invecchiamento “istituzionale” che in tutte le fonti ufficiali sono rimaste invariabilmente ancorate alla soglia dei 65 anni; le provocatorie indicazioni, di fonte Nazioni Unite, per una soglia a 77 anni in Italia sono oggi “politically uncorrect”; ma demograficamente parlando, meno paradossali di quanto possa apparire.
È qui che si pone la diatriba di antica data e comunque il ricorrente dibattito intorno alle misure statistiche della vecchiaia e dell’invecchiamento; ed è qui che viene rimesso in questione il tradizionale ciclo di vita con i relativi indici di dipendenza; della vita attiva; dell’invecchiamento e della vecchiaia; con i relativi rapporti statistici solidamente insediati e immutabili in tutta la manualistica demografica del secolo trascorso.
Molto interessante, a questo riguardo, è stata una riclassificazione delle diverse tipologie di invecchiamento proposta da Natale e de Sarno Prignano (1999). Gli autori hanno proposto una ripartizione dell’invecchiamento in demografico, biologico e sociale. L’invecchiamento biologico è definito come il deterioramento delle capacità funzionali, e gli indicatori che lo misurano sono rappresentati, oltre che dall’età biologica, anche da misure antropometriche, test fisiologici, psicometrici e sociali. L’invecchiamento sociale, invece, è rappresentato dall’ “anticipo del termine delle età socialmente rilevanti: allevamento dei figli e attività lavorativa” (Natale e de Sarno Prignano, 1999), e l’indicatore che fornisce informazioni utili sul diverso livello di invecchiamento è rappresentato dall’età sociale. Tra gli altri, Massimo Livi Bacci, fin dal 1987, riconosce che, nel corso dei decenni, si è venuto a verificare un crescente gap tra la vecchiaia biologica e quella sociale, quasi coincidenti in passato. Se da un lato, infatti, si è avuto un rinvio della vecchiaia biologica, con un aumento degli anni vissuti, e vissuti mediamente in migliori condizioni di salute e di efficienza fisica e psichica, dall’altra si è anticipato notevolmente, nel corso del ciclo di vita, il termine di attività socialmente rilevanti: l’allevamento dei figli e l’attività lavorativa. Il primo fenomeno ha allungato il tempo rinviando la vecchiaia biologica; il secondo ha accorciato l’arco di vita socialmente rilevante, “anticipando” l’inizio della vecchiaia sociale. Nel lungo periodo questo ha significato l’arretramento dell’invecchiamento biologico e l’allungamento della vecchiaia sociale, con tutte le conseguenze socio-economiche che tale processo ha generato.
Questa distanza, che sempre più si frappone tra i concetti di invecchiamento biologico, demografico e sociale, si traduce nell’impossibilità di misurare l’invecchiamento della popolazione mediante una soglia d’anzianità (60, 65 anni), generalmente legata al momento dell’uscita dal mercato del lavoro. L’invecchiamento non ha una connotazione temporale univoca, bensì è un processo continuo che varia non solo da individuo a individuo, ma anche da una generazione all’altra: un sessantacinquenne di oggi è difficilmente confrontabile con un sessantacinquenne di 10, 50 o 100 anni fa (Crisci, et al. 2004).
Senza essere demografo, ma con lucida osservazione, Bobbio (1996) sintetizzava la questione così: “La soglia della vecchiaia in questi ultimi anni si è spostata di circa un ventennio. Oggi il sessantenne è vecchio solo in senso burocratico, perché è giunto all’età in cui generalmente ha diritto a una pensione. L’ottantenne, salvo eccezioni, era considerato un vecchio decrepito, di cui non valeva la pena di occuparsi. Oggi, invece, la vecchiaia, non burocratica ma psicologica, comincia quando ci si approssima agli ottanta, che è poi l’età media della vita, un po’ meno per i maschi, un po’ più per le donne”. L’adozione di un limite fisso come soglia di accesso alla vita anziana risulta, quindi, quanto mai anacronistica, ponendo “la necessità di una revisione, non solo demografica, ma anche sociale, politica ed economica, della soglia di accesso alla classe degli anziani” (Cagiano de Azevedo, 2004); e anche, eventualmente, di ripensare definizioni di vecchiaia più come distanza dalla fine della vita che non dalla sua origine.
Di fronte a questo scenario, l’Europa è chiamata ad affrontare al più presto la questione dell’invecchiamento demografico, per individuare un sentiero comune di politiche che, pur con tempi diversi, conduca a un ripensamento della gestione delle età, e in particolare dei flussi di ingresso e di uscita dal mercato del lavoro, con la consapevolezza che “l’evoluzione non è né un fatto né una realtà, ma solo un modo di organizzare la conoscenza del mondo” (Lewontin e Levins, 1978).

Riferimenti bibliografici:

Bobbio N. (1996): De Senectute, Einaudi, Torino.

Cagiano de Azevedo, R., e Capacci, G. (2003): Invecchiamento e svecchiamento della popolazione europea, Aracne Editore, Roma.

Cagiano de Azevedo, R. (a cura di), (2004): The European Welfare in a Counterageing Society, Ed. Kappa, Roma.

Crisci, M., Gesano, G. e Heins, F. (2004): Population Ageing in the Regions of the European Union, IRES, Piemonte.

Lewontin, R.C. e Levins, R. (1978): “Evoluzione”, in Enciclopedia, Einaudi, Torino.

United Nations (2006): Population Ageing 2006, Population Division, United Nations, New York.

United Nations Economic and Social Affairs (2001): Replacement migration — is it a solution to declining and ageing populations?, New York.



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