QUADERNI EUROPEI SUL NUOVO WELFARE

L’invecchiamento demografico in Italia: verso un miglioramento della relazione tra età e lavoro

1. Introduzione

Uno dei processi di maggiore rilievo in corso nei paesi industrializzati è certamente quello dell’invecchiamento demografico, non solo per le conseguenze che esso avrà sulla struttura e sulla composizione delle popolazioni interessate, ma anche e soprattutto per le implicazioni di natura sociale ed economica. Il grado di problematicità conseguente al processo di invecchiamento dipenderà in maniera forte dal modo in cui i governi e i soggetti economici saranno in grado di guardare agli effetti del processo stesso, mitigando quelli indesiderati attraverso l’attuazione di strumenti ad hoc e cogliendo le opportunità, laddove presenti. Appare dunque necessario individuare un punto di equilibrio tra l’inevitabilità di alcune dinamiche demografiche e le necessità imprescindibili dei sistemi economici (Stranges, 2006, p. 123).
Scopo del presente contributo è mostrare, attraverso alcuni indici e indicatori demografici, l’evoluzione del processo di invecchiamento con particolare riferimento alle ricadute sul mercato del lavoro. Saranno perciò analizzati i tassi di partecipazione dei lavoratori maturi e anziani, cercando di individuare gli strumenti che possono favorire l’aumento di tale partecipazione. Tra questi, particolare importanza rivestono i programmi di apprendimento continuo che, attraverso un adeguamento costante delle competenze e conoscenze del lavoratore, sono in grado di favorirne la ritenzione all’interno del sistema produttivo. L’analisi, concentrata sull’Italia e volta a fare emergere le differenze esistenti tra le regioni, presenta anche confronti con gli altri stati europei, allo scopo di mostrare la posizione del nostro paese rispetto ai livelli medi dell’Unione Europea e ai trend in atto negli altri paesi.

2. L’invecchiamento demografico in Italia

2.1. Un’analisi dei dati ai censimenti del secondo dopoguerra

Con il termine invecchiamento demografico indichiamo l’aumento, in termini assoluti e percentuali, della fascia anziana rispetto agli altri gruppi che compongono la popolazione e al suo totale. Le cause di questo processo sono sostanzialmente due: l’allungamento della vita (longevità) e la riduzione delle nascite (denatalità). Se la longevità è di per sé una conquista, l’invecchiamento demografico è una sua conseguenza ineluttabile che pone, però, diversi problemi di ordine sociale, culturale ed economico. Il numero sempre crescente di anziani si tradurrà in richieste sempre maggiori di servizi socio-sanitari e di cura. Oltre a ciò, lo squilibrio che s’ingenererà tra le classi economicamente produttive e le classi anziane (che non solo sono economicamente passive, ma rappresentano anche un costo in termini pensionistici e assistenziali) mette a dura prova la sostenibilità dei sistemi di welfare contemporanei.
Il processo di invecchiamento che interessa la popolazione italiana ha avuto origine già nel corso del XX secolo, a seguito della conclusione del processo di Transizione Demografica che ha interessato tutte le popolazioni a sviluppo avanzato, e si è progressivamente acuito a mano a mano che il miglioramento delle condizioni sociali e igienico-sanitarie hanno determinato un allungamento della vita media. A tale invecchiamento dall’alto si è aggiunto anche un invecchiamento dal basso, determinato dalla forte denatalità, che ha contribuito a squilibrare i rapporti tra i diversi gruppi di popolazione. Per comprendere l’origine del processo di invecchiamento, si può far riferimento alla tabella 1, che raccoglie alcuni dati relativi ai censimenti del secondo dopoguerra: valori percentuali della popolazione italiana per macroclassi d’età,1 valori della vita media a 60 anni e degli indici di struttura.2
La componente anziana, che in percentuale rappresenta un indice di invecchiamento della popolazione, è passata da 8,2% nel 1951 a 18,7% nel 2001, valore che, come vedremo in seguito, si è ulteriormente accresciuto negli anni successivi. Parallelamente è diminuito il peso della componente adulta della popolazione e, ancor più marcatamente, quello della componente giovanile, pari al 26,1% del totale della popolazione italiana al censimento del 1951 e solo al 14,2% a quello del 2001. L’analisi degli indici di struttura ci permette di cogliere con maggiore chiarezza il progressivo invecchiamento, messo in evidenza dalla crescita dell’indice di vecchiaia (che misura quanti anziani ci sono ogni 100 giovanissimi) e dell’indice di dipendenza anziani (che misura quanti anziani ci sono ogni 100 persone comprese nella fascia produttiva). Il valore della vita media maschile e femminile si è notevolmente accresciuto, come indicato dall’età media in corrispondenza dell’età 60 (e60), con un guadagno di 4,4 anni dal 1951 al 2001 per gli uomini e di 7,4 anni nel medesimo periodo per le donne.

Tabella 1: Principali indicatori del processo di invecchiamento in Italia ai Censimenti della Popolazione (1951-2001)
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Fonte: nostre elaborazioni su dati Istat, Censimenti della Popolazione.


2.2. Tendenze recenti e previsioni per il futuro

Dopo aver analizzato i dati fino al 2001, passiamo all’osservazione delle tendenze più recenti del fenomeno dell’invecchiamento, cercando anche di mostrare quali potranno essere le tendenze future. A tale scopo utilizziamo le ultime previsioni demografiche rilasciate dall’Istat. Nella tab.2 sono raccolti i principali indicatori demografici relativi alla popolazione italiana tra il 2002 e il 2005, con una previsione al 2030 e al 2050. Appare evidente come il processo di invecchiamento proseguirà in maniera progressiva, giungendo nel 2050 a deformare3 la struttura per età della popolazione, con una quota di anziani (33,6% del totale della popolazione) oltre due volte e mezzo la quota di giovani (solo il 12,7%). La riduzione sarà ovviamente evidente anche nella fascia di età adulta, come conseguenza delle passate tendenze della fecondità. Le conseguenze di tale processo di squilibrio generazionale sono efficacemente sintetizzate attraverso gli indici di struttura della popolazione, che raggiungeranno valori più che doppi rispetto a quelli attuali.

Tabella 2: Tendenze recenti del processo di invecchiamento in Italia (2002-2050)
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Fonte: anni fino al 2005, nostre elaborazioni su dati Istat, 2006a; dati 2030 e 2050, nostre elaborazioni su previsioni Istat (base 2005), 2006b.

Osservando i dati sulla speranza di vita alla nascita maschile e femminile (che nel 2050 raggiungerà, rispettivamente, 86,6 e 88,8 anni) occorre anche evidenziare che la crescita di popolazione anziana riguarderà soprattutto le fasce d’età estreme (i cosiddetti grandi vecchi) che rappresentano il gruppo più fragile tra gli anziani. In un recente articolo apparso su Gerontology, due ricercatori del Max Planck Institute for Human Development di Berlino hanno esaminato i guadagni e le perdite della senescenza (Baltes e Smith, 2003). Le buone notizie riguardo alla longevità si concentrano, secondo gli autori, quasi esclusivamente nella terza età: aumento della speranza di vita, migliori capacità fisiche e mentali, maggiori riserve cognitivo-emozionali nella mente dell’anziano, benessere emozionale e personale, ecc. Riguardo alla quarta età, invece, gli autori individuano le cattive notizie, ossia: perdita delle capacità cognitive e di apprendimento, aumento della sindrome da stress cronico, aumento della demenza senile, livelli elevati di fragilità, disfunzionalità e pluripatologie, ecc. Non ultima va considerata la questione morale di guadagnare anni di esistenza, ma in condizioni di salute che non consentono di vivere dignitosamente. Proprio riguardo a tali considerazioni l’attenzione degli studiosi si va gradualmente concentrando non solo sull’aumento dell’aspettativa di vita, ma soprattutto sui guadagni di anni in buona salute e liberi da disabilità. La crescita del gruppo degli ultraottantenni porrà problemi ancora più gravi, mettendo a dura prova il funzionamento del sistema di sicurezza sociale, soprattutto in relazione all’asimmetria tra popolazione economicamente produttiva e popolazione improduttiva e bisognosa di cure.
Se l’invecchiamento dall’alto è reso evidente dai guadagni di vita, l’invecchiamento dal basso si esprime attraverso i valori del tasso totale di fecondità (numero medio di figli per donna) che, nonostante una lieve ripresa, resta ampiamente sotto il valore di ricambio di 2,1 figli.4 In considerazione dei recenti sviluppi socio-economici e culturali e dei cambiamenti nelle modalità di formazione delle famiglie e pianificazione delle scelte riproduttive5 non vi sono indicazioni che facciano ipotizzare un’inversione di tendenza in tal senso.

Manuela Stranges: Dottore di ricerca in Demografia, Dipartimento di Economia e Statistica, Università degli studi della Calabria, m.stranges@unical.it
1 Le tre macroclassi d’età considerate corrispondono alle tre fasi della vita degli individui. Pertanto il gruppo 0-14 anni indica la popolazione giovane, quello 15-64 la popolazione adulta, quello 65+ la popolazione anziana.
2 Gli indici di struttura elementari qui calcolati sono:
a. l’indice di vecchiaia, attraverso la formula:stranges-f1.gif
b. l’indice di dipendenza strutturale (o di carico sociale), attraverso la formula: stranges-f2.gif
c. l’indice di dipendenza anziani, attraverso la formula: stranges-f3.gif
3 Conseguentemente alle passate tendenze della fecondità e della mortalità le strutture per età delle popolazioni europee risultano piuttosto “deformate rispetto alle millenarie strutture per età conseguenti ai tradizionali livelli di fecondità e mortalità” (Golini e Mussino, 1995, p. 193). Dato che al diminuire della fecondità e all’aumentare dell’invecchiamento diminuisce la dimensione della generazione media delle donne in età feconda, a partire da un certo livello di mortalità, per cercare di controbilanciare il numero dei morti, il tasso di fecondità totale del momento, capace di assicurare all’anno una crescita zero (o, perlomeno, un lieve decremento dell’ammontare della popolazione), cresce in maniera proporzionale all’aumento della percentuale di ultrasessantenni. Ad esempio, nelle popolazioni dove la percentuale di ultrasessantenni è pari al 25%, basta il puro tasso di sostituzione del 2,1 per assicurare la crescita zero, cioè il livello al quale una popolazione riesce a rinnovare la sua struttura, pur mantenendosi inalterata in termini di ammontare. Qualora però la percentuale degli anziani (60+) salga a un livello del 30%, la fecondità del momento dovrebbe raggiungere quota 2,8 per garantire la crescita zero, o almeno un livello di 2,5 per avere un decremento moderato della popolazione. Tali livelli di fecondità oramai non si riscontrano più in nessuna popolazione occidentale, Europa compresa, e non è immaginabile che vi possa essere un’inversione di tendenza tale da raggiungere questi livelli. Basandosi sui dati delle popolazioni stabili associate agli attuali livelli di mortalità delle popolazioni occidentali, si può supporre una popolazione con una percentuale di ultrasessantenni del 30% corra il rischio che la struttura per età della popolazione, raggiunta una certa conformazione, costituisca essa stessa un fattore non trascurabile dell’intenso declino demografico e di un invecchiamento ancora più accentuato. Se poi gli anziani superano il 30% (a livelli, ad esempio, del 35% o del 40%), allora si potrebbe giungere a una sorta di punto di non ritorno demografico: l’intenso declino demografico e l’accelerazione nel processo di invecchiamento conseguenti a tale aumento eccessivo della popolazione anziana sarebbero tali da far si che la popolazione non abbia più “la capacità endogena di ‘riassorbire’ le deformazioni della struttura per età e fermare o invertire le tendenze demografiche in atto” (Golino e Mussino, 1995, p. 196).
4 Poiché il rapporto tra i sessi alla nascita è abbastanza stabile (105 maschi ogni 100 femmine), la quota di nascite femminili è pari al 48,8%. Quindi il livello di fecondità di 2,1 corrisponde ad un numero di figlie pari a 1 (2,1*0,488), ed è quindi quel valore che assicura il ricambio generazionale (garantendo la sostituzione d’ogni madre con una figlia).
5 Lo spostamento in avanti dell’età media al matrimonio e dell’età media alla maternità determinano una riduzione del numero medio di figli, in quanto fare figli tardi significa anche farne meno. Va, inoltre, considerato il cambiamento nella valutazione economica dei figli, oltre alla ridefinizione dei ruoli sociali e familiari della donna, che hanno contribuito a determinare una considerazione più consapevole del trade-off figli/carriera.


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