TFR e previdenza complementare: si può ragionarne a prescindere dagli sviluppi del sistema di welfare?
1. Introduzione
La promulgazione del D.Lgs 252 del 2005 ha fatto compiere un ulteriore passo in avanti alla definizione del secondo pilastro del sistema previdenziale in Italia. Essa si è accompagnata a vigorose polemiche, sulla posizione più o meno privilegiata da assegnare dapprima ai fondi cosiddetti collettivi e poi sul ritardo della sua effettiva applicazione. Il clamore a esse legato ha però fatto perdere di vista una serie di altri importanti punti, altrettanto controversi e intrinsecamente legati all’opzione fondamentale con quel decreto (e già in precedenza) perseguita.
In questa nota si intende esaminare criticamente i profili di quel decreto, non solo e non tanto per quanto concerne gli aspetti legati al ruolo dei fondi collettivi, bensì partendo dalle ragioni e dai problemi che sottostanno il ricercato sviluppo della previdenza complementare. Si esporranno quindi alcune osservazioni critiche sulle scelte compiute nel decreto per concludere quindi prospettando possibili linee migliorative, che, necessariamente, non possono però prescindere dall’evoluzione dello stesso pilastro di base.
2. Perché la previdenza complementare?
In Italia, dell’esigenza di uno sviluppo della previdenza complementare si è iniziato a parlare in connessione con le riforme del sistema di previdenza di base a ripartizione. A fronte dell’abbassamento, prospettico, dei rendimenti garantiti da questa la previdenza complementare è stata vista, e presentata, soprattutto come il mezzo per mantenere sufficientemente elevati i tassi di rimpiazzo complessivi (definiti come il rapporto tra trattamenti pensionistici e ultima retribuzione), visti come misura sintetica dell’adeguatezza delle pensioni future.
A ben vedere, questa capacità di accrescere i redditi dei pensionati futuri (o evitarne il calo) da parte della previdenza complementare non può che basarsi su una combinazione di due elementi: un maggior risparmio oggi, destinando quindi risorse aggiuntive (rispetto alle già spesso alte aliquote contributive della previdenza di base); un maggior rendimento che la logica della capitalizzazione riuscirebbe a garantire rispetto alla ripartizione (un dato che ha a che fare con i rendimenti del capitale ottenibili sul mercato rispetto alla crescita del prodotto insita nella crescita della produttività e in quella della popolazione). Non a caso chi sottolinea maggiormente questo secondo aspetto propugnerebbe un ancor più accentuato ribilanciamento dell’intero sistema previdenziale, riducendo ulteriormente il ruolo della previdenza di base (che comunque assorbe un ammontare di risorse significativo anche a regime, non solo quindi nella lunga fase di transizione dal vecchio regime al nuovo sistema definito dalla riforma del 1995 e per via degli oneri che i trattamenti definiti dalle più generose regole passate continueranno a determinare).1 Chi viceversa sottolinea in prevalenza il primo aspetto, all’opposto si chiede perché il maggior risparmio, necessario oggi per il futuro, non sia ottenibile già all’interno della previdenza di base, con la costituzione e l’accumulo di un fondo al fine di smussare gli sbilanci temporanei di origine demografica (e ciclica) tra contribuzioni e prestazioni che sono insiti in un sistema a ripartizione2 e/o “fiscalizzando” una serie di oneri impropri oggi pagati dai contributi previdenziali e perseguendo una più netta separazione tra “assistenza” — da porre carico della fiscalità generale — e “previdenza”.3
Spesso nel dibattito sopra sintetizzato hanno pesato elementi aprioristici a favore del sistema a ripartizione o di quello a capitalizzazione, con grossolane semplificazioni — trascurando ad esempio la questione dei rischi associati ai diversi rendimenti insiti nella ripartizione e nella capitalizzazione, dei costi di gestione dei diversi sistemi e del fardello comunque discendente dalle obbligazioni insite nelle regole pregresse del sistema di base (la necessità cioè di accumulare oggi risorse tanto per garantire i futuri trattamenti a capitalizzazione, quanto i trattamenti degli attuali pensionati e pensionandi). Soprattutto, ci pare però che nel dibattito siano stati trascurati due elementi essenziali, la cui mancata considerazione ha portato a una sorta di fideistica speranza nella previdenza complementare — la questione fondamentale divenendo quella dell’innescarne, comunque, uno sviluppo — e a una scarsa attenzione alle questioni di disegno della stessa e delle sue interazioni con il sistema di base.
Il primo elemento trascurato ha a che fare con la causa principale sottostante la riduzione prospettica dei rendimenti garantiti dal sistema di base a ripartizione. Questa, per quanto più visibile e inscritta nella riforma del 1995 che detta come dovranno essere determinati i futuri trattamenti pensionistici per il sistema di base,4 non può non influenzare anche i trattamenti del sistema integrativo a capitalizzazione. Il secondo discende dal fatto che il mix ottimale tra pilastro di base a ripartizione e pilastro integrativo a capitalizzazione dovrebbe coniugarne al meglio vantaggi e svantaggi reciproci, presumibilmente dipendendo dal livello di reddito di ciascun soggetto — perché il rischio finanziario insito nella capitalizzazione dovrebbe essere meglio sopportabile da individui ad alto reddito, laddove la previdenza di base dovrebbe meglio fornire spazi per l’operare di interventi di natura redistributiva.
Paolo Sestito: Banca d’Italia e Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali. Le opinioni qui espresse sono esclusivamente personali e non coinvolgono le Istituzioni di appartenenza.
1 Un po’ semplificando, si può dire che questa è la ratio delle proposte formulate da F. Modigliani, in cui si immagina in realtà che pilastro di base e pilastro integrativo vengano per molti aspetti fusi in un sistema a capitalizzazione in cui però vengano introdotte delle garanzie a fronte del rischio finanziario insito nella logica della capitalizzazione. Cfr. ad esempio Modigliani F. e M.L. Ceprini, “Social Security Reform: A Proposal for Italy”, Review of Economic Conditions in Italy, 1998, no. 2.
2 Si noti che la costituzione di un fondo di garanzia, atto a smussare fluttuazioni e squilibri di origine demografica o ciclica, darebbe più stabilità a un sistema a ripartizione senza però mutarne la natura intrinseca. A lungo andare, il fondo dovrebbe infatti essere mantenuto comunque in una proporzione approssimativamente costante rispetto alle prestazioni da garantire. Per un esempio di proposta di costituzione di un fondo di tale tipo si veda Marano A., “Un fondo di riserva per il sistema pensionistico italiana”, Politica Economica, n. 2/2005.
3 Dietro l’idea di porre a carico della fiscalità generale talune prestazioni stanno argomenti diversi. Vi giocano un peso ragioni di trasparenza e di più precisa identificazione degli elementi redistributivi che si intendano perseguire, laddove nelle regole del sistema pensionistico di base vigente prima della riforma del 1995 gli elementi redistributivi spesso operavano in maniera perversa, favorendo i lavoratori con carriere retributive più dinamiche (in prevalenza a più alta qualifica e più alto reddito). Un maggior ruolo della fiscalità generale è anche un mezzo per spostare il peso del finanziamento del sistema dal fattore lavoro ad altri fattori produttivi, facendo contribuire all’azione di risanamento del sistema pensionistico gli stessi pensionati (in quanto percettori di redditi o in quanto consumatori, con un carico fiscale che nel primo caso tende a d essere progressivo, nel secondo invece regressivo).
4 Con qualche ambiguità, perché la legge si limita a stabilire che a cadenza decennale si dovrà procedere ad aggiornare i cd coefficienti di trasformazione – che stabiliscono come il montante previdenziale accumulato in capo a ciascun soggetto al momento del pensionamento debba tramutarsi in trattamenti pensionistici per la sua vita residua (e in trattamenti a favore degli eventuali sopravviventi) — sulla base delle statistiche aggiornate sull’aspettativa di vita residua. La cadenza decennale dell’aggiustamento è fonte di problemi perché si vengono così a generare salti nei trattamenti garantiti a chi vada in pensione subito prima o subito dopo l’aggiustamento, con iniquità ingiustificate e che potrebbero indurre un eccesso di pensionamenti giusto in prossimità dell’aggiustamento stesso. La non automaticità dell’aggiustamento è poi fonte di tensioni e rischi politici, per via del possibile affacciarsi della tentazione di mitigarne o procrastinarne l’effettuazione, un’eventualità già materializzatasi in occasione del primo di questi aggiustamenti che avrebbe dovuto aver luogo nel 2005 e non è stato attuato, presumibilmente per non accentuare uno scontro già aspro per via delle altre misure previdenziali varate nel 2004. Va detto che le conseguenze pratiche del ritardato (sino a ora mancato) aggiustamento dei coefficienti sono all’atto pratico irrilevanti perché quasi nessun trattamento viene oggi liquidato sulla base dei coefficienti di trasformazione e i futuri adeguamenti di questi terranno conto delle statistiche nel frattempo aggiornate sulla longevità; il mancato intervento però dimostra come il previsto iter politico-istituzionale ponga a rischio la tenuta del sistema, che da questo aggiustamento alle realtà demografiche dipende per il mantenimento della propria sostenibilità finanziaria.
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