QUADERNI EUROPEI SUL NUOVO WELFARE

Salute e disabilità: il caso italiano

di Angelo Carenzi
Direttore CEFASS, Vice Presidente Federsanità, Milano

Nel contesto italiano non sembrano evidenti i tentativi di ridefinire il concetto di salute: il riferimento rimane quanto proposto dall’OMS nel 1946 “la salute non è semplicemente l’assenza di malattia, ma lo stato di completo benessere fisico, mentale e sociale”. In questa ottica, la salute diventa una componente fondamentale della vita e una sorta di principio di riferimento dell’esistenza personale e della società. Infatti l’OMS definisce anche le condizioni per una esperienza di salute: la pace, un tetto, l’istruzione, il cibo, un reddito, un ecosistema stabile, la disponibilità delle risorse, la giustizia e l’equità sociale.
Risulta evidente l’importanza della promozione di una visione così complessiva: tuttavia non possiamo nasconderci che questa impostazione, se non è contestualizzata, racchiude diversi pericoli. Il primo consiste nel fatto che la stragrande maggioranza della popolazione mondiale sembrerebbe destinata a una esperienza di vita caratterizzata dall’impossibilità di essere in salute o da una salute precaria data la difficoltà di poter disporre in modo continuativo e garantito di tutte le condizioni proposte dall’OMS. Il secondo pericolo sta nel fatto che viene naturale attribuire alla sanità il compito di tutelare la salute, ma una salute così concepita va ben oltre la possibilità di intervento della sanità a meno di espandere all’infinito i suoi compiti e le sue responsabilità.
L’ultimo pericolo che sembra opportuno sottolineare è l’eccesso di medicalizzazione che ne può derivare, intendendo con questo l’estensione della giurisdizione della medicina a problemi e condizioni che in passato non erano concepiti come bisogni da affidare alla competenza del medico.
In assenza di un dibattito specifico sul concetto di salute e tenendo conto delle criticità che emergono dalla traduzione nel quotidiano del principio ispiratore, ci sembra interessante analizzare come si è modificato nel tempo il Servizio Sanitario che, nel nostro paese, è stato voluto per garantire o tutelare la salute, assumendo che i cambiamenti del Servizio comportino implicitamente un riposizionamento di responsabilità e competenze nei confronti della salute.

1. L’evoluzione del SSN in Italia

Nel dicembre 1978, con la legge 833, veniva istituito in Italia il Servizio Sanitario Nazionale (SSN). La nuova organizzazione voluta dal legislatore per garantire la salute dei cittadini, prendeva come modello il National Health Service inglese e si ispirava al concetto di salute proposto dall’OMS. Basandosi in modo forte sui principi di universalismo e di solidarismo, tendeva a offrire a tutti un libero e gratuito accesso a ogni tipo di prestazione ritenuta in qualche modo utile per la tutela della salute. Un ampio risalto era riservato alla prevenzione e all’integrazione dei servizi sociali e sanitari nel tentativo di dare una risposta articolata al bisogno di salute. La gestione delle Unità Sanitarie Locali, che in alcune Regioni si chiamavano Unità Socio-Sanitarie Locali per sottolinearne la pluralità di competenze, era affidata a rappresentanti dei Comuni nella convinzione che l’esperienza di salute come prima definita potesse essere garantita solo nell’ambito di una visione politica. Pur delegando la gestione delle strutture sanitarie alle espressioni delle comunità locali, lo Stato si poneva al centro del sistema con molteplici ruoli: di definizione dei bisogni collegati alla salute, di programmazione degli interventi, di collettore dei fondi, di pagatore delle prestazioni e di possessore della gran parte delle strutture erogatrici di servizi sanitari.
L’assunto su cui si basava il sistema era che lo Stato fosse il soggetto ideale per garantire un’esperienza di salute che presupponeva interventi di competenze aggiuntive rispetto a quelle che potevano essere assicurate dagli operatori sanitari. Anche se non privo di fascino, questo modello denunciò rapidamente delle profonde debolezze che dimostrarono la fragilità del fondamento ideologico: il dare “tutto a tutti” presupponeva una disponibilità di risorse tendente all’infinito e, poichè le risorse sono per loro natura limitate, di fronte a una domanda di servizi in continua crescita, il “tutto a tutti” rischiò di trasformarsi in un “poco per tutti” nell’ottica di un principio di uguaglianza peraltro, successivamente, superato dal principio di equità che presuppone di dare a ciascuno secondo il bisogno. la gestione centralizzata della spesa sanitaria si dimostrò incapace di controllare la spesa stessa in quanto il consuntivo fu sempre superiore rispetto al fondo sanitario preventivato e messo a disposizione del sistema, e il meccanismo di ripiano, regolarmente attuato ogni anno successivo, rese il deficit un elemento strutturale della spesa premiando di fatto i comportamenti meno efficienti; la gestione dei politici introdusse criteri che avevano poco a che fare con il buon funzionamento del servizio come la convinzione che il settore sanitario pubblico fosse rilevante per garantire l’occupazione.
Alla fine degli anni ’80 il SSN denunciò una crisi profonda che si rivelò rapidamente irreversibile: gli anni ’90 furono caratterizzati da interventi legislativi (502/92; 517/93; 229/99) che introdussero profondi cambiamenti. Tra i più rilevanti: la trasformazione delle Unità Sanitarie Locali in Aziende Sanitarie, la gestione delle Aziende affidate a manager, la definizione di Livelli Essenziali di Assistenza (LEA) da garantire in modo uniforme sul territorio nazionale. Appare oggi evidente che l’intento del legislatore fosse quello di introdurre nel sistema dei fattori che permettessero un aumento di efficienza delle strutture erogatrici di prestazioni sanitarie e aumentassero la responsabilizzazione della gestione periferica, senza modificare la missione del sistema, che rimaneva quella di garantire un servizio pubblico alla persona in un contesto di solidarismo e di universalismo.
Una novità importante era però costituita dai LEA: pur essendo molto ampi e comprendendo la maggior parte delle prestazioni prima erogate, per la prima volta vennero delimitati i processi di assistenza che il servizio pubblico è tenuto a garantire e riposizionate le competenze della sanità nel compito di tutela della salute. Comparvero concetti quali l’appropriatezza delle prescrizioni e l’appropriatezza delle erogazioni, l’efficacia delle cure e dei percorsi diagnostici, la valutazione costo-efficacia dei diversi interventi, l’essenzialità dei processi che il S.S.N. deve garantire. Senza rimettere in discussione il concetto di salute, si avviò però un processo di divaricazione tra quanto contenuto nella domanda di salute e quanto garantito a carico del finanziamento pubblico. Possiamo prendere ad esempio gli interventi di chirurgia estetica: un intervento di rinoplastica per soli motivi estetici può essere importante per il benessere psico-fisico della persona, parte significativa della sua esperienza di salute, ma non è ritenuto essenziale dal S.S.N. e quindi non è ammissibile al finanziamento pubblico. Il concetto di salute viene quindi ridimensionato nei fatti, almeno per quanto riguarda le competenze a carico del Servizio Sanitario.
Un ulteriore grande cambiamento avvenne nel 2001 con l’attuazione del federalismo a seguito del cambiamento del Titolo V, parte II, della Costituzione: le competenze in materia di sanità furono trasferite alle Regioni. Al Ministero della Salute rimasero: la definizione del Piano Sanitario Nazionale, l’elaborazione dei Livelli Essenziali e Appropriati di Assistenza, la vigilanza sulla loro applicazione uniforme sul territorio nazionale, la determinazione del Fondo Sanitario Nazionale e la sua ripartizione alle diverse Regioni. Alle Regioni fu conferita la piena potestà di decidere il modello del Servizio Sanitario Regionale, l’organizzazione e il metodo di governo e la responsabilità della spesa. Un processo di responsabilizzazione delle realtà periferiche rispetto allo Stato centrale e di avvicinamento delle istituzioni ai cittadini per organizzare e programmare la risposta ai bisogni primari delle persone quale il bisogno di salute, è sicuramente positivo. Va tuttavia segnalato che negli ultimi anni la differenza tra i livelli di qualità e di accessibilità alle prestazioni, dei diversi Servizi Sanitari Regionali è cresciuta piuttosto che diminuita, configurando nel tempo una situazione di seria difficoltà nel garantire l’uniformità di applicazione dei LEA su tutto il territorio nazionale.
Per completezza va detto che non sono mancati, anche negli ultimi anni, provvedimenti normativi e scelte organizzative come i distretti socio-sanitari, tendenti a preservare e migliorare l’integrazione socio-sanitaria, ma la divisione tra competenze relative alla sfera sociale affidate al Ministero del Welfare e ai Comuni e quelle relative alla Sanità di competenza del Ministero della Salute e delle Regioni, si è tendenzialmente accentuata. Non sono mancate anche innovazioni significative come il modello attuato dalla Regione Lombardia, che si fonda non solo sul principio di sussidiarietà verticale insito nel Federalismo, ma essenzialmente su quello di sussidiarietà orizzontale che richiama il primato della società rispetto allo Stato e alle sue Istituzioni nel creare risposte adeguate ai bisogni primari della persona. In questo modello, la società viene stimolata a mettere a disposizione le sue capacità e la sua iniziativa, il servizio pubblico non è più dipendente dalla natura giuridica di chi lo eroga, ma dai livelli di qualità raggiunti a costi concordati, livelli riconosciuti e monitorati dal processo di accreditamento. L’istituzione Regione ha il governo del sistema, detta le regole, controlla e interviene in modo vicariante quando la società non è in grado di fornire un servizio adeguato. Questo modello è interessante per molti aspetti: quello più rilevante in questo contesto è che mette il cittadino, in forma singola o associata, nella condizione di protagonista nel progetto di tutela della salute, senza peraltro deresponsabilizzare l’Istituzione. La rilevanza di questa scelta appare ancor più evidente se si pensa a quanto sia cambiata la cultura della nostra società negli ultimi trent’anni: l’esperienza di salute viene concepita in uno stato di benessere sempre più elevato, la domanda di salute continua a crescere non solo come richiesta di prestazioni, ma anche come qualità dei servizi e qualità di vita, la persone sono più consapevoli dei propri diritti e richiedono con decisione di essere informati e resi corresponsabili nelle scelte che riguardano loro stesse e i loro familiari, i desideri, come quello di immortalità o di bellezza, tendono a diventare bisogni. Si potrebbe dire che tutto ciò rappresenta una “modernizzazione” del concetto di salute proposto dall’OMS all’inizio della seconda metà del secolo scorso e prospetta una crescita della domanda non solo di tipo quantitativo ma anche qualitativo, difficilmente sostenibile con le risorse a disposizione. Mettere il cittadino o i diversi soggetti attivi presenti nella società civile nella condizione di essere protagonisti nel creare la risposta alla domanda di salute, non significa solo poter usufruire di capacità imprenditoriali e gestionali, ma anche costringere la società a interrogarsi sugli aspetti etici, di appropriatezza e di sostenibilità della domanda che essa stessa esprime.A giudizio personale, la visione olistica contenuta nel concetto di salute dell’OMS presa come principio ispiratore del S.S.N. e la centralità dello Stato nel ruolo di unico garante del sistema sono state una affascinante ingenuità perché ricche di suggestioni, ma prive di aderenza alla realtà.
Un maggior realismo nell’intendere la salute e una ridefinizione delle competenze dei vari settori implicati, a cominciare dalla sanità, con una seria valutazione della qualità, dell’appropriatezza e dell’efficienza erano indubbiamente necessari. L’abbandono dell’ideologia dello stato sociale dovrebbe lasciare sempre più spazio a una vera cultura della salute e all’iniziativa della società civile, avendo cura di evitare un processo di industrializzazione della sanità che porterebbe a far coincidere il prendersi cura delle persone con le semplici procedure.


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