QUADERNI EUROPEI SUL NUOVO WELFARE

Invecchiamento e svecchiamento demografico: ricadute sociali

1. Il contesto europeo dell’invecchiamento

All’invecchiamento della popolazione, dovunque in Europa, è assegnata la responsabilità di costringere i governi a rivedere e riformare i sistemi pensionistici. Da questa necessità, via via più imperativa, scaturiscono conseguenze immediate che mettono in discussione l’intero assetto delle politiche economiche e sociali dei paesi europei: anzi, di tutta l’Europa, giacché questa riforma rappresenta e rappresenterà ancor più nei prossimi anni la nuova frontiera politica del dopo euro per l’Unione Europea allargata.
La moderna transizione demografica ha trovato proprio in Europa le due più accentuate caratterizzazioni: la forte diminuzione della fecondità e l’allungamento della vita con un ancor più marcato invecchiamento della popolazione. I due fenomeni strettamente collegati fra loro dal punto di vista della teoria e dell’esperienza demografica, trovano le misure più evidenti e più sintetiche nel tasso di fecondità totale e nella speranza di vita alla nascita.
A livello mondiale, secondo le ultime stime delle Nazioni Unite, si prevede che entro il 2050 nei paesi più sviluppati una persona su 11 avrà 80 anni o più. Nei paesi in via di sviluppo il 3% della popolazione apparterrà alla stessa fascia di età. Entro il 2150 nel mondo oltre 1,2 miliardi persone, cioè una persona su 10 avrà 80 anni e più; soltanto il 18% della popolazione mondiale sarà composta da bambini di meno di 15 anni, contro il 30% odierno.
Si prevede inoltre che la velocità con cui le popolazioni invecchieranno sarà sempre più elevata: in Giappone ad esempio la percentuale di anziani di età maggiore a 65 anni è passata dal 1974 al 1994 da 7 a 14%; lo stesso processo di transizione era durato ben 114 anni per la Francia! Si prevede che paesi quali il Brasile, l’Indonesia, la Corea del Sud e la Tunisia impiegheranno circa 25 anni per vedere aumentare nella stessa proporzione la percentuale di anziani sulla popolazione totale.
Per alcuni paesi, quali l’Italia ed il Giappone, si prevede inoltre che la percentuale di anziani sulla popolazione totale aumenterà fino a raggiungere il 21% prima del 2015. La stessa cosa si verificherà in Canada e negli Stati Uniti in un intervallo di tempo di poco superiore (Nazioni Unite, 1999). La necessità con la graduale e spontanea attivazione di un sistema di educazione permanente (long life learning) dovrebbe produrre l’effetto di una popolazione eternamente giovane; d’altra parte la prolungata dipendenza della popolazione giovane e di quella anziana frequentemente in pensione anticipata, rendono ormai sottilissima la fascia di popolazione tradizionalmente definita adulta. Infine si applicano misure sanitarie, assistenziali, fiscali e previdenziali a contingenti di popolazione vecchia che tale più non è.
La speranza di vita si è accresciuta costantemente nel corso del XX secolo e le cause di mortalità sono passate in gran parte dalle malattie infettive a quelle degenerative ed al deterioramento causato dalla senescenza. In conseguenza le persone anziane relativamente giovani, di età compresa cioè tra i 65 e i 75 anni, raggiungono la terza età in uno stato di salute relativamente buono e l’insieme degli anziani vive in condizioni di sicurezza economica. La condizione di salute e socio-economica dei più anziani è più sfavorevole come conseguenza del processo di invecchiamento individuale e delle disuguaglianze nelle possibilità di vita delle generazioni più anziane (Avramov e Maskova, 2002).
Sia la diminuzione della fecondità che l’invecchiamento della popolazione, con la loro ormai permanente e strutturale attualità, hanno sollevato e sollevano dibattiti scientifici ed ipotesi di intervento politico: con alterne e modeste fortune quanto ad impiego di risorse ed efficacia di risultati attesi e conseguiti.
è sempre aperta la ben nota questione dell’invecchiamento demografico e di quello reale: ovviamente con evidenti implicazioni sul sistema assicurativo e previdenziale dei paesi cui queste considerazioni si possono applicare. è congeniale all’analisi statistico-demografica l’accostamento di indicatori teorici con indicatori reali; cosicché riflettendo sull’invecchiamento e sulla sua abituale, ancorché parziale, misura di sintesi attraverso la speranza di vita alla nascita è facile rilevare che il semplice spostamento della soglia anagrafica dell’età media alla morte non comporta di per sé:
a) un meccanico ed automatico spostamento della soglia statistica della vecchiaia;
b) alcuna valutazione sulla durata della vita in cui le caratteristiche della vecchiaia possono ritenersi tipiche di una popolazione.
Sulla prima questione, già dalla tavola 1 si ricavano considerazioni evidenti: lo spostarsi della speranza di vita da circa 70 anni a circa 80 anni nell’ultimo mezzo secolo non comporta — né può comportare — un automatico spostamento della soglia statistica per le misure della vecchiaia e dell’invecchiamento “istituzionale” che in tutte le fonti ufficiali è rimasta invariabilmente bloccata al limite di 60 anni o al massimo di 65 anni.
Ne consegue, in termini puramente statistico-anagrafici, che il periodo “di vecchiaia istituzionale” si è allungato in mezzo secolo di oltre dieci anni, con le conseguenze assistenziali e previdenziali (e non solo) che è facile immaginare e che comunque sono sotto gli occhi di tutti. Molte variazioni sul tema (lavoro femminile, progressi della medicina, sistemi familiari e pubblici più o meno coinvolti, e via dicendo) possono accentuare questa lettura che non viene comunque messa in discussione per l’invarianza della soglia inferiore accettata come limite iniziale della vecchiaia istituzionale.
Altrettanto si può dire ed argomentare sulla seconda questione: il contenuto cioè del concetto e delle condizioni di “vecchio” oggi e mezzo secolo fa. Anche in questo caso la dipendenza e l’indipendenza dei singoli ultra sessantacinquenni; la loro salute; le loro condizioni psicologiche; l’istruzione, l’aggiornamento, il coinvolgimento sociale e molte altre questioni sono di frequente e ripetuta trattazione.
Senza essere demografo, ma con lucida osservazione, Norberto Bobbio (1996) sintetizza la questione cosi:
“La soglia della vecchiaia in questi ultimi anni si è spostata di circa un ventennio. Oggi il sessantenne è vecchio solo in senso burocratico, perché è giunto all’età in cui generalmente ha diritto ad una pensione. L’ottantenne, salvo eccezioni, era considerato un vecchio decrepito, di cui non valeva la pena di occuparsi. Oggi, invece, la vecchiaia, non burocratica ma psicologica, comincia quando ci si approssima agli ottanta, che è poi l’età media della vita, un po’ meno per i maschi, un po’ più per le donne.”
Rimettere in discussione queste questioni e le relative unità di misura significa sostanzialmente modificare, dal punto di vista demografico, i parametri strutturali delle popolazioni e trarne almeno due immediate conseguenze (standardizzate) sulle strutture demografiche europee:
a) la vita attiva, comunque riorganizzata, durerà 60 anni,
b) la “vecchiaia istituzionale media” (soprattutto assicurativa e pensionistica) si ridurrà dagli attuali 15-20 anni (circa) a circa 5 anni per il futuro a breve termine.
Il cambiamento radicale di concezione e misurazione della vita attiva ed inattiva è di tale evidenza da lasciare intuire le implicazioni di ordine politico ed economico; l’anzianità verrebbe praticamente abolita e la vecchiaia ridotta a uno stadio di vita che rivaluta le prospettive — del resto statisticamente crescenti — dagli ultra ottantenni e dei centenari.
Di qui la necessità di rivedere le definizioni di vecchiaia e di invecchiamento che tendono ormai a superare anche l’antica disquisizione sull’alternativa 60-65 anni come soglia iniziale della vecchiaia.


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