QUADERNI EUROPEI SUL NUOVO WELFARE

Il privilegio di lavorare dopo i 60 anni

La rivoluzione del 2000: l’allungamento della durata di vita e il problema della ricostruzione del welfare*

1. È utile ricordare innanzitutto alcune cifre:
• si stima che, all’epoca di Giulio Cesare, la speranza media di vita era di circa 20 anni, mentre un secolo fa, in Italia, era di circa 40. Ora è quasi di 80 anni. È chiaro che queste cifre sono molto influenzate dal tasso di mortalità infantile, ma questo spiega solo in parte il grande cambiamento;
• attualmente la speranza di vita a 60 anni è comunque di circa 20 anni;
• il tasso di occupazione in Europa per la classe di età fra i 55 e i 64 anni è del 38%, mentre è del 51% negli Stati Uniti e 71% in Giappone (e 50% in Olanda e Finlandia). L’Unione Europea ha definito un programma di incentivi, per far sì che il tasso medio di occupazione salga al 50% entro l’anno 2010. Negli ultimi tre anni questo tasso è già salito di circa il 2%. Esiste inoltre un programma europeo, da realizzare entro il 2006, per eliminare tutte le forme di discriminazione nei confronti dei lavoratori di età matura;
• nel 2000, in Italia, la popolazione sopra i 60 anni era del 24,4%. Nel 2040 questa percentuale potrebbe salire al 46,2%;
• il tasso di dipendenza (numero di persone sopra i 60% anni, sul numero degli attivi) è attualmente (nel 2000) a livello 0,40. Nel 2040 dovrebbe salire a 1,03;
• nel 2000, l’Italia ha speso in benefici sociali (pensioni pubbliche, salute e altri interventi sociali) il17,3% del Pnl, che potrebbe salire al 32% nel 2040 (in particolare, i settori della salute e altri salirebbero dal 5% circa al 12% del Pnl).
Siamo di fronte, in Italia e nel mondo, a un cambiamento di società di cui non si misurano ancora chiaramente le conseguenze e i contorni. Eppure si tratta di un cambiamento decisivo, come altri che succedono nella storia, come quello per esempio della scoperta dell’America (cosa di cui, nel 1492, nessuno si era reso conto, né aveva notato).
Vediamo di mettere in luce alcuni fra i punti chiave di riferimento.

2. Il primo punto chiave è quello che è definito abitualmente come “l’invecchiamento della popolazione”. Questa definizione è sbagliata poiché induce a una prospettiva di misure politiche ed economiche inadeguate. Non è innalzando unicamente l’età del pensionamento anche di 5 anni che in un anno si compensa un costante aumento della speranza di vita ogni 3 o 4 anni, come avviene ormai da un paio di decenni, e anche se questo ritmo sarà probabilmente — ma non necessariamente — decrescente nel prossimo futuro. Inoltre l’idea dell’“invecchiamento” si presenta come una punizione o un simbolo dell’incapacità della nostra società moderna di offrire una vita sempre migliore. La parola è quindi anche politicamente controproducente. Tanto più che noi viviamo di fatto non un periodo d’invecchiamento, ma di “svecchiamento” delle età più mature.
Si tratta infatti di un fenomeno di allungamento della durata di vita, in sempre migliori condizioni di forma e di salute fisica e mentale. Si pensi all’esempio seguente: un istituto francese di ricerca, invece di definire la “vecchiaia” in termini di età, ha dato una definizione in termini di capacità di vivere, di lavorare, di creare e di produrre autonomamente. Su questa base, la popolazione francese aveva negli anni ’80, 10% di “vecchi”. ma negli anni ’90, questa percentuale è scesa del 7%, malgrado la crescita della popolazione nelle classi di età più elevate.
Dunque, l’allungamento del ciclo di vita si accompagna a un ringiovanimento reale della popolazione.
Su questo punto i cosidetti paesi avanzati hanno dei grossi margini e opportunità di fronte a sè nei confronti dei cosidetti paesi “giovani”, meno sviluppati, ma che cominciano anche loro a entrare — e sempre più negli anni a venire — nella zona “demografica” che è la nostra. Fra pochissimi decenni, le nostre esperienze e politiche saranno preziose e decisive, a livello planetario. Il governo cinese ha dimostrato già da vari anni di esserne perfettamente cosciente.

3. In questo quadro si pone il problema dell’aumento dell’età del pensionamento. In alcuni paesi si prospetta già di abolire semplicemente i limiti di età. Questo in base all’idea che una vita lunga e sana è una vita attiva e, almeno in parte, legata a un lavoro.
D’altra parte, anche se la durata e la qualità della vita migliora, non si può negare che, con l’andare degli anni, la capacità di lavoro (soprattutto fisico) può subire e subisce spesso una riduzione.
A partire da 60 anni, il prolungamento della vita attiva dovrebbe potersi concentrare sempre più su quello che si definisce “metà tempo” (circa 20 ore settimanali o l’equivalente). Di fatto poi non si tratta di una “metà”, ma di una unità di riferimento, pietra basilare su cui fondare molti aspetti della politica sociale, che deve tener conto della necessità e possibilità:
• di avere tempo libero, per ogni tipo di attività, incluse quelle benevole (che hanno spesso valore economico indiretto, e che la pigra teoria economica generale attuale non sa riconoscere nel processo di formazione della ricchezza reale);
• di poter iniziare una nuova formazione, per aggiornarsi o per poter dedicarsi a una nuova professione;
• di estendere l’attività produttiva, rimunerata secondo diversi criteri, fino ai 70-80 anni e creare quindi la massima difesa per il mantenimento delle persone di età più avanzata fra i membri attivi e rispettati della società;
• di integrare questo lavoro di “quarto pilastro” (i primi tre sono le pensioni di stato basate su ripartizione, quelle legate al lavoro professionale fondate sulla capitalizzazione, e infine ogni tipo di risparmi individuali), con gli introiti degli altri tre, da articolare opportunamente e sopratutto da poter cumulare senza restrizioni. Un primo passo è già quello del “pensionamento graduale”.
Sarebbe quindi opportuno che le attuali discussioni politiche sull’aumento dell’età della pensione, si accompagnino con l’apertura del lavoro a tempo parziale, senza limiti nel tempo e comunque attuabile fino almeno all’età di 80 anni.
Se si guarda bene intorno a noi coloro che lavorano dopo i 60-65 anni — salvo una minoranza che deve essere meglio sostenuta dai programmi sociali — sono spesso dei privilegiati. Questo dovrebbe poter essere un PRIVILEGIO che col tempo sia distribuito o reso disponibile alla maggioranza della popolazione. In fondo, anche ai tempi dei re di Francia, le “pensioni” venivano inizialmente distribuite solo ai nobili o ai potenti (e qualche attore), fino a quando furono democratizzate.

* Testo di una conferenza tenuta al Rotary Club di Trieste il 12 febbraio 2004


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