QUADERNI EUROPEI SUL NUOVO WELFARE

Dopo la riforma previdenziale, quale prospettiva per il quarto pilastro?

di Angelo Scarioni
Presidente, Macros, Milano

1. Introduzione

Il tema del ‘dopo la riforma previdenziale, quale prospettiva per il quarto pilastro?’ è non solo di grande attualità generale, ma assume un aspetto rilevante per l’economia dell’Italia e per il suo equilibrio del sistema previdenziale.
Struttura previdenziale che, attraverso le riforme realizzate tra il 1992 e il 1995, si è dotata di un sistema pensionistico misto, basato sulla pensione pubblica obbligatoria a ripartizione e su varie forme di risparmio individuale a capitalizzazione, specificamente regolate e fiscalmente incentivate. In questo sistema, l’asse portante del risparmio individuale a capitalizzazione è costituito dalla previdenza complementare, basata sull’adesione volontaria a diverse forme pensionistiche, alimentate da versamenti differenziati per le diverse categorie di lavoratori e dalla previdenza individuale chiamato terzo pilastro.
Al pari di quanto è avvenuto in altri paesi, anche in Italia lo sviluppo del secondo e terzo pilastro è chiamato a svolgere un ruolo chiave a sostegno della previdenza pubblica a carattere obbligatorio, orientata ormai a un significativo ridimensionamento in favore di una maggiore responsabilità dei singoli e secondo un disegno facilmente riconducibile alle logiche della sussidiarietà. Il successo di queste due forme pensionistiche rappresenta dunque la premessa indispensabile per la sostenibilità delle pensioni a ripartizione e, al tempo stesso, un banco di prova del grado di reazione dei lavoratori al superamento di tradizionali forme di welfare.
Al riguardo occorre ricordare che il secondo pilastro o previdenza complementare è costituito da un insieme di fondi pensione, che il legislatore ha classificato in: fondi pensione “negoziale”, ovvero da fondi istituiti sulla base di contratti e accordi tra le parti sociali, rivolti a lavoratori dipendenti, che si distinguono in tre categorie (fondi negoziali aziendali e di gruppo, fondi pensione negoziali ad ambito territoriale e altri fondi negoziali). Per i fondi pensione rivolti a lavoratori autonomi e liberi professionisti le categorie sono due: fondi pensione negoziali ad ambito territoriale, altri fondi negoziali.
Le stesse fonti normative regolano la costituzione di fondi da parte di banche, SIM, imprese di assicurazione, società di gestione del risparmio, nonché enti autorizzati all’interno dell’Unione Europea. Tali fondi sono “aperti” alle adesioni dei lavoratori autonomi, dei liberi professionisti e dei lavoratori dipendenti per i quali non sussistano fondi “negoziali” o per i quali i contratti collettivi prevedano tale facoltà, ovvero per gli aderenti ai fondi negoziali che, avendo maturato i requisiti minimi di permanenza negli stessi, decidano di trasferire la propria posizione.
Con tale tipo di premesse, oggi in realtà si deve riconoscere che tale possibilità, soprattutto con riferimento al lavoro dipendente, è più di principio che effettiva. Stante il quadro normativo, infatti, il trasferimento ai fondi degli accantonamenti annui del TFR risulta possibile solo con l’adesione ai fondi di natura negoziale, attivati sulla base di “… contratti e accordi collettivi, anche aziendali, ovvero in mancanza, da accordi fra lavoratori promossi dai sindacati.”
In secondo luogo andrebbero poi considerate le particolarità del mercato del lavoro italiano, in cui la quota di lavoratori a tempo parziale è sicuramente inferiore a quella europea. La stessa considerazione andrebbe ripetuta anche con riferimento alla fonte di prepensionamento, da noi molto più legata alla componente di contrattazione sindacale.
In questo senso, la possibilità di crearsi una previdenza, può risultare sul piano dei fatti molto diversa tra i vari livelli e, con riferimento all’Italia, probabilmente meno favorevole.

2. Quale sviluppo per l’attuale assetto del sistema previdenziale?

L’attenzione sulle questioni demografiche e sulle difficoltà dei sistemi previdenziali, fa premio su temi che certamente preoccupano economisti e policy-makers. Perché gli effetti dei mutamenti demografici ci porteranno a preoccuparci dell’insufficienza della forza lavoro, perché c’è in ballo la sostenibilità futura del nostro sistema sociale ed economico.
Nel nostro Paese dal 1982 al 2001 il peso sulla popolazione di coloro che hanno più di 65 anni è salito dal 13,2% al 18,2%, mentre la quota di coloro che hanno meno di 15 anni è scesa dal 21,3% al 14,4%. D’altro canto la proiezione dell’andamento della popolazione italiana fotografata dall’Istat mostra una sensibile diminuzione della popolazione nella fascia 0-14 ed in particolare quella della fascia 15-64, con un aumento delle fasce da 65+ e 80+.

Figura 1: proiezione dell’andamento della popolazione italiana
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Fonte: Istat


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